La debolezza di una madre

A me sembrava una donna molto bella e affascinante. Non mi spiegavo proprio come avesse potuto generare quel figlio mentecatto e inconcludente, quel tipo stonato a cui sembrava sempre mancasse qualcosa, il quale, un giorno, per noia, si sarebbe buttato nella droga, per darsi un tono, per cercare di infondere un senso, fosse anche un senso penoso, a qualcosa che un senso non l’aveva mai avuto.
Ma all’epoca era appena un ragazzino e lo ero anch’io. Ed eravamo andati tutti alla colonia con quelli della parrocchia. Uno strano tipo di vacanza culturale nella quale si erano messi in testa, i grandi, di insegnarci qualcosa. E se da un lato la vacanza avrebbe dovuto servire a farci affiatare, dall’altro il pensiero che ci fossimo ritrovati da soli a compiere qualche grosso guaio, primo fra tutti quello d’ingravidare una ragazzina, era il loro incubo ricorrente che li spingeva a vegliare su di noi anche più del dovuto, anche se a dire il vero, ancor più bene avrebbero fatto a vegliare solo alcuni di noi che erano già dei mezzi delinquenti, che per fortuna rappresentavano però solo una sparuta minoranza.
Così volevano che si dormisse tra di noi (ovviamente a patto di appartenere tutti allo stesso sesso), ma pretendevano di passare a dare la buona notte per controllarci, esigendo che dopo le ventidue e trenta nessuno uscisse dalla propria stanza per il coprifuoco. Tuttavia, a me e ad altri che stavano con lui, con Vincent, venne riservato un trattamento ancora più asfissiante. Ma io questa cosa all’inizio non la capii.
Arrivati all’albergo ebbi la prima infausta sorpresa. Ero stato messo in stanza con lui e con un’altra testa calda. Perché?! Mi lamentai accoratamente presso i responsabili, dato che già da tempo mi ero messo d’accordo per stare in una camera da quattro con i miei più cari amici. Mi spiegarono che se Vincent e l’altra testa calda fossero rimasti assieme, da soli, ne sarebbero potute venir fuori scintille: per questo ci voleva uno come me, che ero considerato il più buono e pacato della combriccola, per riequilibrare le cose. Insomma si faceva molto affidamento sul mio buonsenso affinché venisse scongiurata ogni possibile forma di dissidio tra quei due. Ma, a dire il vero, non credo che quel problema sussistesse realmente, perché quei due non li avevo mai visti scambiarsi una sola parola: come appartenessero a razze diverse, si ignoravano a più non posso. Quindi non avrebbero neppure litigato e ognuno sarebbe rimasto per conto suo.
Rimasi molto male di quell’abuso di autorità compiuto nei miei confronti. Erano mesi che fantasticavo di come sarebbe stato bello trascorrere la notte con i miei più cari amici e d’improvviso quella gioia mi veniva sottratta. Me ne lamentai il più possibile con gli istitutori sperando così di farli recedere dalla loro decisione, ma loro furono irremovibili. Anche Vincent, a causa di quell’inopinato spostamento, capì che il casino era successo per causa sua e mi disse che sarebbe andato da sua madre, che in realtà era la prima artefice della decisione avallata da tutti gli altri, a dirle che non era giusto quel che era successo. Dunque fu lui a perorare la mia causa e a rincuorarmi dicendomi che tanto in quell’albergo saremmo rimasti solo tre notti, che il resto della vacanza l’avremmo trascorsa in un altro albergo e lì ci sarebbe stata dunque tutt’altra disposizione. Gli chiesi se ne era certo, e lui mi assicurò che sarebbe stato così dandomi la sua parola d’onore.
E fu davvero così, più o meno, e oggi mi chiedo se in principio non fosse nata proprio da lui l’idea di avermi come compagno di stanza: se non avesse fatto lui il mio nome alla madre quando, sollecitato da essa su chi avesse preferito avere come compagno di stanza, non si fosse accorto che io ero il migliore di cui avrebbe potuto giovarsi poiché l’unico che non lo aveva mai osteggiato apertamente fino allora.
Nel secondo albergo perlomeno non rimasi più da solo con quei due, ma vennero inseriti nella stanza anche (guarda caso) il mio migliore amico, il più intelligente della comitiva e un altro ancora. Dunque finimmo per stare in una stanza da sei. Perlomeno avrei diluito il mio malanimo affogandolo con la compiacenza che avrebbero potuto donarmi gli altri amici.
Ma già la prima notte successe un fatto strano: sparì la chiave della stanza. Due di noi si accusarono a vicenda di averla persa. Uno sosteneva che l’aveva data all’altro; quello però giurava di averla restituita in portineria, poiché i catechisti ci avevano detto di fare così, proprio per scongiurare l’evenienza che avessimo potuto perderla.
Dall’alto della mia smisurata sprovvedutezza, ero molto preoccupato al pensiero di dormire con la porta non chiusa a chiave perché, qualora qualcuno dei più scapestrati l’avesse saputo, sicuramente ne avrebbe approfittato per farci qualche scherzo, pensavo. Tuttavia mi dolevo anche per la responsabilità di quello smarrimento. E già mi immaginavo che un tribunale inquisitorio formato da responsabili della gita ed eminenze grigie dell’albergo ci avrebbero fatto finire sulla graticola appioppandoci quella gravissima colpa di aver smarrito quella chiave la quale, in un modo o nell’altro, avremmo dovuto risarcire di tasca nostra con i pochi soldini che ci eravamo portati dietro…
Ma la verità l’avremmo cominciata a intuire dopo un paio di giorni: era stata la madre di Vincent a far sparire la chiave appropriandosene per poter entrare nella nostra stanza ogni volta che avesse voluto. Difatti delle volte sbucava senza prima aver bussato a sera inoltrata e ci domandava se andava tutto bene e perché non dormivamo, mentre io, dentro di me, scioccamente, mi chiedevo la stessa cosa di lei.
Stare in quella stanza da sei, la prima notte, fu abbastanza un casino perché tra una cosa e l’altra c’era sempre qualcuno che non voleva andare a dormire, che dunque impediva agli altri di farlo, tra chi parlava, chi voleva fare gli scherzi, chi si attaccava all’interruttore della luce e lo accendeva e lo spegneva di continuo, mentre c’era gente che facendo finta di niente si toccava tranquillamente nelle parti basse come fosse stata da sola (perché?! Eravamo tutti maschi! Io non l’avrei mai fatto… Ma forse, in loro, l’eccitazione era talmente elevata che prendeva il sopravvento su tutto il resto).
Così la mattina dopo mi ritrovai ad aver dormito appena due ore ed ero ridotto davvero uno straccio, perché già da allora ero uno di quei tipi che, se privati del sonno, vanno subito in grossa difficoltà, non come tanti che possono pure non dormire una notte e non gli succede niente…
Comunque, almeno durante il giorno, potevo frequentare chi desideravo e dunque ricongiungermi con i miei amici più cari stando ben lontano da chi non volevo intorno. Così, Vincent, con la mia benedizione, finì per l’accodarsi in certi giri, con ragazzini che non lo conoscevano e quindi non lo disprezzavano, e sopratutto ragazzine che involontariamente tendevano a voler compiacere sua madre, dato che essa era la loro catechista.
Così un giorno si era in pullman e Vincent e Ronald si erano gettati a pesce nel cercare di fare nuove conquiste prima che la gita finisse. Erano attorniati da giovinette che sembravano tutte bravissime e delicatissime ancelle assai deferenti verso la madre di Vincent. E, insomma, a un certo punto, pensarono molto ingenuamente di fare uno scherzo alla madre di Vincent, scherzo il quale avrebbe permesso loro anche di realizzare una maggiore aderenza fisica con quei due maschietti, i quali, a loro volta, per gli stessi motivi di aderenza, stettero al gioco anche se per loro quell’intrattenimento normalmente non avrebbe avuto il minimo senso.
Li sentii vociare in fondo al pullman, con Ronald e Vincent che facevano finta di lamentarsi ma in fondo si inebriavano assai di avere quelle ragazzine a un palmo da loro potendo guardare le loro facce gioconde, come pure annusare quegli odori femminili che già facevano girar loro la testa…
A un certo punto le femminelle decisero che avevano finito. Così chiamarono la madre di Vincent con un sorriso a quaranta denti invitandola a portarsi presso di loro. Attirarono abilmente la sua attenzione e poi, quando la madre di Vincent fu davvero vicina, scoprirono i volti di Ronald e Vincent. Al che sentii provenire dalla madre di Vincent dei collerici insulti molto sconci che mi sorpresi molto che una come lei, del suo lignaggio, avesse potuto pronunciare.
Tutti ci voltammo verso gli ultimi posti del pullman dove si era verificato il fattaccio cercando di capirci qualcosa. La madre di Vincent inveì ancora contro le povere ragazzine senza pietà rigurgitando su di esse tutte le sue peggiori inquietudini. Le ragazzine furono annientate e ridotte a lacrime addolorate che non si sarebbero sanate nella loro anima per giorni e giorni interi, forse mesi. Non avrebbero mai dimenticato quell’incidente. Senza immaginarlo, le avevano accordato un tale sgarro la cui grandezza era talmente spropositata da non potersi comprendere.
La madre di Vincent se ne dovette tornare davanti, vicino al guidatore, perché altrimenti chissà come sarebbe finita. Vedere suo figlio truccato da donna, per lei, donna austera e fiera del sud, era stato un tiro mancino indigeribile, un’onta imperdonabile, un affronto inusitato.
Per quanto mi riguarda, in un colpo solo aveva rivelato tutta la sua vera anima, le sue paure, la sua cultura, le sue titubanze di donna irrisolta e conservatrice che si aggrappava a una maschera di letizia quando invece dentro di sé si rodeva e ribolliva a più non posso di piccole ipocrisie da gente arretrata e limitata.
Vincent fu l’unico che tentò invano di calmarla dicendole che non era successo poi nulla di male. Vincent, che in quel momento non mi apparve più quello smidollato che avevo sempre creduto. Vincent, che tutto sommato era migliore della deficitaria madre, quando io mi ero sempre creduto il contrario.
Nel pullman non volò più una mosca e si udirono solo i pianti singhiozzanti, feriti, incessanti delle inconsolabili ragazzine desolate.

GINECOLOGI OBIETTORI?!?

 

 

È ESATTAMENTE AL CONTRARIO DI COME LA PRESENTANO.

NON È CHE SI VIOLA LA LEGGE PERCHÉ SI FA UN BANDO PER SELEZIONARNE DEI NON OBIETTORI.

È CHE SI CERCA DI PORRE UNA PEZZA A UN’INDECENZA ITALIANA CHE FA SÌ CHE L’80% DEI GINECOLOGI SIANO OBIETTORI!

CHE POI… CHIEDETEVI COME CAZZO SIA POSSIBILE UNA PERCENTUALE COSÌ ALTA.

LE COSE SONO ESATTAMENTE AL CONTRARIO.

E SEMMAI SI DOVREBBE INDAGARE PER VEDERE COME CAZZO HA AVUTO IL POSTO QUELL’80% DI MEDICI OBIETTORI.

PERCHÉ È EVIDENTE CHE SPESSO LO ABBIANO AVUTO IN MODO IRREGOLARE, PER FARE UN FAVORE ALLA CHIESA!

 

SVEGLIA, ITALIOTI!

 

PS: E VI RICORDO CHE L’ABORTO NON SE LO SONO INVENTATO LE ISTITUZIONI, E SE NON CI FOSSE L’ABORTO DI STATO QUESTO NON FAREBBE SPARIRE COME PER MAGIA L’ABORTO CLANDESTINO, ANZI OVVIAMENTE LO FAREBBE AUMENTARE A DISMISURA. DUNQUE MEGLIO UN ABORTO REGOLAMENTATO E ASSISTITO, OPPURE UNO DEL TUTTO IRREGOLARE DA MACELLAI, ITALIOTI?

 

Su Elena Ferrante

Circa la vera identità che si nasconde dietro l’alias di Elena Ferrante ci sono diverse ipotesi in giro. Le uniche cose certe parrebbero essere che la suddetta sia una donna ormai matura che ha vissuto molti anni a Napoli. Ma a dire il vero c’è anche chi sospetta che non sia neppure una donna. Oppure altri che sosterrebbero che in realtà siano più persone che la incarnino.
Voglio dire che credo fermamente in quello che riporta la casa editrice che la pubblica: che lei è una donna che ha vissuto a Napoli. Altrimenti ritengo sarebbe troppo scorretto far credere delle cose non vere. Cioè, un conto è mantenere celata un’identità; tutt’altra cosa è far credere il falso.
Da un punto di vista stilistico confermo che la scrittura di Elena Ferrante, e sopratutto i temi di cui narra, sembrano proprio acclarare che si tratti di una donna.
Comunque va rimarcata la differenza stilistica che intercorre tra i primi tre libri (dico così anche se ad ora ne ho letti solo due) e i successivi della saga dell’amica ritrovata, pardon, geniale. Ma a dire il vero è evidente che i primi tre romanzi narravano di amori malati, mentre la tetralogia dell’amica geniale è più simile a un romanzo di formazione a più ampio respiro, dunque è naturale che lo stile risulti un po’ diverso. È giusto così. E poveracci quegli scrittori che sanno scrivere solo in un modo. Che non ritengo dei veri scrittori, cioè degli scrittori molto bravi.

Tende nere

Recentemente ho lavato le tende di casa mia. Non veniva fatto all’incirca da sei mesi. Erano visibilmente ombrate, sporchissime. E dopo che le ho messe nella lavatrice mi sono dovuto lavare pure le mani perché mi si erano tutte inzaccherate con della polvere nerastra. Vi sembra normale questo, o accettabile? Questa è l’aria che si respira qui. Per la gente va tutto bene. Va tutto bene… Va tutto bene… Poi un giorno gli viene il cancro e dicono: toh!, che sfortuna! chi se lo sarebbe mai potuto immaginare?

Nemesita nel bosco da sola

Nemesita entrò nel bosco assieme a due allocchi che facevano jogging. Nemesita non capiva la gente che andava a correre per consumare energie. Lei aveva il problema opposto. Non se la passava benissimo e delle volte soffriva la fame, nonostante tutte quelle sostanze di cui si facesse (cioè tutto quello che poteva raccattare, dalle canne, al crack, all’eroina, alla coca, alle anfetamine all’LSD) spesso le facessero passare l’appetito. Presto si sarebbe dovuta recare nuovamente dal macellaio che le faceva credito. Credito per modo di dire: in realtà pretendeva di esser pagato sempre in un’altra maniera: in natura; una maniera che la ripugnava ma a cui doveva soggiacere se non voleva prima o poi morire di fame.
Ma in quel momento Nemesita non pensava al sudicio macellatore. Hildita non pensava a niente. Pensava ad attraversare il bosco [parco] e trovarsi un posticino per schiacciare forse un pisolino, o distendersi a prendere il sole. Infatti cominciava a fare freddino.
A un tratto si trovò davanti un bivio. A destra compariva una specie di scorciatoia, una stradina che si addentrava proprio nel centro più ingarbugliato del bosco, e le avrebbe fatto risparmiare del tempo. A sinistra c’era il solito sentiero che prendevano tutti, che eseguiva una lunga circonvoluzione per aggirare quella zona così fitta di vegetazione, e poi rispuntava dall’altra parte, dove riprendeva in un tratto molto più ampio.
I corridori la superarono prendendo il sentiero di sinistra. Hildita poté osservarli da dietro. Erano una coppia male assortita. Lui, un tale robusto con la maglietta rossa il quale corricchiava più lentamente di quanto avrebbe potuto, per stare al fianco dell’altra. Che sembrava una stramba ragazzina più giovane di lui, magrolina e bassa, con le gambe assai arcuate, con dietro due trecce di capelli castani che la facevano somigliare a un’indiana del west. Hildita guardò quelle gambe con sprezzo. Si disse compiacendosene che le sue gambe erano molto più belle: erano diritte, tornite e muscolose. Ci era proprio nata così e non le aveva mai allenate.
Con il suo ultimo sguardo scrutò i corridori sparire nella discesa che portava dapprima alla strada e poi sarebbe rientrata nel bosco [parco]. Si chiese se una volta finita quell’assurda attività fisica avrebbero scopato, quei due. Ne era quasi certa. Ma prima o dopo essersi fatti la doccia? Prima, riteneva lei. Perché quei tipi amavano sentirsi puliti dopo, dopo che avevano sudato e si erano affaccendati in pratiche faticose e/o amorose e avevano fatto le sozzerie. Hildita immaginò il colosso che la piegava in due tenendole quelle gambette storte verso il soffitto: che si gettava con tutto il suo peso dentro lei, dentro quella piccola ragazzina che non doveva avere orifizi adatti a contenerlo. Per un attimo ne sorrise; ma poi provò invidia per loro, che almeno avevano l’uno per l’altra, mentre lei non aveva nessuno. Proprio nessuno. Lei non poteva avere nessuno. Lei era in fuga perenne…
Hildita prese senza pensare il sentiero di destra. E l’ambiente fu subito molto diverso. Il sentiero si faceva ristretto. La lussureggiante sterpaglia lottava da anni per cancellare quella stradina, e non era detto che prima o poi non ce l’avrebbe fatta: quando infine non ci sarebbe più stato nessuno a prenderla, i passi degli esseri umani non avrebbero più distrutto quelle nuove erbacce che tanto avrebbero voluto cingerla per inglobarla.
La luce era visibilmente calata. Hildita si disse che quello sarebbe stato un posto perfetto per un’imboscata. Forse aveva fatto male ad allontanarsi dal sentiero principale battuto dagli uomini buoni (o comunque meno cattivi degli altri). Forse era una sprovveduta a sperare di non incontrare il lupo cattivo per quei declivi silvestri…
Chiunque avrebbe potuto nascondersi dietro un cespuglio, piombarle alle spalle e violentarla. Hildita ebbe la netta percezione che tutti gli assassini e i violentatori del mondo ne fossero al corrente. Ma oramai era tardi per tornare indietro, no? Hildita si disse che avrebbe camminato appena per quaranta secondi, non di più. Era quello il tempo necessario per compiere quel periglioso attraversamento. Dopo sarebbe tornata sul sentiero principale inondato di luce con la gente perbene. E già dieci secondi erano passati…
Ma a un tratto notò sulla stradina un grosso ramo di albero che sembrava esser stato posto là appositamente per impedire il passaggio. Hildita si chiese ancora se non fosse il caso di tornare indietro. Però ormai era a metà strada. Tanto valeva proseguire. Però… Per primo, il ramo appariva evidentemente strappato con la forza (e ce ne era voluta molta perché era piuttosto spesso); per secondo, si vedeva benissimo dalla tracce lasciate sul terreno che il ramo era stato trascinato per metri in quel punto preciso in cui adesso giaceva. Chi ce lo aveva messo e perché?, si chiese Hildita atterrita. Davvero qualcuno aveva voluto ostruire il passaggio o perlomeno rendere più difficile entrare o uscire da quella zona remota lontana dallo sguardo di tutti?
Hildita proseguì cominciando a temere. Mamma mia, vuoi vedere che ho fatto una gran cazzata a passare di qui?!; vuoi vedere che me ne pentirò?!, si chiese. E aveva un po’ di fifa. Tuttavia una parte di lei non voleva darla vinta al mordente che gli assassini e i violentatori avevano sulla sua psiche; così si mise su la sua faccia più sfrontata e proseguì. Sono a metà sentiero, si disse, ormai sono quasi fuori…
Ma poi, sul lato destro del già di per sé angusto sentiero, Hildita scovò un uomo robusto di altezza media, cioè alto quanto lei, il quale fingeva di prestare molta attenzione alla vegetazione ramificata lì intorno e molta poca a lei, che pure era bella, formosa, attraente e si vedeva che era indigente, dunque più debole di una persona normale in caso di agguato, perché in pochi l’avrebbero reclamata qualora fosse stata rapita o avesse chiesto aiuto. Il tizio appariva curiosamente assai infagottato (cosa nascondeva davvero sotto quegli abiti?). Indossava un largo giubbotto da lavoro grigio, forse in tinta con dei pantaloni larghi da lavoro; era accessoriato di guanti giallognoli e calzava in capo un odioso e unto cappellino da benzinaio con la visiera che aveva l’evidente scopo di occludergli il volto il più possibile.
Hildita si fece forza e, fosse stata cattolica, si sarebbe fatta il segno della croce. Accelerò il passo facendo finta di essere più seccata che spaventata di averlo incontrato, anche se dentro di lei l’angoscia cresceva a vista d’occhio. E quando dovette necessariamente passargli di fianco, quello, guarda caso, si voltò lentamente verso di lei sorridendole, rivelando una faccia con due occhi chiari e strabici da ubriacone e una barba irta di almeno un paio di giorni.
Come Hildita aveva previsto, nel momento il cui fu perfettamente allineata a lui, quello divenne loquace e audace, gli si sciolse la lunga lingua biforcuta e le disse:
«Non è che mi daresti una mano a spostare questo rovo, bella?»
Hildita non si fermò, rallentò il passo un poco per dargli l’illusione che potesse accettare mentre invece elaborava solo una risposta accettabile. Si immaginò la scena… Lei che lo aiutava a spostare il ramo in una parte ancora meno accessibile del bosco e lui che poi le dava una botta in testa e se la inchiappettava tra arbusti acuminati. O peggio: erano altri suoi amici appostati nell’ombra che l’assalivano da tutte le parti come scimmie impazzite mettendole subito una mano sulla bocca per impedirle di gridare, e le altre mani sulle tette, il sedere e la fica, dappertutto. Poi la abusavano a turno e l’uccidevano dopo averla tenuta lì chissà quante ore, i porci bastardi!
Così Hildita si disse: see, mica sono così stupida, stronzo! non ho proprio voglia di farmi inculare da te, che tra l’altro mi fai già abbastanza senso così senza che approfondisca ulteriormente la tua conoscenza! perché non ti trovi una porca come te invece di rompere le palle a me?! da qualche parte la dovresti pur rimediare una così lurida!
Dunque Hildita si fece uscire il fiato e, mentre si lasciava l’uomo alle spalle invero temendo che quello da ultimo l’assalisse approfittando che non lo sorvegliava (ma già la fine del sentiero fitto e la luce si intravedevano al termine del ginepraio rincuorandola), gli disse:
«Mi spiace… C’ho l’ernia…»
La tal frase lasciò il tipaccio sbigottito come un salame. «C’hai l’ernia…», ripeté beota continuando a fare quel suo sorriso osceno che aveva assunto una tinta di lieve beffa, nel senso che aveva perfettamente capito che quella era solo una scusa.
Hildita tornò sul sentiero principale e si giurò che non sarebbe più passata per quella scorciatoia poiché era troppo pericolosa per una bella e brava figliuola come lei. Troppo, davvero troppo. E poi a lei neppure era concesso di farsi notare più di tanto ficcandosi in qualche guaio, sennò prima o poi quelli della congiura l’avrebbero trovata…
Ore dopo, rincasata nella sua diroccata e polverosa bicocca, come spesso faceva, prese in mano l’edizione de La teoria del complotto che custodiva gelosamente. Osservò la quarta di copertina dove compariva l’immagine dell’autore, Nemesis, con quei suoi detestabili baffetti da artistoide. Si tastò il labbro superiore con malanimo. Non c’era più traccia di quell’irsuta peluria sul suo volto. Questo la faceva impazzire. D’altronde quello neppure era il cambiamento peggiore che il suo corpo aveva accusato. Infatti un qualche misterioso stregone malvagio l’aveva trasformata in una donna… A lei che in realtà era stata Nemesis!, che affronto! Adesso Hildita aveva delle bocce notevoli sul petto. Quando se le tastava (invero con molta soddisfazione, eccitandosi lei stessa come fosse stata ancora un uomo), diceva sempre: qui hanno fatto davvero un lavoro coi fiocchi, i chirurghi; neppure sembra tutto silicone! Poi si toccava i fianchi e si diceva: toh! queste sembrano ossa vere, eppure mi devono aver impiantato dell’altro: sono sicura che questa sia plastica dura… Infine, quando si andava a cercare quel pene che non c’era più per rinvenirne solo uno molto più minuscolo e rinsecchito con il quale prendeva a giocherellare non sapendo rinunciare ad arrivare all’orgasmo, si diceva: pure il pisello m’hanno tagliato questi bastardi! a tanto sono arrivati pur di farmi perdere la ragione!… ah, ma un giorno mi vendicherò di brutto di loro! scoprirò chi sono e come cazzo hanno fatto, e gliela farò pagare cara, anzi carissima a quegli stronzoni!…
Le prese la brama di scrivere, perché lei era e sarebbe sempre stata una scrittrice, anzi uno scrittore. E allora mise un foglio bianco nella vetusta macchina da scrivere e cercò di trovare un titolo per il racconto che aveva in testa, ma ne dovette scartare svariati prima di cogliere quello giusto. Scrisse:
HILDITA NEL BOSCO
COME HILDITA DIVENNE NEMESITA
NEMESITA SI INOLTRA NEL BOSCO TUTTA SOLA
L’ultimo la soddisfece. Poi cominciò il racconto:
Hildita entrò nel bosco assieme a due allocchi che facevano jogging.
Poi pensò: basta con questa storia di Hildita! io sono Nemesita! qualcuno ha voluto convincermi, in passato, che io sia questa Hildita. ma io sono solo Nemesita! io sono Nemesis in versione femminile! io sono Nemesis trasformato da uno stregone malvagio in una donna!… Poi proseguì il racconto non accorgendosi talvolta di scrivere Hildita invece che Nemesita.
Comunque fu quello il giorno in cui Hildita divenne davvero Nemesita. E da allora non ci fu più traccia di Hildita (se non in quel racconto), che fu come inglobata nel buco nero che la cospirazione rappresentava.
Hildita e Nemesita erano la stessa persona derivata in maniera diversa, ma solo Nemesis avrebbe potuto scoprirlo un giorno, forse. Nemesis era il solo che poteva salvarla…

Persone rispettabili

Eccolo là. Lo vedi che portamento eretto? La vedi la sua sgambata fiera e virile? Quello sì che è un uomo! Avvolto nel suo prezioso cappotto di cammello, attraversa le vie cittadine elargendo charme e sicurezza a tutta la cittadinanza. Se non ci fosse lui come faremmo tutti quanti noi modesti e insicuri sottoproletari a sentirci orgogliosi di qualcosa? Però nessuno sa che a casa sua, questo uomo così retto, picchia la moglie, la figlia e il cane e fa il bello e il cattivo tempo… È soprannominato dai suoi parenti stretti “Ivan il terribile”.
Eccola là. La vedi? È la top-model del quartiere. Guardala come sfila naturalmente suoi suoi tacchi dodici. Guarda la naturalezza della sua falcata, perfettamente calibrata per non essere né troppo volgare né troppo banale. Osserva le sue morbide natiche ancheggiare. Sembra che parlino, non è vero? Ammira l’eccezionale colorazione dei suoi capelli che ha impiegato anni a trovare. Adora il suo taglio preciso, che sembra sempre della stessa lunghezza. Almeno fino a quando non deciderà di cambiare maschera e volto… È la giovane donna più riverita e ammirata del rione. Sapessi quanti farebbero follie per lei. E lei è tanto buona con noi. Lei si lascia guardare come regalasse magnanimamente un osso a dei cani affamati… Però nessuno vuol vedere quel che quella signorina è sul serio. Cioè un’arrampicatrice sociale, una lestofante, una calunniatrice. Una disposta a tutto pur di avere sempre più, anche a discapito degli altri. Perché per lei il mondo è qualcosa da accaparrarsi prima che lo faccia qualcun altro…
Eccolo là. Lo vedi? Quel bravo anziano col bastone. Lo trovi sempre in piazzetta, con o senza gli amici, a tutte le ore. Sembra quasi che vigili che tutto proceda bene. La vedi la sua aria così placida? Non ti infonde letizia e tranquillità già solo quella? Se ci parli ti accorgerai che ti guarda negli occhi e sembra scrutarti, soppesarti attentamente. Poi ti risponderà con qualcosa di molto accomodante e ammodo. Perché lui è così: l’insegna della cordialità. Però non molti sanno che in realtà, se si trova lì per ore e ore, è perché fa da palo. Sì, proprio da palo. Sta tutto il santo giorno lì con la sua aria neutra camuffandosi col paesaggio e sembra che non faccia un cazzo di niente. Invece scruta con assiduità i paraggi. E se per caso passa un auto della polizia, forse non molti si accorgeranno che con la mano che tiene sempre in tasca premerà un bottoncino sul cellulare. Prende cento euro al giorno, il simpatico vecchietto. È un alleato molto fidato della mafia locale. Li ha salvati un sacco di volte da grossi casini. A lui non interessa niente se magari li aiuta a smerciare droga e magari un giorno sarà uno dei suoi amati nipotini a finire in quel triste traffico come consumatore. A lui interessa solo di quei cento lerci euro che si mette nel portafoglio ogni cazzo di giorno. Che poi che ci farà con tutti quei soldi, quel pezzo di merda rinsecchita? Magari domani gli verrà un infarto, e allora tanti saluti… La gente è matta. E fa schifo…
Ecco, li vedi? Sono quelle in realtà le persone “normali”. Se osservi da abbastanza vicino una persona normale, ti accorgerai, forse stupendotene assai, che la stragrande maggioranza di essi sono persone semplicemente indegne, miserabili, traditori, puttane e puttanieri, manigoldi, stupratori fisici o sentimentali. Seppur ammantati dalla loro patina di “rispettabilità”…

Carlo Lucarelli: Autosole

Due cose non mi sono piaciute di questo breve romanzo corale che racconta le vicende di varie persone in coda sull’autostrada. La prima è l’odiosa copertina del libro, di un famoso artista underground gay ormai defunto (neppure i bambini disegnano così male!). La seconda è che si citano un mucchio di automobili, che ho scoperto che odio (molto più di quanto credevo). Ha ragione Lucarelli: questo libro in realtà nasconde un sacco di particolari che sono solo accennati, e se si rilegge la storia se ne possono trovare diversi che non si erano notati, imboscati qua e là.

“Che cosa stati scrivendo in questo momento?”

Vediamo… Ho appena terminato la prima bozza estremamente sgrammaticata come mio solito di un romanzo che parla di quattro bambini che diventano adulti… Ho cominciato a scrivere un noir annesso di serial killer ma mi sono incagliato alle parti spinte perché non ho voglia di immaginarle e poi scriverle (ne ho altri di libri fermi ai box per lo stesso motivo)… Stavo per cominciare a scrivere la storia di una specie di Nikita, dall’infanzia alla maggiore età… …Ma poi mi sono imbattuto in una vecchia sceneggiatura degli X-Men che avevo cominciato a scrivere quasi per gioco. E non solo mi è piaciuta molto ma mi sono venute un mucchio di idee per scrivere altre centinaia di pagine! Così adesso la mia mente pullula di mutanti con superpoteri che esigono che si narrino le loro vicende. E io so che se li ascoltassi potrei rimanere impelagato su questo progetto chissà per quanto… Anni? E poi che cosa me ne verrebbe? Quasi sicuramente nulla… Questi sono i dilemmi che affliggono noi poveri scrittori. Con storie e personaggi che ci pedinano notte e giorno finché non facciamo come vogliono loro. E loro sono tanti e ognuno reclama il suo spazio. E noi che dobbiamo dare la priorità a quelli che ci sembrano più importanti, immediati, imprescindibili. E ci dispiace sempre per quelli che, per carenza di tempo, rimarranno nell’oblio. E comunque rischiamo di uscirne sempre pazzi, a forza di vivere nei nostri mondi fantastici per troppo a lungo. E perdiamo sempre più la giusta distanza dalla fantasia… Però, se questo duro lavoro non lo facciamo noi, chi altri lo farà? Chi altri può farlo? Siamo degli sventurati predestinati, condannati ad andare incontro al nostro destino, ovunque esso ci condurrà. Anche quando è un vicolo cieco.