La prima immagine che ho di lei è durante una pausa caffè. Rivka discuteva accoratamente di politica con Alfonse (che tra parentesi teneva per la parte opposta alla sua). Aveva una figura snella e atletica. Era una di quelle more di carnagione scura, con occhi scuri, “latine calienti”, ed era considerata molto bella e attraente da tutti. Sicuramente era stata assunta anche per il suo aspetto fisico. Nessuno me l’avrebbe confermato esplicitamente ma era evidente che fosse così dato che la maggior parte delle donne in quell’azienda erano carine, se non proprio belle. Qualche boss ci avrebbe anche provato, non fosse stato però che lei era sposatissima e innamoratissima di suo marito (che una volta vidi pure: era un tipo anche lui atletico, mingherlino, non troppo alto, che in realtà sembrava un po’ troppo poco per lei, mentre lei lo portava sempre sul piedistallo). Dunque lei era considerata “intoccabile”. Il mio amico Fauno la trovava irresistibile e spesso mi metteva al corrente delle sue fantasie erotiche circa lei.
Rivka aveva trentacinque anni. Era bella e in salute. Era viva. E discuteva di politica col nemico accalorandosi assai. E io pensavo, dato che era della mia stessa parte politica, che ero contento che una come lei fosse dalla mia parte e non dall’altra. Eppure ricordo il grande affetto che la legava ad Alfonse, che la induceva a pronunciare sempre con rispetto altissimo il suo nome, e stava dunque sempre ad anteporre quell’”Alfonse” alle sue frasi avvalorandolo di grande stima nonostante lui rappresentasse la deprecabile fazione opposta. Noi altri la vedevamo battersi per quei valori e la ammiravamo. E lei sapeva di essere ammirata e anche che, mettendosi in mostra a quel modo, sarebbe risaltata e si sarebbe accentuata la sua femminilità.
Rivka vestiva lasciandosi scoperta le spalle e mettendo in evidenza i seni della giusta misura. Anche le gambe se le scopriva spesso, però devo dire che i suoi abiti non erano fatti per instillare brame negli altri uomini. Il suo era un naturale modo di vestire femminile. Altre volte la vidi anche vestita tranquillamente in tuta, a testimonianza che non si faceva problemi a presentarsi a lavoro così se poi quella sera sarebbe andata a correre, o in piscina, o in palestra, o a giocare a tennis.
Poi un giorno avvenne il patatrac. La terribile notizia si diffuse a macchia d’olio immediatamente in ogni ufficio aziendale. Il marito di Rivka era morto. Aveva avuto un incidente sul lavoro, era caduto da un’impalcatura di venti metri ed era deceduto sul colpo. Per alcuni giorni Rivka non si vide. I colleghi più anziani raccolsero del denaro per la vedovanza perché lì si usava così. Anche io comprensibilmente diedi il mio contributo, anche se la conoscevo di straforo e nessuno mai aveva avuto la decenza di presentarci.
Alcuni giorni dopo Rivka si ripresentò in ufficio. Ovviamente era molto triste e lugubre. E adesso quel suo essere mora con la carnagione scura le conferiva una specie di aurea ombrosa percepibile anche diversi passi da lei, non era più una caratteristica vitale.
Rivka smise di parlare, di essere accalorata, di interessarsi alle cose. Alfonse, che era suo amico da lungo tempo, tentò di smuoverla dicendole di non buttarsi troppo giù, ma non riuscì nel suo intento di farla riprendere. E, scontrandosi con quei suoi silenzi ostinati, alla fine gradualmente smise di cercarla poiché pensò che lei gli aveva chiuso per sempre le porte.
I mesi passarono ma l’atteggiamento di Rivka non cambiò. Anzi si può dire che peggiorò. Peggiorò perché, se prima si poteva dire che fosse una vedova sconsolata che non sapeva rassegnarsi alla sua perdita, dopo apparve evidente che Rivka si era definitivamente trasformata in un’altra donna totalmente differente da quella che era sempre stata in precedenza. Una donna abulica che non nutriva affetto per nessuno (per nessuno, neppure i suoi figli piccoli, considerati ormai come fonte di impiccio e fastidioso lascito di un marito bastardo morto troppo prematuramente). Rivka era una donna che non parlava mai. E che quando lo faceva aveva sempre quel tono monocorde. Una donna che si dibatteva sempre tra l’odio incessante per tutti gli altri (colpevoli di non aver avuto anche loro quel lutto) e la disperazione di esser e sentirsi irrimediabilmente sola.
Dopo la scomparsa del marito, Rivka aveva provato una depressione profondissima che non era più cessata. Fosse stato per lei si sarebbe pure ammazzata. Ma non aveva potuto farlo perché dei rimasugli di senso materno glielo avevano impedito, perché altrimenti i suoi poveri figli non avrebbero avuto più nessuno su cui contare, neppure lei.
Per questo Rivka un giorno era crollata ed era stata portata all’ospedale dove aveva rivelato ai medici che non reggeva più e che dovevano darle qualcosa che le permettesse di non uccidersi, che le facesse smettere di provare quel dolore così intenso ventiquattro ore su ventiquattro. Da allora Rivka cominciò ad assumere psicofarmaci i quali, è vero, la fecero stare un poco meglio, ma ovviamente non riuscirono a far sparire il dolore o a farle tornare la voglia di vivere. Così adesso l’atteggiamento di Rivka fu anche amplificato da quei farmaci che le ottundevano il cervello. Che la placavano ma anestetizzando tutto il resto, compresi quegli aliti di entusiasmo che avrebbero potuto riaffiorare prima o poi da lei se non avesse dovuto soggiacere a quei farmaci fortissimi.
Rivka si era trasformata un uno zombie rancoroso. Anche il denaro cominciò a essere un’ulteriore fonte di preoccupazione e malessere per lei. Senza il marito che contribuiva all’economia domestica, non le bastava mai. Così, quando in azienda cominciò a tirare quella brutta aria di licenziamento, Rivka ebbe paura che l’avrebbero mandata via, eventualità, quella, che avrebbe rappresentato il suo biglietto di sola andata nello sprofondo, perché lei era convinta che non avrebbe mai avuto la fortuna di trovare un altro lavoro, lei che oramai aveva una certa età, che era depressa e che pensava al suicidio un giorno sì e uno no e se ne andava in giro per il mondo sempre con quella sua faccia svuotata che certo non poteva essere un incentivo per trovare un altro lavoro.
Allora Rivka cercò di tenerselo ben stretto quel lavoro. Vi si aggrappò con forza e decisione sentendosi vicinissima al caos più completo. E quando i capi la insultarono, perché facevano sempre così con le donne che avevano sotto che a loro giudizio sbagliavano qualcosa, lei si prese quei “puttana” e non fiatò, odiandoli profondamente e pensando che quando sarebbero morti, lei forse non avrebbe più avuto quel lavoro, ma loro perlomeno sarebbero stati morti. Ecco, loro non meritavano di vivere. Sarebbe dovuto toccare a loro morire e non a quel sant’uomo di suo marito, pensava lei…
Quando passavo davanti l’ufficio di Rivka la salutavo sempre al mattino. Lei in genere non mi rispondeva: rispondeva solo saltuariamente se pensava che fossi qualcun altro. E quando lo faceva neppure alzava gli occhi dallo schermo, come fosse stata impegnata in chissà quale attività improrogabile, mentre io sapevo che i lavori che le venivano assegnati non erano per nulla di responsabilità e chiunque sarebbe stato capace di farli.
Col passare del tempo poi prese a non salutarmi più, come le avessi fatto qualcosa di specifico che mi imputasse. Allora anche io non la salutai più.
Poi ci fu quell’inverno. Era natale e si era organizzata la solita festicciola prima delle vacanze natalizie. Ci si era ritrovati tutti nella grande sala delle riunioni a festeggiare. Io mi ero presto defalcato poiché trovavo stucchevoli quei ritrovi tra colleghi in cui si doveva essere per forza felici e amiconi e inoltre si fingeva di andare tutti d’amore e d’accordo. Senza contare i leccaculo dei capi e questi ultimi che pretendevano di fare il bello e il cattivo tempo, e quando facevano battute tutti si dovevano sbellicare rumorosamente. Quando invece erano tesi per via di qualche affare che non era andato come speravano, allora anche tutti noi avremmo dovuto avere un tono più morigerato in osservanza dei loro umori da imprenditori di rubagalline. In quell’occasione quindi, con una scusa, ero tornato a lavorare presto andandomi a rifugiare nel mio ufficio. Ciò però non mi aveva risparmiato quei classici siparietti tipici di chi poi a fine festicciola si girava tutto l’ufficio e salutava i colleghi dando il “buone feste”. Mancava oramai poco alla fine degli ultimi minuti dell’ultima giornata lavorativa di quell’anno quando a un tratto fece capolino dalla mia porta mentre discutevo con Belosh anche Rivka. Era venuta a fare il giro dei saluti, anche lei, imprevedibilmente.
Rivka sembrava quasi felice. Aveva abbozzato sul volto un sorriso che non le avevo più visto da anni. Rivka entrò nella stanza fregandosene che avrebbe potuto interrompere i nostri discorsi. Si recò da Belosh e lo baciò dicendogli auguri e lui la contraccambiò affabilmente. Dato che non mi parlava più da mesi io rimasi neutrale e non osai minimamente intromettermi o sperare o reclamare che un tale atteggiamento avesse potuto averlo anche con me. Ma poi rivolse il suo sguardo nella mia direzione e anche a me disse: auguri! Allora la contraccambiai freddamente. Ma poi lei mi si avvicinò e volle comunque baciarmi.
Una volta che se ne fu andata mi interrogai a lungo circa il motivo di quel bacio. Che senso aveva volermi baciare se non mi salutava da tempo come mi avesse alacremente odiato? Pensai che forse aveva deciso di cambiare, di imprimere una svolta alla sua vita cercando di tornare almeno la parvenza di quella donna che era stata. La verità era che Rivka quella sera almeno avrebbe voluto tornare a sentirsi donna e quei baci volevano esprimere il suo desiderio quasi inconscio di trovarsi un uomo. E quell’uomo che aveva scelto ero io. E potendo mi avrebbe fatto venire da lei, quella sera, e, completamente brilla, avrebbe volentieri fatto l’amore con me, ben sapendo però che il giorno dopo probabilmente non avrebbe potuto esserci più alcun seguito tra noi circa quel sentiero sentimentale.
Una volta rientrati a lavoro il nuovo anno, memore di quel bacio che aveva voluto darmi per forza, riprovai a salutarla quando la mattina passavo davanti il suo ufficio. Però sul suo volto intravidi il medesimo cipiglio feroce nei miei riguardi. E infatti non mi salutò.
Mesi dopo la incrociai durante una pausa caffè, esattamente come la prima volta che l’avevo vista e conosciuta, quando il marito era ancora in vita. Stavolta si dibatteva di affidamento di bambini piccoli agli omosessuali. Lei, come pure tutti gli altri idioti, erano contrari per principio. Io invece ero astiosamente favorevole e trovavo oltraggioso che si potesse sostenere che una persona, solo perché omosessuale, non potesse crescere neonati nella maniera migliore. Cercai di porre l’accento sul fatto che ciò che caratterizza una persona nel bene o nel male non può certamente essere il suo orientamento sessuale, e semmai dovrebbe essere il suo grado di “stronzaggine”. Cioè, se uno è uno stronzo, non potrà certo essere un buon genitore; mentre se uno è omosessuale o etero, non si può minimamente dire che tipo di genitore sarà perché l’orientamento sessuale non è un fattore discriminante (se non per gli idioti che lo pensino). Allora Rivka, che quel giorno vedevo più loquace del solito, se ne uscì con quella boiata che i bambini devono avere un padre maschio e una madre femmina sennò crescono male. Al che non ci vidi più e le dissi che allora, seguendo quel ragionamento dissennato, si sarebbero dovuti togliere i bambini che avevano un solo genitore per darli a due coniugi integri. Sul momento giuro che non mi resi conto che quell’esempio la tirava direttamente in ballo. Lei però se ne rese conto eccome e allora accusò il colpo e nei suoi occhi vidi la convinzione che fossi cattivo, perché avevo fatto quell’esempio e non un altro, e lo avevo voluto fare indubbiamente per ferirla. Ma non era così.
Qualche mese dopo, quando mi licenziai e passai davanti la sua stanza nell’ultimo giorno di lavoro per l’ultima volta, mi sembrò di percepire che lei sapesse perfettamente ciò che mi stava accadendo e che ne fosse sadicamente felice, convinta che avessi avuto quel che mi meritavo. A ogni modo le avevo finalmente fornito, a suo giudizio, un pretesto valido per odiarmi.