1. Terapeutico colloquio dallo psichiatra
N. arrivò cinque minuti prima dell’orario dell’appuntamento. Sulla panca si era già formata una discreta fila con le solite persone che aveva imparato a conoscere. C’erano la madre e il figlio incestuosi (entrambi ritardati, che non si capiva mai chi dei due stesse peggio) con le loro orribili facce da gente che soleva accoppiarsi tra loro; c’era lo schizzato bipolare con manie di persecuzione (in quel mentre piuttosto calmo, sotto l’effetto di pesanti psicofarmaci sedanti); c’era la biondina cleptomane con il viso carino e col corpo da balena… E adesso c’era anche lei, N., che dovette unirsi a loro sulla panca in quello spazio che sembrava preordinato.
Quel desolante spettacolo le diede un moto di nausea. Avrebbe voluto scappare. Ma dove? E poi N. era sempre così stanca… Chissà perché si sentiva intontita da un po’ di tempo a questa parte, pressappoco da quando aveva cominciato ad andare da questo psicologo, il quale perlomeno sembrava essersi molto affezionato alle sue sorti, al contrario degli altri che lo avevano preceduto.
N. aveva una gran voglia di dormire, così non poté evitare che le sue membra svigorite – proprio lei che, fino a qualche mese fa, era considerata da tutti iperattiva e iper… tutto! – si deponessero fiaccamente sulla vecchia panca in legno scuro che odorava di stantio.
Una volta seduta si sentì depressa ma in qualche modo rassicurata: perché da sempre un destino che si è vissuto già tante volte non riserva sorprese, e gli esseri umani sarebbero in grado di adattarsi a qualsiasi supplizio purché abbiano il tempo necessario di farlo. In quel limbo nebuloso in cui la sua vita era sprofondata, N. sembrava che disponesse di tutto il tempo del mondo; N. che era come un’Alice che aveva oltrepassato lo specchio, ormai impossibilitata a fare ritorno indietro…
N. intravide il proprio riflesso nella vecchia teca piena di libri ingialliti, di fronte a lei, messi lì solo per far figura. Aveva la frangetta spettinata: un tempo le avrebbe dato molto fastidio ma ora… l’avrebbe semplicemente lasciata così. Non si riconosceva più. Non esisteva più il volto di quella ragazza mora che lei era stata: da un po’ N. aveva cambiato espressione, e adesso era sconosciuta in primis ai propri occhi.
N. si chiese come mai il medico avesse l’abitudine di dare sempre appuntamento ai suoi pazienti alla stessa ora, cioè a tutti assegnava il medesimo orario. Così poteva pure accadere che le toccasse di aspettare ben due ore. Una volta ne aveva attese tre. E dopo lo stronzo le aveva chiesto di andare a cena assieme, visto che ormai avevano fatto tardi e lei, che in quel periodo aveva una volontà ridotta ai minimi termini, meno riottosa di un cavallo ormai desolato dal basto e dal bastone, lei non aveva potuto che accettare, anche se avrebbe fatto carte false pur di sgombrare per sempre la sua vita da quell’ingombrante e untuosa figura.
Il rapporto col terapeuta era assai ambivalente. Da un lato non lo sopportava affatto e anzi si sarebbe potuto dire che lo odiasse a profusione con tutta se stessa. Dall’altro però aveva bisogno di quell’ometto tanto ridicolo quanto presuntuoso, tanto eminente quanto insignificante, di quell’ometto che innanzitutto le forniva quelle medicine senza le quali ormai non sapeva più vivere. Quell’ometto che, facendola parlare, la stava traghettando verso il lunghissimo e periglioso e tortuosissimo tragitto dell’uscita dalla malattia. Infatti egli le diceva sempre che facevano dei progressi, anche se lenti, che dunque si potevano nutrire buone speranze per una sua prossima, totale guarigione, in un futuro imprecisato il quale non era mai stato quantificato a dovere (su questo argomento il medico era sempre stato molto vago e reticente); futuro che quindi avrebbe pure potuto essere di anni, forse decenni. Ma N. era troppo debole per opporsi a tutto quello che le veniva sciorinato e se una parte del suo cervello (quella che era rimasta tuttavia desta, che lei chiamava la parte cattiva poiché la più somigliante a come era lei prima) criticava aspramente quelle sedute alle quali era costretta a partecipare, tutto il resto di lei si poteva dire che si fosse ormai rassegnata al suo ineluttabile destino.
Quel giorno N. fu fortunata. Il medico la fece entrare per prima. Aprendo la sua porticina con l’imponenza di chi si credeva un nume, eseguì un accurato esame dei pazienti sulla panca (i quali tutti rabbrividirono sia di gioia che di terrore), si pulì gli occhiali e poi diede il via libera a N. «Nadine, vieni tu…», disse stentoreo seppur non dotato di questo gran tono di voce.
E N., da brava, trovò delle intrepide energie residue (quando le sembrava che non ne avesse più) per defalcarsi da quella scranna, alzarsi in piedi, rivelandosi ancora una volta come la ragazza alta che era, e avvenente, che sarebbe stata fino a qualche tempo fa, e si buttò dentro senza fiatare essendogli anche molto riconoscente del beneficio che le veniva accordato.
Ebbe uno dei suoi flash. Qualche volta le capitava. Era come se, dopo essersi addormentata a occhi aperti, al risveglio, poi ricordasse e comprendesse quel che aveva registrato nel precedente stato di trance. Allora si rammentò che prima della scena in cui il medico le aveva chiesto di essere la prima, in realtà aveva assistito all’uscita da quella stanza, la stanza del medico, di un altro tipo mai visto prima, un tipo alto che camminava lento eppure deciso e senza tentennamenti, un tipo che a sua opinione, nonostante tutto, si era subito detta che non assumesse psicofarmaci. E, quando lo vide, N., o meglio la sua parte cattiva, meditò rivolgendosi col pensiero a lui dicendogli “tu che puoi, scappa!… vattene! non ti far tirar dentro anche tu in questo buco nero dal quale non avrai più la forza di fuggire perché ti succhierà tutta la tua luce! tu che ancora non sei un vero paziente, non tornare più qui per nessun motivo al mondo, da questo stregone che ti ruba l’anima! riprenditi la tua vita laddove l’hai lasciata e piscia su chi ti vuole affossare nella merda… tu, almeno tu, non fare la mia povera fine; non fare la nostra fine. se diventi uno di noi sarai solo un subumano con lo sguardo spento, una forma di vita inutile a sé e a chiunque, se non a chi la sfrutta…”
[Uscendo osservai i pazienti abituali del medico. Si vedeva che stavano male. Si vedeva già solo dalle loro facce. C’erano un paio di ritardati (sicuramente madre e figlio) che si assomigliavano moltissimo, un’abnorme grassona con un viso carino, e sopratutto una ragazza, con un’espressione assai sofferente, con la frangetta, che giudicai bellissima. E solo per lei allora avrei voluto avere la scusa di tornare lì da quello psicologo ogni settimana. Ma non potevo farmi tirare in una trappola così letale solo per conoscere quella ragazza. Così, allontanandomi da quel luogo malefico, mi giurai che non vi sarei più tornato. Anche se una parte di me avrebbe voluto farlo per salvare la ragazza con la frangetta dal suo ineluttabile destino…]
Il medico notò uno sguardo particolarmente languido nel volto di N. e allora gliene chiese conto. «A cosa stai pensando, Nadine?», domandò con reale curiosità, con l’interesse possessivo del marito geloso che si angustia poiché non potrà mai conoscere al cento per cento cosa pensa la moglie sensuale, che sa bramata da tanti, la quale forse prima o poi capitolerà alle lusinghe di qualcuno.
Questo suo interesse morboso nei confronti di N. era probabilmente amplificato dal fatto che egli la sapeva una bugiarda incallita, una di quelle dalle cui parole non era mai possibile stabilire se stesse dicendo la verità o meno: perché N., per qualche motivo, aveva talmente trasfigurato il suo mondo interiore (probabilmente, pensava lui, a causa di innumerevoli abusi subiti forse fin da bambina) da renderlo un labirinto ingarbugliato nel quale un episodio reale poteva avere lo stesso peso di una sua proiezione nevrotica. Era da mesi che ci si era accanito in quel pantano impraticabile cercando di cavarne un ragno dal buco; ciononostante finora, senza che se ne rendesse conto, era lui stesso che stava finendo dentro quel buco e non il contrario…
«Allora?», ribadì la sua domanda il medico, che pretendeva una risposta. N. ritornò in sé, lucida per come lo era al solito.
«Uno dei miei flash…»
«Stavolta che cosa hai visto?», chiese rassicurato, perché i flash riguardavano fatti realmente accaduti, mentre erano le visioni (che davvero non riusciva a interpretare) che gli davano dei grossi problemi.
«Niente… Il tipo prima di me. Pensavo di essere la prima ma… C’è stato un altro prima di me oggi, vero?», chiese con una punta di patema d’animo perché anche i suoi flash richiedevano che venissero confermati, altrimenti avrebbero potuto essere solo delle sue fantasie.
«Sì. In effetti oggi sei la prima dei pazienti. Ma non la prima in assoluto…», sorrise dietro gli occhiali con l’adagio di chi si bea di sapere cose che gli altri non sanno.
«Chi era? Uno nuovo?», chiese timidamente ma manifestando un palese desiderio di comprensione. Al che il medico si ingelosì e in un attimo immaginò che, se davvero quel tipo fosse diventato un suo paziente, N. ne sarebbe potuta essere attratta poiché, adesso che ci pensava, quei due sarebbero potuti stare bene insieme, e forse si sarebbero innamorati, e forse insieme avrebbero trovato entrambi la forza necessaria per lasciarlo, a lui che invece li aveva aiutati con tanto buon cuore. Ah, ma quella cosa non l’avrebbe mai fatta succedere, perché se davvero quel tipo fosse diventato un suo nuovo paziente, si sarebbe adoperato per fornirgli sempre un orario di appuntamento in un giorno diverso da quello assegnato a N. E dunque il problema non si sarebbe mai posto.
Rinfrancato dall’esattezza di quel ragionamento disse:
«Non ti curar di lui, forse neppure lo vedrai più. Bene, Nadine cara. Di cosa vogliamo parlare oggi? Non certo di quel tipo…»
«No, certo…», disse lei che afferrò che se avesse continuato a veleggiare circa quell’argomento gli avrebbe fornito un’impressione non positiva.
Il medico sprofondò nella sua poltrona imbottita, accese la consueta musica di sottofondo new age e si rilassò facendo un bel respiro. Solo allora N. si accorse degli ordinari odori da candele aromatiche da due soldi di cui era impregnata quella stanza. Quegli odori in un primo momento potevano sembrare gradevoli, ma alla lunga lasciavano intontiti rivelandosi irritanti e confondenti.
«Vorrei riprendere da dove abbiamo lasciato la volta scorsa, Nadine, se tu sei d’accordo. Infatti ancora non sono riuscito a comprendere se tu… se le cose che mi hai detto siano vere oppure siano eventualmente (e in che misura) infarcite di quelle numerose false esperienze che assiepano il tuo inconscio. Se, invece di psicanalizzare la realtà, ci rivolgiamo al guazzabuglio di tutti quei pensieri atavici che albergano la psiche di ogni individuo… tu capisci che finiremo per non approdare mai a niente e, non solo queste sedute sarebbero totalmente inefficaci ma sarebbe come se finora non avessimo fatto altro che girare a vuoto, perso solo del tempo. Capisci, Nadine?»
«Ma certo…», disse lei meccanicamente come un’alunna impreparata che fingeva di aver studiato.
Il medico pensò che aveva fatto un discorso troppo complicato per la debole psiche di N. e si esortò a parlare con frasi e discorsi più semplici, così che lei avesse potuto seguirlo meglio.
«Beh, la volta scorsa era emersa questa cosa curiosa che sinceramente proprio non mi aspettavo da una tipa perbene come te (però devo ammettere che ogni tanto mi prendi del tutto in castagna). Mi dicevi che ami le pistole… Perché non me ne parli?»
N. sbatté le palpebre una volta e poi fece sì col capo. Dunque cominciò a sorridere con uno sguardo trasognato. Lo psicologo sapeva che da lì avrebbe cominciato a raccontare qualcosa che sembrava vero ma che non era affatto detto lo fosse: qualcosa che poteva sembrare assai verosimile fino a un certo punto, ma che a un tratto avrebbe rasentato l’inverosimiglianza o la follia, per quanto N. l’avrebbe spinto al limite.
«Mi ricordo che avevo una pistola…»
«Quando?»
«Avevo una pistola qualche anno fa, da adolescente. Era una pistola bellissima. Nera, lucente. Fredda. Ci mettevo le mie belle mani sopra e rimanevo in visibilio per ore.»
«…Dove l’avevi presa?»
«Era di mio padre.»
«Ma… non sei cresciuta in un orfanotrofio?», il medico intuì che quel ricordo potesse esser falso.
«Sì. Prima. Ma poi venni adottata, seppur per un periodo molto breve. La presi dal cassetto del mio padrigno. Sì. Insomma avevo questa pistola in mano e mi sentivo felice. Ed eccitata…»
«Perché eccitata?»
«Perché sapevo che con quella si poteva dispensare morte a chiunque avessi voluto. Perché con quella avrei fatto… avrei potuto fare un buco nel petto di chi odiavo…»
«Chi odiavi in quel periodo? C’era qualcuno in particolare?»
«Non ricordo. Forse nessuno… Perché con quella avrei potuto far sgorgare dei rossi fiotti di sangue… Proprio come una fontana. La cosa mi sembrava bella. E poetica. Trovavo che fosse bello. Cioè, potevo vedere il lato bello della cosa… Lei riesce a vederlo, dottore, il lato bello della cosa?», gli si rivolse realmente felice di quella fantasia di cui si era infarcita. E il medico vacillò. Erano proprio quegli scatti di follia distruttiva che gliela rendevano tanto affascinante, incomprensibile, che la trasfiguravano forse in quella ragazza inaccessibile alla quale tutti gli uomini sognano di inchinarsi.
In questi casi non sapeva mai cosa risponderle. Pure le regole della professione medica non è che gli venissero molto in soccorso perché un conto era saperle e un altro conto era metterle in pratica. Per cui, in questi casi, si limitava a fornire risposte evasive. Perché era lei che doveva scoprirsi, e non certo lui. Inoltre non sarebbe stato opportuno farle sapere quanto lui ci perdesse la testa per quelle sue mattate. D’altro canto a N. non interessava realmente cosa lui le avrebbe risposto, perché sarebbe andata avanti ugualmente per la sua strada, qualsiasi cosa lui le avesse detto.
«È un punto di vista…», borbottò lui.
«Insomma un giorno ero lì che ci giochicchiavo, non so se mi capisce. Era il mio passatempo preferito. Ogni volta che potevo l’andavo a prendere dal cassetto senza che nessuno lo sapesse. Mi piaceva assai che nessuno lo sapesse, sapesse che io facevo quella cosa proibita…»
«Quindi tu… avevi coscienza che quella fosse una cosa da non fare…»
«…Avevo imparato ad aprirla e smontarla. Toglievo il tamburo ed esaminavo il contenuto. Era sempre vuoto, nessuna pallottola (e un po’ mi dispiaceva). Poi armavo il cane. E poi lo disarmavo. Poi scoprii pure che c’era una specie di sicura. Così mi venne l’abitudine di riporla sempre con la sicura inserita (perché non si sa mai) come pure di disinnescarla appena la riprendevo in mano. Poi qualche volta non resistevo e allora la impugnavo con due mani (era più pensante di quanto avessi pensato), quindi miravo e…»
N. simulò come l’avesse avuta in quel momento con lei. Prese la mira e indugiò a premere il grilletto.
«…E?», disse il medico allarmato.
«E… BANG!», strepitò N. mentre, di scatto, si rivolse verso il volto del medico fingendo di sparargli in faccia a tradimento. Questi cercò di sforzarsi di mantenersi calmo (non gli piaceva affatto che lei manifestasse quell’emozione di ammutinamento nei suoi confronti ma dovette fare buon viso a cattivo gioco).
«Hai mai… davvero sparato a qualcuno, Nadine?»
N. sorrise laida, tanto da fargli spavento.
«Eh! Si capisce che prima o poi sarebbe successo, no?! Non era scontato che sarebbe finita così? Finisce sempre così: se uno ha una pistola, poi la usa…»
Allo psicologo si accapponò la pelle.
«Ma…», provò inutilmente a obiettare.
«Mi diedi ben presto da fare per rimediare dei proiettili. D’altronde era la sola cosa che mi mancava per poterla utilizzare sul serio. Ne venni in possesso tramite un mio amico che in quel periodo sbavava per me. Quel poveraccio avrebbe fatto qualsiasi cosa per compiacermi. Era patetico come potessi farglielo menare anche solo con dei piccoli sfioramenti, o con degli sguardi falsamente possibilisti…» (il medico si intorbidò anche lui) «Per mia fortuna, conosceva le pistole e quindi tramite il modello della pistola… una magnifica Smith-Wesson!… ottenemmo il calibro adatto! Certo dovetti dargli qualcosa in cambio, però mi fu sufficiente fargliene solo uno… E anzi quasi tutto il lavoretto glielo feci con la mano, ora che ci penso, perché non volevo ingurgitare quel suo sperma acido che già immaginavo mi sarebbe rimasto assai indigesto e attaccato alla gola… Così ottenni dodici-proiettili-dodici nuovi di zecca!»
Il medico cominciò a sudare copiosamente dalla testa, allora si voltò per aprire la finestra alle sue spalle. Gli ci voleva aria fresca per riprendersi da quelle oscenità che uscivano dalla bocca di N. come fossero acqua da una fontana. Si cavò il fazzoletto da una tasca e si deterse il sudore.
«E poi… che cosa ci facesti con quella pistola carica?»
«Ricordo l’emozione che provai quando la caricai, lentamente, per godermi al meglio il momento, con quei proiettili fulgidi! Ero al settimo cielo! Poi, una volta caricata, dopo essermi messa davanti a uno specchio, non resistetti e la rivolsi contro me… La pistola era come se mi richiamasse e mi dicesse “Nadine, premimi! Sbloccami! Fammi esplodere di gioia! Sono nata per questo, Nadine… E questo faro sempre: sferrare proiettili”… Osservavo la mia faccia per vedere se avevo paura. Non l’avevo per niente…»
Il medico pensò: tanto non mi freghi stavolta, Nadine. È chiaro che per quanto tu mi stia instillando l’idea di esserti sparata, ciò è impossibile, dato che altrimenti non saresti qui con me in questo momento a riportarmelo. Mio Dio come sei squilibrata, Nadine. Una pazza da legare…
Ma N. gli disse poi quella frase che fu come un pugno nello stomaco.
«So cosa sta pensando, dottore. Questa qui mi vuol far credere che si sia sparata sul serio ma è ovvio che non potrebbe mai averlo fatto perché altrimenti non sarebbe mai sopravvissuta, non è vero? Ah! Ma se le dicessi che poi quel colpo me lo sono dato e che solo per un caso non sono morta e non mi è rimasto un segno evidente?», sorrise, e così facendo sollevò una folta parte dei suoi capelli dalla testa da cui emerse (ma forse era solo una suggestione) una zona che avrebbe potuto rappresentare una specie di cicatrice da foro d’entrata… Il medico degludì imprecando mentalmente tra sé perché ancora una volta non era stato in grado di setacciare la verità dalla follia in lei… «Oppure… se le dicessi che poi non è stato alla testa che mi sono sparata ma in un altro posto qualsiasi del mio corpo?», accompagnò quel discorso con le mani e fu come le passasse dalla punta dei piedi alla punta dei capelli. Il medico si impressionò talmente tanto che la immaginò spararsi e farsi saltare un dito del piede; spararsi a un polpaccio; spararsi in una coscia; spararsi in pancia; spararsi in un seno facendosi schizzare via un capezzolo; spararsi in un polmone; spararsi nel cuore con il proiettile che le rimaneva incastrato tra le costole e non poteva più essere estratto (e da allora lei conviveva con quel pezzo di metallo in corpo); spararsi a un orecchio… e poi leccare la canna della pistola ancora fumante per infilarsela nella vagina…
«Insomma, caro dottore», continuò lei, che tramite quel discorso si era accesa diventando pienamente padrona della conversazione, «potrei dirle che alla fine quel duro e freddo e bruciante acciaio bollente me lo sia ficcato in qualche parte di me… Potrei dirglielo e avrebbe pure potuto accadere. Ma non successe. Per qualche motivo, nonostante la forte attrazione che provavo per quella pistola, non mi sparai. No. Però qualcuno doveva finire per rimetterci ugualmente, perché era nella natura delle cose che così dovesse andare. Le racconto… Un giorno presi la pistola carica e me la infilai nel giubbotto. Era molto largo quel giubbotto e la pistola non era così grande, quindi non ebbi alcun problema a portarmela appresso tranquillamente e nessuno poteva intuire che ce l’avessi. Ora mi serviva un bersaglio. Cominciai a camminare per la città. A quell’ora per i vicoli del quartiere non c’era molta gente. Sarebbe stato perfetto per esplodere un colpo a qualcuno e poi dileguarsi. Mi portai lentamente verso un asilo nido. I bimbi, quattro o cinque, in quel momento erano soli in cortile a giocare con terra e sabbia. Sembravano bimbi di nessuno. Dell’insegnante che avrebbe dovuto sorvegliarli non vi era traccia. Quei bimbi mi furono subito odiosi. In particolare c’era una bambina moretta molto rumorosa che diceva cose insensate e comandava a bacchetta gli altri (chissà se stava scimmiottando sua madre o la stessa pedagoga che avrebbe dovuto guardarla). Insomma, provai un fortissimo impulso di spappolarle il cervellino…»
Lo sguardo di N. si fece vitreo mentre lo psicologo ebbe un moto di profonda ripulsa. Davvero N. sarebbe stata capace di quel gesto aberrante, uno dei peggiori compibili da essere umano? Il fatto che si fosse soffermata su quella bambina (e con quelle caratteristiche) significava qualcosa circa le sue motivazioni più recondite, oppure era solo un caso che ella fosse stata scelta invece di un altro bimbo? Ma il dottore non ebbe il tempo di domandarselo perché proprio in quel momento N., come avesse esaurito quella carica empia che l’aveva fin lì contraddistinta, cambiò intonazione e atteggiamento e ridivenne la N. che faticava a parlare, con l’espressione afflitta in volto.
«Ma poi… Poi non lo feci. Anche se avrei potuto. Alla fine andai in una discarica abbandonata e sparai un colpo a dei barattoli che sembravano essere lì proprio per quello scopo. Il boato, ma sopratutto il rinculo, mi diedero così fastidio che fui tentata di lasciarla lì nella discarica, la rivoltella. Però stabilii di portarmela appresso lo stesso (sperimentando una sensazione di disgusto per tutto il tragitto di ritorno). La riposi nel cassetto e per un pezzo non la toccai più…»
N. terminò con molta fatica il racconto e poi non riuscì a dire più di qualche parola. Il medico cercò invano di cogliere la natura del suo resoconto, le sue spiegazioni e i numerosi non-detti e aspetti nascosti del racconto stesso. Inoltre non gli sfuggì che prima N. aveva affermato che qualcuno ci sarebbe finito di mezzo, mentre alla fine sembrava che non avesse sparato contro alcun essere vivente. E ciò era una palese contraddizione. Ma forse il racconto era ancora incompleto, perché lei si era stancata troppo in fretta e non aveva più voglia di riportarlo.
Sul concludere della seduta il medico tentò di appurare una volta per tutte la veridicità di quelle che sembravano solo le balle di una ragazza malata di mente provvista di una esagerata fantasia che galoppava senza limiti. Allora la volle mettere alla prova e dapprima le chiese se possedeva ancora la pistola. E quando N. sorprendentemente gli disse di sì, la provocò chiedendole se avesse potuto portagliela per fargliela vedere nella seduta successiva. E allora N., allorché uscendo dalla stanza si trovò sull’uscio, gli disse quella frase inspiegabile che lo spiazzò completamente…
«Certo. Anzi, avevo proprio intenzione di portargliela. Ho deciso ora che questa sarà la mia ultima seduta con lei. Tuttavia, la prossima volta che ci vedremo, le porterò la pistola, e dopo qualcuno morirà.»
