Quel giorno avevamo avuto tre discussioni fiume che ci avevano impegnato diversi minuti, in cui non avevamo assolutamente litigato, però erano emerse delle differenze di vedute che avevano sorpreso entrambi. Avevamo discusso di amicizia e amore, di incrostazioni calcaree e di porte e maniglie.
Quando fu notte e ci ritrovammo a letto per dormire, lei si manifestò preoccupata per quel suo problema fisico che invero era già apparso dalla mattina e lei aveva sperato andasse via, ma non l’aveva fatto. Anzi in quel momento sembrava si fosse acuito.
Le doleva una gamba. Per farmi capire, lei usava l’espressione: ho la gamba “innervosita”. Si trattava di una sorta di irrigidimento eccessivo, come se il muscolo tendesse a contrarsi di sua iniziativa senza soluzione di continuità. A dire il vero non era la prima volta che le accadeva (anche nei giorni precedenti, anche se poi alla fine le era passato) ma mai la cosa si era spinta fino a quel punto. E, sopratutto, ciò non le permetteva di riposare.
A un certo punto mi rammentò che qualora fosse “successo qualcosa” il numero del suo medico era nel suo portafoglio. Io pensai allarmato: ma allora è così grave?! Stai rischiando di morire?! Pensai anche, come rivolto a Dio: non me la toglierai così presto, vero?! Non sarebbe giusto, è troppo presto! Era questo che avevi previsto fin dal principio per me?!
Nel buio di quella camera da letto cominciai a piangere silenziosamente. Lei non se ne accorse. A un certo punto volli farla partecipe che lo stavo facendo per lei. Allora le presi una mano, gliela baciai e poi gliela portai sotto il mio occhio. Lei sentì la lacrima. Disse: stai piangendo? Beh, piangere fa bene. Piangi, vedrai che dopo starai meglio.
Sembrava più tranquilla di me. Eppure non molto dopo anche il suo tono di voce incrinato rivelò quanto fosse da ultimo stanca, preoccupata – chissà, forse anche lei si era rivolta a Dio chiedendogli perché le stava tirando quel brutto tiro, proprio nel momento in cui le aveva fatto trovare l’amore di tutta una vita.
Sentii ora che parlava con voce malferma. Mi disse cosa voleva fare: prendersi quello che lei chiamava il pastigliotto, che altro non era che uno psicofarmaco che le era stato segnato tempo prima, l’ultima volta che si era sentita vicina alla depressione. Questo farmaco su lei aveva un forte potere sedante, tanto che le poche volte che lo aveva preso poi aveva dormito tantissime ore. Insomma lei voleva usare quel farmaco per forzarsi a dormire, come fosse stato una specie di sonnifero.
Ma io, che diffido sempre della chimica, che cerco sempre di prendere meno medicine possibili e che al più mi servo dell’aspirina, e solo quando è strettamente necessaria, io che più di una volta in passato mi ero svegliato nel cuore della notte perché mi stava succedendo qualcosa di brutto che avrebbe potuto mettere a repentaglio la mia intera vita, e delle volte mi era anche successo di non riuscire a svegliarmi, di urlare nel sogno per cercare di svegliarmi senza riuscire a farlo; io che avevo udito il mio cuore fermarsi, oppure esser prossimo a un infarto; io che dunque ritenevo necessario e più profittevole in certe situazioni a rischio rimanere desti così da poter prender decisioni se la situazione fosse precipitata… Io, per tutte quelle ragioni, non volevo che lei si prendesse qualcosa che le avrebbe indotto artificialmente un sonno profondo, tanto più che neppure sapevamo esattamente cosa avesse. Dal mio punto di vista il problema vero non era che lei non riuscisse a dormire ma che aveva quel dolore che le impediva di farlo. Dunque per la quarta volta in poche ore discutemmo trovandoci su lati opposti della barricata.
Ma stavolta fu diverso. Perché si trattava di qualcosa di serio e importante, non di stupidaggini e capziosità come prima. Stavolta era la sua salute a esser in ballo, se non addirittura la sua vita.
Compresi che lei non era affatto contenta che io pensassi che non doveva prendere quella pastiglia.
Discutemmo a cosa si potesse imputare quel suo malessere. Forse il ventilatore, che guarda caso quel giorno lei mi aveva fatto spostare su di lei, perché sentiva caldo. Forse era il caffè che le avevo fatto prendere tutti i giorni, quando lei non era abituata… Forse c’era dell’altro. Forse era la sua malattia genetica rara che si manifestava in maniera casuale, battendo un colpo.
Alla fine sperammo che qualcosa di caldo le avrebbe fatto bene. Mi chiese se avevo una camomilla. Io non ce l’avevo. Ti improvviso qualcosa, non ci metterò troppo tempo, le dissi.
Usai come base il tè deteinato. Lei mi chiese se potevo garantirle che non le avrebbe rovinato il sonno. Io ero sicuro: essendo molto recettivo agli stimolanti, potevo certificarle che quel tè non ne contenesse; non era come il caffè decaffeinato, che comunque un po’ di caffeina la ha. Vi aggiunsi un tocco di zenzero, tra le cui proprietà speravo ci potesse essere qualcosa capace di calmarla. Infine usai molta cannella, anche per evitare che lei eccedesse con lo zucchero, che di per sé anche quello è un eccitante, dal mio punto di vista.
Lei assaggiò, disse che quella bevanda era buona e non aggiunse altro zucchero.
Provammo a rimetterci a letto. Continuammo a elucubrare sulle cause. Lei si accorse che la bevanda calda non aveva sortito effetto. Avrebbe voluto prendere quella pastiglia.
La sentii irrigidirsi, diventare insofferente alle mie parole, che le volli dire comunque, anche se appena avevo cominciato con la filippica antipastiglia lei già non ne poteva più e sbuffava.
Una volta terminato di parlare, lei ce l’aveva con me. Era evidente che giudicasse il mio consiglio, quella indicazione che le avevo dato, una palese intromissione nella sua vita. Inoltre riteneva le mia parole impositive. E per esser certa che su quella faccenda non aggiungessi neppure una parola di più mi disse che si sarebbe alzata andando di là.
Mi sbalordì. Quel volersi distaccare da me mi preoccupò. Non sentivo di essermi meritato quell’esilio da lei.
Le proposi di andare io di là, se lei voleva rimanere sola. Ma lei ribadì che preferiva che io restassi lì: lei di là avrebbe anche camminato, mi disse, cosa che non poteva fare nella camera da letto in cui ci trovavamo. Tu dormi, mi disse, e se ne andò.
Percepii subito un grosso vuoto. Perché lei non mi voleva intorno, lei era arrabbiata con me, tanto arrabbiata che non sopportava più la mia vista. Mi chiesi se non avesse avuto ragione a esserlo. Allora avrei tanto voluto rivivere quegli ultimi minuti in cui avevamo discusso per constatare con le mie orecchie se davvero le avevo detto qualcosa di così sconveniente. Ma a dire il vero, al contrario di altre volte in cui potevo aver commesso degli errori con delle ragazze e avevo potuto pentirmene, qui non ne ravvisavo nel mio comportamento. Forse le avevo rotto troppo le palle, ero stato troppo pedante proprio nel momento sbagliato; però in fondo le avevo detto quelle cose solo perché ci credevo. E poi il mio era stato un consiglio, non l’imposizione che lei stava vivendo. Mi chiesi cosa sarebbe accaduto se lei avesse messo in pratica l’idea di prendere quella pastiglia. Forse avrei insistito ancora sulla mia posizione? Forse mestamente avrei accettato la sua decisione e basta rimanendo poi in tensione tutta la notte e la mattina finché non si fosse risvegliata?
Solo nella stanza, con lei che era andata di là, mi chiesi: che faccio? Dovrei andarle dietro, sforzarmi di dialogare ancora?
Ma era evidente che non potessi più farlo, perché lei non sopportava che potessi parlarle, dunque facendolo non avrei fatto altro che inasprire la situazione. Niente, non potevo far niente! Potevo solo rimanere in quella stanza vuota e aspettare.
Pensai che quella era la prima volta che la sentivo davvero lontana. D’accordo, capivo che era spaventata, arrabbiata, stressata, ma non dovevamo essere in due, non era questo che ci eravamo detti, in salute e in malattia?
Mi sentivo ripudiato da lei – sino allora era stata sempre gentile e strafelice di starmi accanto – e per di più per una motivazione di cui non mi sentivo colpevole. Questo mi fece riflettere. E mi fece avere dei dubbi. Anche noi finiremo come quelle coppie che poi a un certo punto scoppiano e non si possono più vedere? Pregavo di no.
Ma a dire il vero in tale ambito più di ogni altra cosa mi preoccupava il suo cambiamento repentino, che me la faceva vedere adesso come una persona estranea a me: che era estranea perché voleva esserlo. Una persona che non accettava il dialogo. E quella era una delle mie paure (sino allora immotivate) più grandi rispetto lei: che a un certo punto lei fosse partita per la tangente, per qualcosa di non così importante, ovvero senza che io le avessi fornito un assist degno e mi imputasse colpe che non avevo.
Mi girai nel letto. Diedi un occhio all’ora. Erano le quattro di notte. Pensai che sarebbe stato conveniente se fossi riuscito a dormire. Domani – ovvero tra poche ore – c’era da cucinare parecchio e se la situazione con lei che non riusciva a dormire non si fosse sbloccata, serviva uno dei due più riposato e sveglio per fare le cose, qualsiasi cosa ci fosse stata da fare.
Teoricamente lei sarebbe dovuta ripartire per casa sua tra due giorni. Avevamo già preso il biglietto. Ma avrebbe potuto farlo in quelle condizioni? E se si aggravava? Pensai all’ipotesi di portarla al pronto soccorso. O forse, presto, mi sarebbe toccato di andare su da lei, nonostante la mia grande difficoltà a indossare la mascherina per tanto tempo…
Riuscii a dormire un paio d’ore. Mi svegliai più o meno all’alba. Fuori c’era la tenue luce del mattino. Per prima cosa andai a trovarla.
Come starà il mio amore?, mi chiedevo. Ma un po’ me lo aspettavo. Infatti vedevo che di là la luce era accesa. Prima di recarmi in bagno ancora insonnolito, mi spinsi verso lei.
Il mio amore era sulla poltrona, la tv accesa in sottofondo. Appena entrai nel suo campo visivo lei era già lì ad attendermi, con gli occhi guardinghi. Non sei riuscita a dormire?, le chiesi. No, disse lei con la faccia stanca e contrariata (ma meno di appena due ore prima, o almeno così mi sembrò).
Andai in bagno. Poi mi recai in cucina per fare colazione. Lei mi volle raggiungere in quel momento. Tu hai dormito?, mi chiese. Io annuii sentendomi colpevole. Sembrò invidiarmi. Aveva uno sguardo alterato che non le avevo mai visto. Poi improvvisamente mi chiese se in casa avessimo psicofarmaci o ansiolitici. Io le dissi di no, perché non c’erano, e mi chiesi ancora una volta se quello era il suo modo di risolvere le cose. Ma aveva un problema fisico o uno psicologico?
Poi cominciò a parlare come un fiume in piena. Mi disse che non avrei dovuto impedirle di prendere quella pastiglia, che si pentiva di avermi accontentato, che qualora l’avesse presa a quest’ora il problema sarebbe stato già risolto. Io però continuavo a pensare che forzarsi a dormire mentre ti fa male una gamba non fosse qualcosa da auspicarsi; tuttavia non fiatai. Mi disse che nella sua vita si era sempre piegata suo malgrado alle volontà degli altri, e non ne poteva più e con me sperava che avesse potuto per una volta essere solo se stessa, ma io le avevo impedito di farlo. Mi disse che sapeva che avevo buone intenzioni ma non dovevo intromettermi quando si trattava della sua vita e della sua salute. Io pensai che se avesse voluto prendere quel pastigliotto, prima le avrei fatto chiamare la dottoressa che la seguiva, con cui lei si trovava molto in sintonia. Era l’unica persona sulla faccia della terra che le poteva impedire di prendere quel farmaco. A ogni modo in quel momento il problema maggiore era che lei ancora non era tornata in uno stato fisico normale. E non sapevamo ancora da cosa quello avesse potuto dipendere.
Sentivo la sua rabbia. Ne ero addolorato. Ma ancora non mi sentivo in fallo. Anzi pensai qualcosa del tipo che anche lei era umana: stava indirizzando su di me le sue frustrazioni. Non sono io il tuo problema, ma questa cosa che ti è venuta, avrei voluto dirle. Ma non lo feci perché ancora una volta percepii nettamente che se avessi aperto bocca e mi fossi azzardato a dire qualcosa che lei avesse interpretato come sbagliato o non consono, sarebbe stata capace di porre fine all’istante a quel nostro rapporto fino allora così bello.
Alla fine sbottò, le si arrossarono gli occhi e pianse. Pianse anche un po’ per colpa mia. Pianse perché stava male. Pianse perché mi sentiva in qualche modo responsabile. Pianse perché quella discussione per la prima volta la faceva dubitare del nostro rapporto. Pianse perché mi amava ma aveva preferito scacciarmi per non avermi intorno nelle ultime due ore.
Così, con una faccia che credo fosse assai dispiaciuta, le dissi solo: mi dispiace. Non potevo far altro.
Ci abbracciammo in quella cucina, suppergiù alle sei del mattino. Dopo lei sembrò comunque subito molto più serena. Mi propose di vedere assieme la televisione in salotto. Accettai. Ci sistemammo sul divano.
Poco dopo mi accorsi che aveva dei momenti che sembrava stesse scivolando nel sonno. Mi sentii felice. Ma stava anche scivolando da quel divano che delle volte sa essere disagevole come pochi. Allora, quando lei sfiorava già una sorta di dormiveglia, sapendo che sarebbe stata male a dormicchiare su quel divano in quella posizione e più volte avrebbe potuto scivolare verso il pavimento, le proposi di andare di là nel lettone. Lei tornò ad appoggiare le mie parole come faceva quasi sempre.
Nel lettone stabilimmo di stare abbracciati e stretti in una posa che non fosse scomoda per nessuno dei due. Ci baciammo.
Pochi secondi dopo sentii che si stava rilassando. Stava finalmente andando verso il sonno. Eppure come era disturbato quell’accenno di sonno! Lei dava molti scossoni, con le gambe, con le braccia; e gli stessi rischiavano di farla ogni volta ridestare. Le accarezzai la testa come fosse il Bene più prezioso che avessi mai avuto. E lo era.
Lei, calmatasi, cominciava ad avere il respiro pesante di chi dorme. Il miracolo stava avvenendo! Ringraziai Dio. Ma c’erano ancora quelle scosse che la scombussolavano da capo a piedi. Me la tenni più stretta, come a domarle. Era come dicessi che lì c’ero io, e io volevo che venisse il sonno, non avrei permesso ad altri problemi di saltarle addosso mentre era così indifesa.
Presi ad accarezzarle il braccio con una specie di stretta-massaggio. Presto notai che il suo respiro disturbato e irregolare poteva in qualche modo esser reso più regolare se cadenzavo la mia stretta su di lei.
Trascorremmo un’ora così e io per tutto il tempo fui lì a carezzarla e stringerla a me, a coccolarla, e lei dormiva come una bambina.
Poi dovetti alzarmi per andare a preparare il pranzo. Più volte tornai da lei a controllarla. Lei adesso dormiva da sola, spedita. Più volte tornai a coricarmi con lei e poi ad alzarmi quando c’era da controllare il forno. Lei dormiva.
Quel giorno le feci trovare per pranzo tante cose buone che sapevo le piacevano. I burger vegetali, di due tipi diversi, dei carciofi al forno, delle patatine fritte al forno, e per ultimo del riso in bianco. In realtà erano tutte cose che ero certo non le avrebbero fatto male.
Da quel giorno stabilimmo di non farle più bere caffè, e anche il ventilatore non lo puntammo più su di lei. Lei si riprese, migliorò. Non capimmo cosa ebbe. In seguito pensammo che quel suo malessere potesse esser stato causato della sua caratteristica carenza di ferro, la quale poteva dare strane avvisaglie, anche di quel tipo.
Quanto amo la mia piccola bambina… ❤