Quel postribolante mercimonio del giornalismo #10

Oggi vi presentiamo la Regina delle fiere, una donna attempata che ormai si sta ritirando dalle postribolanti scene del giornalismo per acclarati limiti di età, i quali a questo punto ella non può più nascondere, nonostante le bocce straripanti di otto chili l’una, le forme maggiorate oltre Cindycrawfford e il fatto che lei si creda stocazzo.

Bei tempi eran quelli in cui, giovane e povera in canna, se ne andava in giro in barca per fiere sospese erranti a intervistare riccastri che non le potevano resistere, colpendoli sempre (a meno che gay) con quel suo sguardo magnetico, quegli occhi azzurrati che la elevavano a celestiale presenza femminile, oltre quelle bombe alla Venus del Grande Mazinga, tutte ritte, che sembravano pronte a esplodere un colpo mammario espulse direttamente sul suo nemico o, a seconda dei punti di vista, amico. Per non parlare naturalmente del suo trucco perfetto, lo smalto luccicante catarifrangente e i piedi profumati al limone.

Sì, bei tempi quelli, in cui essa lavorava nelle retrovie, e pure poco. Non le toccò di sgobbare mai molto perché prestissimo incontrò quel gran magnate industriale corrooottissimo che aveva un sacco di soldoni il quale la avvinse col fascino della sua testa grossa e tonda (che a lui calenda je faceva ‘na pippa).

Insomma la Regina delle fiere in quel periodo appariva e scompariva. Lavorava, era stipendiata, sì, ma in fondo si mostrava pochino. E tutti a chiedersi come mai una donna così attrezzata non fosse mostrata di più e che diavolo stesse facendo…

La risposta era semplice: si arredava casa. Un lavoro difficilissimo, il più impegnativo di tutta la sua vita, che la accompagnò per eoni e eoni, anni luce. E oggi che è vecchia neppure avrebbe tanto finito, avrebbe ancora da risistemare parecchio se l’età non le remasse contro. Provateci voi ad ammobiliare al meglio sette ville, due giacimenti di petrolio, una foresta semi-amazzonica, una base sulla luna, otto rifugi antiatomici e un’abitazione abusiva ricavata da un sottopalco nelle grotte di Fracazzi…

Ma torniamo alla sua epopea… Poi, finalmente, al culmine della sua maturità tettonico-artistica, ottenne il programma più importante di tutti. Che ben presto si trasformò nella sua personale vetrina per abbacinare il mondo con la sua bellezza ancheggiante, per dimostrare a tutti che lei sapeva quel che diceva, ma in ogni caso c’erano una manica di avvocati prezzolati che l’avrebbero difesa in tribunale; quindi meglio non romperle troppo le balle.

Ecco, furon quelli gli anni di sua maggiore fulgidezza, nei quali anche rifletté a lungo se non fosse il caso di scendere in politica per salvare il paese dall’invasione dei comunisti cino-russo-marziani rilanciando il suo marchio certificato d’evasori fiscali d’Italia nel mondo, che al solito c’era sempre qualcuno che lo metteva in discussione.

Per ben due volte fu vicinissima a diventare ancora più patriottica. La prima, fu tentata dal Partito Pensionati Arrapati Ricchi di Montecarlo con Tutto in Nero. Ma poi litigò col capo delegazione per una disputa sullo strascico che dovevano avere gli abiti da sposa e non se ne fece più niente.

La seconda volta era a un passo all’aderire al Partito Negazionista Nazional Fantacazzista Con Vista Sulle Lobby Delle Armi, ma anche lì non se ne fece niente poiché un giorno un suo follower su Twitter le fece una domanda politica oltremodo imbarazzante a cui non seppe rispondere (ovvero cosa ne pensava della Costituzione). Per la prima volta in vita sua, ella si sentì talmente inadeguata da abbandonare la politica tosto e per sempre, pur continuando a dissipare i suoi saggi consigli al mondo, del tipo: andate al mare invece di votare il referendum; usate sempre le infradito; meglio non aderire al veganesimo perché non vogliamo che i bambini nascano con insufficienze carnose; per i calli, la pietra pomice è una manna e dovrebbe essere innalzata a orgoglio nazionale (e prodotta col marchio DOC).

E oggi, che fine ha fatto la Regina delle fiere, che non la si vede più da nessuna parte? Ci dicono che, totalmente rincretinita, si stia dedicando a una questione per lei ormai divenuta irrinunciabile, lei che per tutta la vita ha sempre voluto dimostrare a tutti che poteva fare qualsiasi cosa a costo di rimetterci la fama e la santità mestruale: stia imparando a fare la maglia. Eppure sbaglia sempre qualcosa: i suoi maglioncini hanno sempre solo una manica e risultano come sbrindellati sul davanti, o sul di dietro, a seconda dei punti di vista.

Oggi, talvolta, palesa una bocca storta per il troppo botox. Talvolta non riesce a parlare, perché ormai lo stesso le è entrato in circolo arrivandogli fin nel cervello. Quando morirà ha già stabilito di donare il suo prorompente corpo al cimitero scientifico di Playboy, dove le donne più belle e formose vengono messe in naftalina, mummificate affinché di esse si possa godere nei secoli dei secoli – inoltre il suo chirurgo plastico di fiducia le ha garantito che le tettone le rimarranno su per almeno cinquanta anni, pure da morta.

Amen.

Didattica a distanza, ebook e… vaff…!

1 Il telelavoro è nato moltissimi anni fa. Ridicolo che lo si (ri)scopra solo oggi!

2 Nella stragrande maggioranza dei casi le lezioni che vengono impartite ogni giorno non rappresentano nulla di nuovo. Ovvero il loro contenuto informativo è sia ampiamente espresso da moltissimi libri, e sia stato comunicato molteplici volte in precedenza. Esempio: quante lezioni saranno state fatte sulla Seconda Guerra Mondiale, sul Romanticismo, su come si calcola l’area del cerchio, eccetera? Un’infinità! Dunque è ridicolo che esse debbano essere oggi registrate dal vivo, perché in precedenza non è stato fatto! Inoltre questo determina un grande spreco di risorse e tempo!

3 Dato che come detto esistono già i libri con le materie che si debbono studiare, la cosa più importante sarebbe insegnare ai bambini, una volta che hanno appreso a leggere e scrivere, a saper ricavare da soli le informazioni che devono introitare. Così non avranno più necessità che qualcuno gliele insegni e neppure di recarsi cinque giorni a settimana in un dato posto!

4 Ormai gli ebook sono una cosa normale per cui non si dovrebbero più spendere migliaia di euro per comprare i libri scolastici! Ma le associazioni dei genitori che ai miei tempi si muovevano per vietare i cartoni animati giapponesi alla tv (perché dicevano che erano troppo violenti!)… ma che cazzo fanno oltre a battersi per colossali cazzatone e disquisire sul sesso degli angeli?! Falliti!

Tarantino: C’era una volta a Hollywood

Un attore abituato a fare il cattivo nei film americani (Leonardo di Caprio) si rende conto che la sua carriera è destinata a farsi sempre più rarefatta, fino a oscurarsi. Allora segue il consiglio di un produttore: passare agli spaghetti-western che fanno in Italia. Così è probabile che la sua carriera se ne gioverà. Il suo fedele amico (Brad Pitt), molto più tosto di lui, che gli ha sempre fatto da controfigura, lo segue in questa nuova avventura, tra alti e bassi. Ma il culmine del film non si svolge in Italia, bensì nelle loro residenze americane. Difatti l’attore abita proprio vicino a un certo regista polacco che in quel periodo sta spaccando…

Tarantino riscrive il finale di una delle pagine più tristi e cruente di Hollywood (l’assassinio di Sharon Tate ad opera della setta di Manson) trasformandola in un tripudio di divertente, catartica violenza buona, cioè la violenza contro i fascisti (di qualsiasi tipo essi siano).

Yeah!

Baglioni: E tu

Alcune volte nella vita mi è capitato di sentirmi come in un film.

Sei lì in un momento cardine della tua vita sentimentale e ti parte in testa una canzone, come succede nei momenti topici dei film. Ecco, a me questa cosa è successa più volte. La prima probabilmente una ventina di anni fa, con una canzone (triste e di separazione) di Claudio Baglioni.

Essendo le canzoni di questo autore molto catartiche, più di una volta sono state proprio le sue a far accadere questo cortocircuito…

L’ultima volta mi è successo qualche settimana fa. Ero a letto, pensavo alla mia adorata fidanzata lontana e quanto sarebbe stato bello stringerla ancora tra le mie braccia… Lì è scoppiata E tu di Baglioni…

The monster (film horror)

Una madre ubriacona e sua figlia decenne stanno facendo un viaggio in macchina una notte lungo una strada praticamente deserta. A un tratto hanno un incidente. Sbattono contro un lupo. La macchina non parte più e loro rimangono ferite. Così devono chiamare carro attrezzi e ambulanza. Tuttavia presto si accorgono che il lupo stava lottando contro un’altra creatura non ben identificata, che si rivelerà essere un incrocio tra… alien e un dinosauro! Ma vaff…!

Nonostante gli sceneggiatori abbiano provato a dotare i personaggi di un background emotivo sostanzioso, il film delude moltissimo.

Impronte — Le cose minime <3

Anche a questo, dunque, serviva liberare casa mia:a fare spazio per chi doveva arrivare (a stare con me, cit.).E ogni giorno la casa stessa prende una nuova forma, la nostra impronta comune. Non sono più sola.Da quattro mesi me lo ripeto (e me lo ripete), eppure traluce ancora miracolo.Miracolo che non è la mondana e […]

Impronte — Le cose minime

Charlie says

Ispirato a una storia vera, narra di tre ragazze finite in una setta nella quale viene fatto loro un lavaggio del cervello tale da farle arrivare a compiere perfino degli omicidi gratuiti.

Il Charlie a cui fa riferimento il titolo è il famoso, demoniaco Charles Manson, un carismatico santone autoproclamatosi araldo di Dio sulla terra che avrebbe portato l’Apocalisse, il quale tutto sommato era solo un gran stronzone enormemente egocentrico con il dono di sapersi approfittare della gente che percepiva debole e manipolabile.

Furono questi bastardi che uccisero (e il fatto ebbe enorme risalto in cronaca, all’epoca) la bellissima moglie incinta del regista Roman Polanski, Sharon Tate, che tra l’altro sembra fosse anche una ragazza straordinariamente limpida e anche benevola.

Il film è interessante perché entra nei meccanismi del plagio mentale e del fervente integralismo.

PS: che poi questo Charlie, così come Hitler in realtà non sognava altro che di diventare pittore, voleva a sua volta fare il cantante e la rockstar… Coglione.

https://www.raiplay.it/programmi/charliesays

Julian Barnes: Il senso di una fine

Un uomo ormai anziano che ha vissuto la sua vita e crede di non avere particolari rimpianti, riceve un giorno la notifica che avrebbe ereditato una piccola cifra di denaro e anche un vecchio diario di un suo amico suicidatosi giovane. La cosa strana però è che la persona defunta che gli ha fatto tali elargizioni non è la sua ex ragazza, che poi si era messa con l’amico, bensì la madre della stessa. Questo genera in lui una crescente voglia di risolvere questo mistero. Allora dovrà rivalutare da capo la sua intera esistenza, comprese le bugie che si era detto per regalarsi un’esistenza più comoda.

La lontananza

Quel giorno avevamo avuto tre discussioni fiume che ci avevano impegnato diversi minuti, in cui non avevamo assolutamente litigato, però erano emerse delle differenze di vedute che avevano sorpreso entrambi. Avevamo discusso di amicizia e amore, di incrostazioni calcaree e di porte e maniglie.

Quando fu notte e ci ritrovammo a letto per dormire, lei si manifestò preoccupata per quel suo problema fisico che invero era già apparso dalla mattina e lei aveva sperato andasse via, ma non l’aveva fatto. Anzi in quel momento sembrava si fosse acuito.

Le doleva una gamba. Per farmi capire, lei usava l’espressione: ho la gamba “innervosita”. Si trattava di una sorta di irrigidimento eccessivo, come se il muscolo tendesse a contrarsi di sua iniziativa senza soluzione di continuità. A dire il vero non era la prima volta che le accadeva (anche nei giorni precedenti, anche se poi alla fine le era passato) ma mai la cosa si era spinta fino a quel punto. E, sopratutto, ciò non le permetteva di riposare.

A un certo punto mi rammentò che qualora fosse “successo qualcosa” il numero del suo medico era nel suo portafoglio. Io pensai allarmato: ma allora è così grave?! Stai rischiando di morire?! Pensai anche, come rivolto a Dio: non me la toglierai così presto, vero?! Non sarebbe giusto, è troppo presto! Era questo che avevi previsto fin dal principio per me?!

Nel buio di quella camera da letto cominciai a piangere silenziosamente. Lei non se ne accorse. A un certo punto volli farla partecipe che lo stavo facendo per lei. Allora le presi una mano, gliela baciai e poi gliela portai sotto il mio occhio. Lei sentì la lacrima. Disse: stai piangendo? Beh, piangere fa bene. Piangi, vedrai che dopo starai meglio.

Sembrava più tranquilla di me. Eppure non molto dopo anche il suo tono di voce incrinato rivelò quanto fosse da ultimo stanca, preoccupata – chissà, forse anche lei si era rivolta a Dio chiedendogli perché le stava tirando quel brutto tiro, proprio nel momento in cui le aveva fatto trovare l’amore di tutta una vita.

Sentii ora che parlava con voce malferma. Mi disse cosa voleva fare: prendersi quello che lei chiamava il pastigliotto, che altro non era che uno psicofarmaco che le era stato segnato tempo prima, l’ultima volta che si era sentita vicina alla depressione. Questo farmaco su lei aveva un forte potere sedante, tanto che le poche volte che lo aveva preso poi aveva dormito tantissime ore. Insomma lei voleva usare quel farmaco per forzarsi a dormire, come fosse stato una specie di sonnifero.

Ma io, che diffido sempre della chimica, che cerco sempre di prendere meno medicine possibili e che al più mi servo dell’aspirina, e solo quando è strettamente necessaria, io che più di una volta in passato mi ero svegliato nel cuore della notte perché mi stava succedendo qualcosa di brutto che avrebbe potuto mettere a repentaglio la mia intera vita, e delle volte mi era anche successo di non riuscire a svegliarmi, di urlare nel sogno per cercare di svegliarmi senza riuscire a farlo; io che avevo udito il mio cuore fermarsi, oppure esser prossimo a un infarto; io che dunque ritenevo necessario e più profittevole in certe situazioni a rischio rimanere desti così da poter prender decisioni se la situazione fosse precipitata… Io, per tutte quelle ragioni, non volevo che lei si prendesse qualcosa che le avrebbe indotto artificialmente un sonno profondo, tanto più che neppure sapevamo esattamente cosa avesse. Dal mio punto di vista il problema vero non era che lei non riuscisse a dormire ma che aveva quel dolore che le impediva di farlo. Dunque per la quarta volta in poche ore discutemmo trovandoci su lati opposti della barricata.

Ma stavolta fu diverso. Perché si trattava di qualcosa di serio e importante, non di stupidaggini e capziosità come prima. Stavolta era la sua salute a esser in ballo, se non addirittura la sua vita.

Compresi che lei non era affatto contenta che io pensassi che non doveva prendere quella pastiglia.

Discutemmo a cosa si potesse imputare quel suo malessere. Forse il ventilatore, che guarda caso quel giorno lei mi aveva fatto spostare su di lei, perché sentiva caldo. Forse era il caffè che le avevo fatto prendere tutti i giorni, quando lei non era abituata… Forse c’era dell’altro. Forse era la sua malattia genetica rara che si manifestava in maniera casuale, battendo un colpo.

Alla fine sperammo che qualcosa di caldo le avrebbe fatto bene. Mi chiese se avevo una camomilla. Io non ce l’avevo. Ti improvviso qualcosa, non ci metterò troppo tempo, le dissi.

Usai come base il tè deteinato. Lei mi chiese se potevo garantirle che non le avrebbe rovinato il sonno. Io ero sicuro: essendo molto recettivo agli stimolanti, potevo certificarle che quel tè non ne contenesse; non era come il caffè decaffeinato, che comunque un po’ di caffeina la ha. Vi aggiunsi un tocco di zenzero, tra le cui proprietà speravo ci potesse essere qualcosa capace di calmarla. Infine usai molta cannella, anche per evitare che lei eccedesse con lo zucchero, che di per sé anche quello è un eccitante, dal mio punto di vista.

Lei assaggiò, disse che quella bevanda era buona e non aggiunse altro zucchero.

Provammo a rimetterci a letto. Continuammo a elucubrare sulle cause. Lei si accorse che la bevanda calda non aveva sortito effetto. Avrebbe voluto prendere quella pastiglia.

La sentii irrigidirsi, diventare insofferente alle mie parole, che le volli dire comunque, anche se appena avevo cominciato con la filippica antipastiglia lei già non ne poteva più e sbuffava.

Una volta terminato di parlare, lei ce l’aveva con me. Era evidente che giudicasse il mio consiglio, quella indicazione che le avevo dato, una palese intromissione nella sua vita. Inoltre riteneva le mia parole impositive. E per esser certa che su quella faccenda non aggiungessi neppure una parola di più mi disse che si sarebbe alzata andando di là.

Mi sbalordì. Quel volersi distaccare da me mi preoccupò. Non sentivo di essermi meritato quell’esilio da lei.

Le proposi di andare io di là, se lei voleva rimanere sola. Ma lei ribadì che preferiva che io restassi lì: lei di là avrebbe anche camminato, mi disse, cosa che non poteva fare nella camera da letto in cui ci trovavamo. Tu dormi, mi disse, e se ne andò.

Percepii subito un grosso vuoto. Perché lei non mi voleva intorno, lei era arrabbiata con me, tanto arrabbiata che non sopportava più la mia vista. Mi chiesi se non avesse avuto ragione a esserlo. Allora avrei tanto voluto rivivere quegli ultimi minuti in cui avevamo discusso per constatare con le mie orecchie se davvero le avevo detto qualcosa di così sconveniente. Ma a dire il vero, al contrario di altre volte in cui potevo aver commesso degli errori con delle ragazze e avevo potuto pentirmene, qui non ne ravvisavo nel mio comportamento. Forse le avevo rotto troppo le palle, ero stato troppo pedante proprio nel momento sbagliato; però in fondo le avevo detto quelle cose solo perché ci credevo. E poi il mio era stato un consiglio, non l’imposizione che lei stava vivendo. Mi chiesi cosa sarebbe accaduto se lei avesse messo in pratica l’idea di prendere quella pastiglia. Forse avrei insistito ancora sulla mia posizione? Forse mestamente avrei accettato la sua decisione e basta rimanendo poi in tensione tutta la notte e la mattina finché non si fosse risvegliata?

Solo nella stanza, con lei che era andata di là, mi chiesi: che faccio? Dovrei andarle dietro, sforzarmi di dialogare ancora?

Ma era evidente che non potessi più farlo, perché lei non sopportava che potessi parlarle, dunque facendolo non avrei fatto altro che inasprire la situazione. Niente, non potevo far niente! Potevo solo rimanere in quella stanza vuota e aspettare.

Pensai che quella era la prima volta che la sentivo davvero lontana. D’accordo, capivo che era spaventata, arrabbiata, stressata, ma non dovevamo essere in due, non era questo che ci eravamo detti, in salute e in malattia?

Mi sentivo ripudiato da lei – sino allora era stata sempre gentile e strafelice di starmi accanto – e per di più per una motivazione di cui non mi sentivo colpevole. Questo mi fece riflettere. E mi fece avere dei dubbi. Anche noi finiremo come quelle coppie che poi a un certo punto scoppiano e non si possono più vedere? Pregavo di no.

Ma a dire il vero in tale ambito più di ogni altra cosa mi preoccupava il suo cambiamento repentino, che me la faceva vedere adesso come una persona estranea a me: che era estranea perché voleva esserlo. Una persona che non accettava il dialogo. E quella era una delle mie paure (sino allora immotivate) più grandi rispetto lei: che a un certo punto lei fosse partita per la tangente, per qualcosa di non così importante, ovvero senza che io le avessi fornito un assist degno e mi imputasse colpe che non avevo.

Mi girai nel letto. Diedi un occhio all’ora. Erano le quattro di notte. Pensai che sarebbe stato conveniente se fossi riuscito a dormire. Domani – ovvero tra poche ore – c’era da cucinare parecchio e se la situazione con lei che non riusciva a dormire non si fosse sbloccata, serviva uno dei due più riposato e sveglio per fare le cose, qualsiasi cosa ci fosse stata da fare.

Teoricamente lei sarebbe dovuta ripartire per casa sua tra due giorni. Avevamo già preso il biglietto. Ma avrebbe potuto farlo in quelle condizioni? E se si aggravava? Pensai all’ipotesi di portarla al pronto soccorso. O forse, presto, mi sarebbe toccato di andare su da lei, nonostante la mia grande difficoltà a indossare la mascherina per tanto tempo…

Riuscii a dormire un paio d’ore. Mi svegliai più o meno all’alba. Fuori c’era la tenue luce del mattino. Per prima cosa andai a trovarla.

Come starà il mio amore?, mi chiedevo. Ma un po’ me lo aspettavo. Infatti vedevo che di là la luce era accesa. Prima di recarmi in bagno ancora insonnolito, mi spinsi verso lei.

Il mio amore era sulla poltrona, la tv accesa in sottofondo. Appena entrai nel suo campo visivo lei era già lì ad attendermi, con gli occhi guardinghi. Non sei riuscita a dormire?, le chiesi. No, disse lei con la faccia stanca e contrariata (ma meno di appena due ore prima, o almeno così mi sembrò).

Andai in bagno. Poi mi recai in cucina per fare colazione. Lei mi volle raggiungere in quel momento. Tu hai dormito?, mi chiese. Io annuii sentendomi colpevole. Sembrò invidiarmi. Aveva uno sguardo alterato che non le avevo mai visto. Poi improvvisamente mi chiese se in casa avessimo psicofarmaci o ansiolitici. Io le dissi di no, perché non c’erano, e mi chiesi ancora una volta se quello era il suo modo di risolvere le cose. Ma aveva un problema fisico o uno psicologico?

Poi cominciò a parlare come un fiume in piena. Mi disse che non avrei dovuto impedirle di prendere quella pastiglia, che si pentiva di avermi accontentato, che qualora l’avesse presa a quest’ora il problema sarebbe stato già risolto. Io però continuavo a pensare che forzarsi a dormire mentre ti fa male una gamba non fosse qualcosa da auspicarsi; tuttavia non fiatai. Mi disse che nella sua vita si era sempre piegata suo malgrado alle volontà degli altri, e non ne poteva più e con me sperava che avesse potuto per una volta essere solo se stessa, ma io le avevo impedito di farlo. Mi disse che sapeva che avevo buone intenzioni ma non dovevo intromettermi quando si trattava della sua vita e della sua salute. Io pensai che se avesse voluto prendere quel pastigliotto, prima le avrei fatto chiamare la dottoressa che la seguiva, con cui lei si trovava molto in sintonia. Era l’unica persona sulla faccia della terra che le poteva impedire di prendere quel farmaco. A ogni modo in quel momento il problema maggiore era che lei ancora non era tornata in uno stato fisico normale. E non sapevamo ancora da cosa quello avesse potuto dipendere.

Sentivo la sua rabbia. Ne ero addolorato. Ma ancora non mi sentivo in fallo. Anzi pensai qualcosa del tipo che anche lei era umana: stava indirizzando su di me le sue frustrazioni. Non sono io il tuo problema, ma questa cosa che ti è venuta, avrei voluto dirle. Ma non lo feci perché ancora una volta percepii nettamente che se avessi aperto bocca e mi fossi azzardato a dire qualcosa che lei avesse interpretato come sbagliato o non consono, sarebbe stata capace di porre fine all’istante a quel nostro rapporto fino allora così bello.

Alla fine sbottò, le si arrossarono gli occhi e pianse. Pianse anche un po’ per colpa mia. Pianse perché stava male. Pianse perché mi sentiva in qualche modo responsabile. Pianse perché quella discussione per la prima volta la faceva dubitare del nostro rapporto. Pianse perché mi amava ma aveva preferito scacciarmi per non avermi intorno nelle ultime due ore.

Così, con una faccia che credo fosse assai dispiaciuta, le dissi solo: mi dispiace. Non potevo far altro.

Ci abbracciammo in quella cucina, suppergiù alle sei del mattino. Dopo lei sembrò comunque subito molto più serena. Mi propose di vedere assieme la televisione in salotto. Accettai. Ci sistemammo sul divano.

Poco dopo mi accorsi che aveva dei momenti che sembrava stesse scivolando nel sonno. Mi sentii felice. Ma stava anche scivolando da quel divano che delle volte sa essere disagevole come pochi. Allora, quando lei sfiorava già una sorta di dormiveglia, sapendo che sarebbe stata male a dormicchiare su quel divano in quella posizione e più volte avrebbe potuto scivolare verso il pavimento, le proposi di andare di là nel lettone. Lei tornò ad appoggiare le mie parole come faceva quasi sempre.

Nel lettone stabilimmo di stare abbracciati e stretti in una posa che non fosse scomoda per nessuno dei due. Ci baciammo.

Pochi secondi dopo sentii che si stava rilassando. Stava finalmente andando verso il sonno. Eppure come era disturbato quell’accenno di sonno! Lei dava molti scossoni, con le gambe, con le braccia; e gli stessi rischiavano di farla ogni volta ridestare. Le accarezzai la testa come fosse il Bene più prezioso che avessi mai avuto. E lo era.

Lei, calmatasi, cominciava ad avere il respiro pesante di chi dorme. Il miracolo stava avvenendo! Ringraziai Dio. Ma c’erano ancora quelle scosse che la scombussolavano da capo a piedi. Me la tenni più stretta, come a domarle. Era come dicessi che lì c’ero io, e io volevo che venisse il sonno, non avrei permesso ad altri problemi di saltarle addosso mentre era così indifesa.

Presi ad accarezzarle il braccio con una specie di stretta-massaggio. Presto notai che il suo respiro disturbato e irregolare poteva in qualche modo esser reso più regolare se cadenzavo la mia stretta su di lei.

Trascorremmo un’ora così e io per tutto il tempo fui lì a carezzarla e stringerla a me, a coccolarla, e lei dormiva come una bambina.

Poi dovetti alzarmi per andare a preparare il pranzo. Più volte tornai da lei a controllarla. Lei adesso dormiva da sola, spedita. Più volte tornai a coricarmi con lei e poi ad alzarmi quando c’era da controllare il forno. Lei dormiva.

Quel giorno le feci trovare per pranzo tante cose buone che sapevo le piacevano. I burger vegetali, di due tipi diversi, dei carciofi al forno, delle patatine fritte al forno, e per ultimo del riso in bianco. In realtà erano tutte cose che ero certo non le avrebbero fatto male.

Da quel giorno stabilimmo di non farle più bere caffè, e anche il ventilatore non lo puntammo più su di lei. Lei si riprese, migliorò. Non capimmo cosa ebbe. In seguito pensammo che quel suo malessere potesse esser stato causato della sua caratteristica carenza di ferro, la quale poteva dare strane avvisaglie, anche di quel tipo.

Quanto amo la mia piccola bambina… ❤

Su al Nord — Le cose minime

Sia io sia l’Arrotino siamo personaggi piuttosto particolari; fissati col metodo (a ognuno il proprio), schizzinosi e idiosincratici.Ora che è il turno suo di vivere in terra straniera, tutto questo ribolle come in un calderone da strega.Ho pensato perciò che, in consonanza col suo post su di me, sarebbe stato carino scriverne uno sulle sue […]

Su al Nord — Le cose minime