Nemesita entrò nel bosco assieme a due allocchi che facevano jogging. Nemesita non capiva la gente che andava a correre per consumare energie. Lei aveva il problema opposto. Non se la passava benissimo e delle volte soffriva la fame, nonostante tutte quelle sostanze di cui si facesse (cioè tutto quello che poteva raccattare, dalle canne, al crack, all’eroina, alla coca, alle anfetamine all’LSD) spesso le facessero passare l’appetito. Presto si sarebbe dovuta recare nuovamente dal macellaio che le faceva credito. Credito per modo di dire: in realtà pretendeva di esser pagato sempre in un’altra maniera: in natura; una maniera che la ripugnava ma a cui doveva soggiacere se non voleva prima o poi morire di fame.
Ma in quel momento Nemesita non pensava al sudicio macellatore. Hildita non pensava a niente. Pensava ad attraversare il bosco [parco] e trovarsi un posticino per schiacciare forse un pisolino, o distendersi a prendere il sole. Infatti cominciava a fare freddino.
A un tratto si trovò davanti un bivio. A destra compariva una specie di scorciatoia, una stradina che si addentrava proprio nel centro più ingarbugliato del bosco, e le avrebbe fatto risparmiare del tempo. A sinistra c’era il solito sentiero che prendevano tutti, che eseguiva una lunga circonvoluzione per aggirare quella zona così fitta di vegetazione, e poi rispuntava dall’altra parte, dove riprendeva in un tratto molto più ampio.
I corridori la superarono prendendo il sentiero di sinistra. Hildita poté osservarli da dietro. Erano una coppia male assortita. Lui, un tale robusto con la maglietta rossa il quale corricchiava più lentamente di quanto avrebbe potuto, per stare al fianco dell’altra. Che sembrava una stramba ragazzina più giovane di lui, magrolina e bassa, con le gambe assai arcuate, con dietro due trecce di capelli castani che la facevano somigliare a un’indiana del west. Hildita guardò quelle gambe con sprezzo. Si disse compiacendosene che le sue gambe erano molto più belle: erano diritte, tornite e muscolose. Ci era proprio nata così e non le aveva mai allenate.
Con il suo ultimo sguardo scrutò i corridori sparire nella discesa che portava dapprima alla strada e poi sarebbe rientrata nel bosco [parco]. Si chiese se una volta finita quell’assurda attività fisica avrebbero scopato, quei due. Ne era quasi certa. Ma prima o dopo essersi fatti la doccia? Prima, riteneva lei. Perché quei tipi amavano sentirsi puliti dopo, dopo che avevano sudato e si erano affaccendati in pratiche faticose e/o amorose e avevano fatto le sozzerie. Hildita immaginò il colosso che la piegava in due tenendole quelle gambette storte verso il soffitto: che si gettava con tutto il suo peso dentro lei, dentro quella piccola ragazzina che non doveva avere orifizi adatti a contenerlo. Per un attimo ne sorrise; ma poi provò invidia per loro, che almeno avevano l’uno per l’altra, mentre lei non aveva nessuno. Proprio nessuno. Lei non poteva avere nessuno. Lei era in fuga perenne…
Hildita prese senza pensare il sentiero di destra. E l’ambiente fu subito molto diverso. Il sentiero si faceva ristretto. La lussureggiante sterpaglia lottava da anni per cancellare quella stradina, e non era detto che prima o poi non ce l’avrebbe fatta: quando infine non ci sarebbe più stato nessuno a prenderla, i passi degli esseri umani non avrebbero più distrutto quelle nuove erbacce che tanto avrebbero voluto cingerla per inglobarla.
La luce era visibilmente calata. Hildita si disse che quello sarebbe stato un posto perfetto per un’imboscata. Forse aveva fatto male ad allontanarsi dal sentiero principale battuto dagli uomini buoni (o comunque meno cattivi degli altri). Forse era una sprovveduta a sperare di non incontrare il lupo cattivo per quei declivi silvestri…
Chiunque avrebbe potuto nascondersi dietro un cespuglio, piombarle alle spalle e violentarla. Hildita ebbe la netta percezione che tutti gli assassini e i violentatori del mondo ne fossero al corrente. Ma oramai era tardi per tornare indietro, no? Hildita si disse che avrebbe camminato appena per quaranta secondi, non di più. Era quello il tempo necessario per compiere quel periglioso attraversamento. Dopo sarebbe tornata sul sentiero principale inondato di luce con la gente perbene. E già dieci secondi erano passati…
Ma a un tratto notò sulla stradina un grosso ramo di albero che sembrava esser stato posto là appositamente per impedire il passaggio. Hildita si chiese ancora se non fosse il caso di tornare indietro. Però ormai era a metà strada. Tanto valeva proseguire. Però… Per primo, il ramo appariva evidentemente strappato con la forza (e ce ne era voluta molta perché era piuttosto spesso); per secondo, si vedeva benissimo dalla tracce lasciate sul terreno che il ramo era stato trascinato per metri in quel punto preciso in cui adesso giaceva. Chi ce lo aveva messo e perché?, si chiese Hildita atterrita. Davvero qualcuno aveva voluto ostruire il passaggio o perlomeno rendere più difficile entrare o uscire da quella zona remota lontana dallo sguardo di tutti?
Hildita proseguì cominciando a temere. Mamma mia, vuoi vedere che ho fatto una gran cazzata a passare di qui?!; vuoi vedere che me ne pentirò?!, si chiese. E aveva un po’ di fifa. Tuttavia una parte di lei non voleva darla vinta al mordente che gli assassini e i violentatori avevano sulla sua psiche; così si mise su la sua faccia più sfrontata e proseguì. Sono a metà sentiero, si disse, ormai sono quasi fuori…
Ma poi, sul lato destro del già di per sé angusto sentiero, Hildita scovò un uomo robusto di altezza media, cioè alto quanto lei, il quale fingeva di prestare molta attenzione alla vegetazione ramificata lì intorno e molta poca a lei, che pure era bella, formosa, attraente e si vedeva che era indigente, dunque più debole di una persona normale in caso di agguato, perché in pochi l’avrebbero reclamata qualora fosse stata rapita o avesse chiesto aiuto. Il tizio appariva curiosamente assai infagottato (cosa nascondeva davvero sotto quegli abiti?). Indossava un largo giubbotto da lavoro grigio, forse in tinta con dei pantaloni larghi da lavoro; era accessoriato di guanti giallognoli e calzava in capo un odioso e unto cappellino da benzinaio con la visiera che aveva l’evidente scopo di occludergli il volto il più possibile.
Hildita si fece forza e, fosse stata cattolica, si sarebbe fatta il segno della croce. Accelerò il passo facendo finta di essere più seccata che spaventata di averlo incontrato, anche se dentro di lei l’angoscia cresceva a vista d’occhio. E quando dovette necessariamente passargli di fianco, quello, guarda caso, si voltò lentamente verso di lei sorridendole, rivelando una faccia con due occhi chiari e strabici da ubriacone e una barba irta di almeno un paio di giorni.
Come Hildita aveva previsto, nel momento il cui fu perfettamente allineata a lui, quello divenne loquace e audace, gli si sciolse la lunga lingua biforcuta e le disse:
«Non è che mi daresti una mano a spostare questo rovo, bella?»
Hildita non si fermò, rallentò il passo un poco per dargli l’illusione che potesse accettare mentre invece elaborava solo una risposta accettabile. Si immaginò la scena… Lei che lo aiutava a spostare il ramo in una parte ancora meno accessibile del bosco e lui che poi le dava una botta in testa e se la inchiappettava tra arbusti acuminati. O peggio: erano altri suoi amici appostati nell’ombra che l’assalivano da tutte le parti come scimmie impazzite mettendole subito una mano sulla bocca per impedirle di gridare, e le altre mani sulle tette, il sedere e la fica, dappertutto. Poi la abusavano a turno e l’uccidevano dopo averla tenuta lì chissà quante ore, i porci bastardi!
Così Hildita si disse: see, mica sono così stupida, stronzo! non ho proprio voglia di farmi inculare da te, che tra l’altro mi fai già abbastanza senso così senza che approfondisca ulteriormente la tua conoscenza! perché non ti trovi una porca come te invece di rompere le palle a me?! da qualche parte la dovresti pur rimediare una così lurida!
Dunque Hildita si fece uscire il fiato e, mentre si lasciava l’uomo alle spalle invero temendo che quello da ultimo l’assalisse approfittando che non lo sorvegliava (ma già la fine del sentiero fitto e la luce si intravedevano al termine del ginepraio rincuorandola), gli disse:
«Mi spiace… C’ho l’ernia…»
La tal frase lasciò il tipaccio sbigottito come un salame. «C’hai l’ernia…», ripeté beota continuando a fare quel suo sorriso osceno che aveva assunto una tinta di lieve beffa, nel senso che aveva perfettamente capito che quella era solo una scusa.
Hildita tornò sul sentiero principale e si giurò che non sarebbe più passata per quella scorciatoia poiché era troppo pericolosa per una bella e brava figliuola come lei. Troppo, davvero troppo. E poi a lei neppure era concesso di farsi notare più di tanto ficcandosi in qualche guaio, sennò prima o poi quelli della congiura l’avrebbero trovata…
Ore dopo, rincasata nella sua diroccata e polverosa bicocca, come spesso faceva, prese in mano l’edizione de La teoria del complotto che custodiva gelosamente. Osservò la quarta di copertina dove compariva l’immagine dell’autore, Nemesis, con quei suoi detestabili baffetti da artistoide. Si tastò il labbro superiore con malanimo. Non c’era più traccia di quell’irsuta peluria sul suo volto. Questo la faceva impazzire. D’altronde quello neppure era il cambiamento peggiore che il suo corpo aveva accusato. Infatti un qualche misterioso stregone malvagio l’aveva trasformata in una donna… A lei che in realtà era stata Nemesis!, che affronto! Adesso Hildita aveva delle bocce notevoli sul petto. Quando se le tastava (invero con molta soddisfazione, eccitandosi lei stessa come fosse stata ancora un uomo), diceva sempre: qui hanno fatto davvero un lavoro coi fiocchi, i chirurghi; neppure sembra tutto silicone! Poi si toccava i fianchi e si diceva: toh! queste sembrano ossa vere, eppure mi devono aver impiantato dell’altro: sono sicura che questa sia plastica dura… Infine, quando si andava a cercare quel pene che non c’era più per rinvenirne solo uno molto più minuscolo e rinsecchito con il quale prendeva a giocherellare non sapendo rinunciare ad arrivare all’orgasmo, si diceva: pure il pisello m’hanno tagliato questi bastardi! a tanto sono arrivati pur di farmi perdere la ragione!… ah, ma un giorno mi vendicherò di brutto di loro! scoprirò chi sono e come cazzo hanno fatto, e gliela farò pagare cara, anzi carissima a quegli stronzoni!…
Le prese la brama di scrivere, perché lei era e sarebbe sempre stata una scrittrice, anzi uno scrittore. E allora mise un foglio bianco nella vetusta macchina da scrivere e cercò di trovare un titolo per il racconto che aveva in testa, ma ne dovette scartare svariati prima di cogliere quello giusto. Scrisse:
HILDITA NEL BOSCO
COME HILDITA DIVENNE NEMESITA
NEMESITA SI INOLTRA NEL BOSCO TUTTA SOLA
L’ultimo la soddisfece. Poi cominciò il racconto:
Hildita entrò nel bosco assieme a due allocchi che facevano jogging.
Poi pensò: basta con questa storia di Hildita! io sono Nemesita! qualcuno ha voluto convincermi, in passato, che io sia questa Hildita. ma io sono solo Nemesita! io sono Nemesis in versione femminile! io sono Nemesis trasformato da uno stregone malvagio in una donna!… Poi proseguì il racconto non accorgendosi talvolta di scrivere Hildita invece che Nemesita.
Comunque fu quello il giorno in cui Hildita divenne davvero Nemesita. E da allora non ci fu più traccia di Hildita (se non in quel racconto), che fu come inglobata nel buco nero che la cospirazione rappresentava.
Hildita e Nemesita erano la stessa persona derivata in maniera diversa, ma solo Nemesis avrebbe potuto scoprirlo un giorno, forse. Nemesis era il solo che poteva salvarla…