Incontro con Pino Stramboni

Io e Maria insieme al ristorante. Verso la fine ci accorgiamo che si è appena accomodato a un tavolo vicino niente popò di meno che il bravissimo Pino Stramboni.

«Certo che dal vivo è davvero un tappo… Sembra un bambino con la barba invecchiato precocemente», do di gomito a Maria. «Lo hai riconosciuto?», le faccio. «Chi?», dice lei. «Pino Stramboni! O come cavolo si chiama!» E glielo indico. «Ah, quello?», lo mette a fuoco. «Effettivamente è una faccia conosciuta, ma non sono sicura di aver capito chi sia».

«Dai, andiamo da lui, gli facciamo un saluto e ce la svigniamo.»

Pino Stramboni deve aver captato qualche nostro discorso perché quando ci avviciniamo e siamo ormai a due metri da lui già ci sorride predisposto ad accoglierci.

«Buongiorno! Le volevo fare i complimenti! La vedo sempre in tv», gli faccio. Poi mi rivolgo a Maria, «Adesso lo hai riconosciuto?»

«Forse», dice lei titubante.

«Ma come forse! È Pino Stramboni!»

Ma la faccia di Pino Stramboni, a quelle parole, seppur continua ad arriderci, sembra che un poco si offenda…

«Come “Pino Stramboni”?!»

«Beh, sì», lo capisco la volo, «forse avrò sbagliato qualche consonante del cognome, di cui non sono sicuro, in effetti. Aspetti… Non me lo dica! Devo arrivarci da solo… Pino Strambelloni!»

Pino si adombra leggermente. «No, no…»

«E tu hai capito chi è Maria?»

«Boh.»

«Ma come, ancora non lo riconosci? Eppure è inconfondibile… Già è strano incontrare uno così basso, che sembra quasi un nano (senza offesa)… Ma quanto è alto lei, signor Pino Strampaloni? Beh, comunque è quello con quella voce così particolare, suadente e profonda, che sembra quasi un trans. Cioè, adesso che ci penso, forse lo offendo dicendo che “sembra quasi”, mentre lui magari lo è proprio…», lo guardo.

«Ma che dice?!», si oppone Pino Strapiombi.

«Vuol forse dire che è solo omosessuale

«Ma quale omosessuale! Io ho famiglia! E figli!», non ci sta proprio Strambolettoni.

«See, vabbè… Se bastasse questo per non esser considerati gay, signor Pino Strafalcioni. Comunque rispetto la sua privacy. Per me può essere come vuole…»

Sennonché poi mi sovviene quell’immagine di lui, che in quella commedia impersonava proprio un trans…

«Ma scusi sa, ma lei per caso… non aveva fatto quel certo ruolo a teatro… Sì, me lo ricordo bene…», lui sbuffa, «in cui era proprio un travestito?»

«Non so a cosa si riferisca!», sbotta.

«Ma sì, aveva pure quel turbante sulla testa…»

«Semmai era un foulard…», mi rimbrotta.

«Allora vede che si ricorda, signor Pino! Non si alteri. Adesso ce ne andiamo, volevamo solo salutarla…»

Dunque ci allontaniamo da lui e io faccio per l’ultima volta a Maria:

«Allora, lo hai riconosciuto o no ‘sto Pino Stramboni?»

«Penso di sì», dice lei. «Però non sono sicura del nome…»

«È Pino Stramboni! Sono ore che te lo sto dicendo… Certo che quello è proprio strano… Hai visto quanto è strano? Ci credo che si chiama così…»

«Vuoi dire che è un nome d’arte?»

«E chi lo sa. Adesso che ci penso, se uno non volesse dar adito a illazioni e avesse un nome così, potrebbe sempre cambiarselo, no? Che poi si sa come è il mondo dello spettacolo… Ma tu pensa, oggi abbiamo incontrato davvero Pino Stambergoni! E chi se lo poteva aspettare che frequentasse questo ristorantino come noi comuni mortali, Pino Stambecconi… Sdrucioloni… Disbosconi… Stralliteroni… Certo che quello è proprio strambo…»

pinostramboni

La ragazza con la pistola (Parte I)

1. Terapeutico colloquio dallo psichiatra

N. arrivò cinque minuti prima dell’orario dell’appuntamento. Sulla panca si era già formata una discreta fila con le solite persone che aveva imparato a conoscere. C’erano la madre e il figlio incestuosi (entrambi ritardati, che non si capiva mai chi dei due stesse peggio) con le loro orribili facce da gente che soleva accoppiarsi tra loro; c’era lo schizzato bipolare con manie di persecuzione (in quel mentre piuttosto calmo, sotto l’effetto di pesanti psicofarmaci sedanti); c’era la biondina cleptomane con il viso carino e col corpo da balena… E adesso c’era anche lei, N., che dovette unirsi a loro sulla panca in quello spazio che sembrava preordinato.

Quel desolante spettacolo le diede un moto di nausea. Avrebbe voluto scappare. Ma dove? E poi N. era sempre così stanca… Chissà perché si sentiva intontita da un po’ di tempo a questa parte, pressappoco da quando aveva cominciato ad andare da questo psicologo, il quale perlomeno sembrava essersi molto affezionato alle sue sorti, al contrario degli altri che lo avevano preceduto.

N. aveva una gran voglia di dormire, così non poté evitare che le sue membra svigorite – proprio lei che, fino a qualche mese fa, era considerata da tutti iperattiva e iper… tutto! – si deponessero fiaccamente sulla vecchia panca in legno scuro che odorava di stantio.

Una volta seduta si sentì depressa ma in qualche modo rassicurata: perché da sempre un destino che si è vissuto già tante volte non riserva sorprese, e gli esseri umani sarebbero in grado di adattarsi a qualsiasi supplizio purché abbiano il tempo necessario di farlo. In quel limbo nebuloso in cui la sua vita era sprofondata, N. sembrava che disponesse di tutto il tempo del mondo; N. che era come un’Alice che aveva oltrepassato lo specchio, ormai impossibilitata a fare ritorno indietro…

N. intravide il proprio riflesso nella vecchia teca piena di libri ingialliti, di fronte a lei, messi lì solo per far figura. Aveva la frangetta spettinata: un tempo le avrebbe dato molto fastidio ma ora… l’avrebbe semplicemente lasciata così. Non si riconosceva più. Non esisteva più il volto di quella ragazza mora che lei era stata: da un po’ N. aveva cambiato espressione, e adesso era sconosciuta in primis ai propri occhi.

N. si chiese come mai il medico avesse l’abitudine di dare sempre appuntamento ai suoi pazienti alla stessa ora, cioè a tutti assegnava il medesimo orario. Così poteva pure accadere che le toccasse di aspettare ben due ore. Una volta ne aveva attese tre. E dopo lo stronzo le aveva chiesto di andare a cena assieme, visto che ormai avevano fatto tardi e lei, che in quel periodo aveva una volontà ridotta ai minimi termini, meno riottosa di un cavallo ormai desolato dal basto e dal bastone, lei non aveva potuto che accettare, anche se avrebbe fatto carte false pur di sgombrare per sempre la sua vita da quell’ingombrante e untuosa figura.

Il rapporto col terapeuta era assai ambivalente. Da un lato non lo sopportava affatto e anzi si sarebbe potuto dire che lo odiasse a profusione con tutta se stessa. Dall’altro però aveva bisogno di quell’ometto tanto ridicolo quanto presuntuoso, tanto eminente quanto insignificante, di quell’ometto che innanzitutto le forniva quelle medicine senza le quali ormai non sapeva più vivere. Quell’ometto che, facendola parlare, la stava traghettando verso il lunghissimo e periglioso e tortuosissimo tragitto dell’uscita dalla malattia. Infatti egli le diceva sempre che facevano dei progressi, anche se lenti, che dunque si potevano nutrire buone speranze per una sua prossima, totale guarigione, in un futuro imprecisato il quale non era mai stato quantificato a dovere (su questo argomento il medico era sempre stato molto vago e reticente); futuro che quindi avrebbe pure potuto essere di anni, forse decenni. Ma N. era troppo debole per opporsi a tutto quello che le veniva sciorinato e se una parte del suo cervello (quella che era rimasta tuttavia desta, che lei chiamava la parte cattiva poiché la più somigliante a come era lei prima) criticava aspramente quelle sedute alle quali era costretta a partecipare, tutto il resto di lei si poteva dire che si fosse ormai rassegnata al suo ineluttabile destino.

Quel giorno N. fu fortunata. Il medico la fece entrare per prima. Aprendo la sua porticina con l’imponenza di chi si credeva un nume, eseguì un accurato esame dei pazienti sulla panca (i quali tutti rabbrividirono sia di gioia che di terrore), si pulì gli occhiali e poi diede il via libera a N. «Nadine, vieni tu…», disse stentoreo seppur non dotato di questo gran tono di voce.

E N., da brava, trovò delle intrepide energie residue (quando le sembrava che non ne avesse più) per defalcarsi da quella scranna, alzarsi in piedi, rivelandosi ancora una volta come la ragazza alta che era, e avvenente, che sarebbe stata fino a qualche tempo fa, e si buttò dentro senza fiatare essendogli anche molto riconoscente del beneficio che le veniva accordato.

Ebbe uno dei suoi flash. Qualche volta le capitava. Era come se, dopo essersi addormentata a occhi aperti, al risveglio, poi ricordasse e comprendesse quel che aveva registrato nel precedente stato di trance. Allora si rammentò che prima della scena in cui il medico le aveva chiesto di essere la prima, in realtà aveva assistito all’uscita da quella stanza, la stanza del medico, di un altro tipo mai visto prima, un tipo alto che camminava lento eppure deciso e senza tentennamenti, un tipo che a sua opinione, nonostante tutto, si era subito detta che non assumesse psicofarmaci. E, quando lo vide, N., o meglio la sua parte cattiva, meditò rivolgendosi col pensiero a lui dicendogli “tu che puoi, scappa!… vattene! non ti far tirar dentro anche tu in questo buco nero dal quale non avrai più la forza di fuggire perché ti succhierà tutta la tua luce! tu che ancora non sei un vero paziente, non tornare più qui per nessun motivo al mondo, da questo stregone che ti ruba l’anima! riprenditi la tua vita laddove l’hai lasciata e piscia su chi ti vuole affossare nella merda… tu, almeno tu, non fare la mia povera fine; non fare la nostra fine. se diventi uno di noi sarai solo un subumano con lo sguardo spento, una forma di vita inutile a sé e a chiunque, se non a chi la sfrutta…”

[Uscendo osservai i pazienti abituali del medico. Si vedeva che stavano male. Si vedeva già solo dalle loro facce. C’erano un paio di ritardati (sicuramente madre e figlio) che si assomigliavano moltissimo, un’abnorme grassona con un viso carino, e sopratutto una ragazza, con un’espressione assai sofferente, con la frangetta, che giudicai bellissima. E solo per lei allora avrei voluto avere la scusa di tornare lì da quello psicologo ogni settimana. Ma non potevo farmi tirare in una trappola così letale solo per conoscere quella ragazza. Così, allontanandomi da quel luogo malefico, mi giurai che non vi sarei più tornato. Anche se una parte di me avrebbe voluto farlo per salvare la ragazza con la frangetta dal suo ineluttabile destino…]

Il medico notò uno sguardo particolarmente languido nel volto di N. e allora gliene chiese conto. «A cosa stai pensando, Nadine?», domandò con reale curiosità, con l’interesse possessivo del marito geloso che si angustia poiché non potrà mai conoscere al cento per cento cosa pensa la moglie sensuale, che sa bramata da tanti, la quale forse prima o poi capitolerà alle lusinghe di qualcuno.

Questo suo interesse morboso nei confronti di N. era probabilmente amplificato dal fatto che egli la sapeva una bugiarda incallita, una di quelle dalle cui parole non era mai possibile stabilire se stesse dicendo la verità o meno: perché N., per qualche motivo, aveva talmente trasfigurato il suo mondo interiore (probabilmente, pensava lui, a causa di innumerevoli abusi subiti forse fin da bambina) da renderlo un labirinto ingarbugliato nel quale un episodio reale poteva avere lo stesso peso di una sua proiezione nevrotica. Era da mesi che ci si era accanito in quel pantano impraticabile cercando di cavarne un ragno dal buco; ciononostante finora, senza che se ne rendesse conto, era lui stesso che stava finendo dentro quel buco e non il contrario…

«Allora?», ribadì la sua domanda il medico, che pretendeva una risposta. N. ritornò in sé, lucida per come lo era al solito.

«Uno dei miei flash…»

«Stavolta che cosa hai visto?», chiese rassicurato, perché i flash riguardavano fatti realmente accaduti, mentre erano le visioni (che davvero non riusciva a interpretare) che gli davano dei grossi problemi.

«Niente… Il tipo prima di me. Pensavo di essere la prima ma… C’è stato un altro prima di me oggi, vero?», chiese con una punta di patema d’animo perché anche i suoi flash richiedevano che venissero confermati, altrimenti avrebbero potuto essere solo delle sue fantasie.

«Sì. In effetti oggi sei la prima dei pazienti. Ma non la prima in assoluto…», sorrise dietro gli occhiali con l’adagio di chi si bea di sapere cose che gli altri non sanno.

«Chi era? Uno nuovo?», chiese timidamente ma manifestando un palese desiderio di comprensione. Al che il medico si ingelosì e in un attimo immaginò che, se davvero quel tipo fosse diventato un suo paziente, N. ne sarebbe potuta essere attratta poiché, adesso che ci pensava, quei due sarebbero potuti stare bene insieme, e forse si sarebbero innamorati, e forse insieme avrebbero trovato entrambi la forza necessaria per lasciarlo, a lui che invece li aveva aiutati con tanto buon cuore. Ah, ma quella cosa non l’avrebbe mai fatta succedere, perché se davvero quel tipo fosse diventato un suo nuovo paziente, si sarebbe adoperato per fornirgli sempre un orario di appuntamento in un giorno diverso da quello assegnato a N. E dunque il problema non si sarebbe mai posto.

Rinfrancato dall’esattezza di quel ragionamento disse:

«Non ti curar di lui, forse neppure lo vedrai più. Bene, Nadine cara. Di cosa vogliamo parlare oggi? Non certo di quel tipo…»

«No, certo…», disse lei che afferrò che se avesse continuato a veleggiare circa quell’argomento gli avrebbe fornito un’impressione non positiva.

Il medico sprofondò nella sua poltrona imbottita, accese la consueta musica di sottofondo new age e si rilassò facendo un bel respiro. Solo allora N. si accorse degli ordinari odori da candele aromatiche da due soldi di cui era impregnata quella stanza. Quegli odori in un primo momento potevano sembrare gradevoli, ma alla lunga lasciavano intontiti rivelandosi irritanti e confondenti.

«Vorrei riprendere da dove abbiamo lasciato la volta scorsa, Nadine, se tu sei d’accordo. Infatti ancora non sono riuscito a comprendere se tu… se le cose che mi hai detto siano vere oppure siano eventualmente (e in che misura) infarcite di quelle numerose false esperienze che assiepano il tuo inconscio. Se, invece di psicanalizzare la realtà, ci rivolgiamo al guazzabuglio di tutti quei pensieri atavici che albergano la psiche di ogni individuo… tu capisci che finiremo per non approdare mai a niente e, non solo queste sedute sarebbero totalmente inefficaci ma sarebbe come se finora non avessimo fatto altro che girare a vuoto, perso solo del tempo. Capisci, Nadine?»

«Ma certo…», disse lei meccanicamente come un’alunna impreparata che fingeva di aver studiato.

Il medico pensò che aveva fatto un discorso troppo complicato per la debole psiche di N. e si esortò a parlare con frasi e discorsi più semplici, così che lei avesse potuto seguirlo meglio.

«Beh, la volta scorsa era emersa questa cosa curiosa che sinceramente proprio non mi aspettavo da una tipa perbene come te (però devo ammettere che ogni tanto mi prendi del tutto in castagna). Mi dicevi che ami le pistole… Perché non me ne parli?»

N. sbatté le palpebre una volta e poi fece sì col capo. Dunque cominciò a sorridere con uno sguardo trasognato. Lo psicologo sapeva che da lì avrebbe cominciato a raccontare qualcosa che sembrava vero ma che non era affatto detto lo fosse: qualcosa che poteva sembrare assai verosimile fino a un certo punto, ma che a un tratto avrebbe rasentato l’inverosimiglianza o la follia, per quanto N. l’avrebbe spinto al limite.

«Mi ricordo che avevo una pistola…»

«Quando?»

«Avevo una pistola qualche anno fa, da adolescente. Era una pistola bellissima. Nera, lucente. Fredda. Ci mettevo le mie belle mani sopra e rimanevo in visibilio per ore.»

«…Dove l’avevi presa?»

«Era di mio padre.»

«Ma… non sei cresciuta in un orfanotrofio?», il medico intuì che quel ricordo potesse esser falso.

«Sì. Prima. Ma poi venni adottata, seppur per un periodo molto breve. La presi dal cassetto del mio padrigno. Sì. Insomma avevo questa pistola in mano e mi sentivo felice. Ed eccitata…»

«Perché eccitata?»

«Perché sapevo che con quella si poteva dispensare morte a chiunque avessi voluto. Perché con quella avrei fatto… avrei potuto fare un buco nel petto di chi odiavo…»

«Chi odiavi in quel periodo? C’era qualcuno in particolare?»

«Non ricordo. Forse nessuno… Perché con quella avrei potuto far sgorgare dei rossi fiotti di sangue… Proprio come una fontana. La cosa mi sembrava bella. E poetica. Trovavo che fosse bello. Cioè, potevo vedere il lato bello della cosa… Lei riesce a vederlo, dottore, il lato bello della cosa?», gli si rivolse realmente felice di quella fantasia di cui si era infarcita. E il medico vacillò. Erano proprio quegli scatti di follia distruttiva che gliela rendevano tanto affascinante, incomprensibile, che la trasfiguravano forse in quella ragazza inaccessibile alla quale tutti gli uomini sognano di inchinarsi.

In questi casi non sapeva mai cosa risponderle. Pure le regole della professione medica non è che gli venissero molto in soccorso perché un conto era saperle e un altro conto era metterle in pratica. Per cui, in questi casi, si limitava a fornire risposte evasive. Perché era lei che doveva scoprirsi, e non certo lui. Inoltre non sarebbe stato opportuno farle sapere quanto lui ci perdesse la testa per quelle sue mattate. D’altro canto a N. non interessava realmente cosa lui le avrebbe risposto, perché sarebbe andata avanti ugualmente per la sua strada, qualsiasi cosa lui le avesse detto.

«È un punto di vista…», borbottò lui.

«Insomma un giorno ero lì che ci giochicchiavo, non so se mi capisce. Era il mio passatempo preferito. Ogni volta che potevo l’andavo a prendere dal cassetto senza che nessuno lo sapesse. Mi piaceva assai che nessuno lo sapesse, sapesse che io facevo quella cosa proibita…»

«Quindi tu… avevi coscienza che quella fosse una cosa da non fare…»

«…Avevo imparato ad aprirla e smontarla. Toglievo il tamburo ed esaminavo il contenuto. Era sempre vuoto, nessuna pallottola (e un po’ mi dispiaceva). Poi armavo il cane. E poi lo disarmavo. Poi scoprii pure che c’era una specie di sicura. Così mi venne l’abitudine di riporla sempre con la sicura inserita (perché non si sa mai) come pure di disinnescarla appena la riprendevo in mano. Poi qualche volta non resistevo e allora la impugnavo con due mani (era più pensante di quanto avessi pensato), quindi miravo e…»

N. simulò come l’avesse avuta in quel momento con lei. Prese la mira e indugiò a premere il grilletto.

«…E?», disse il medico allarmato.

«E… BANG!», strepitò N. mentre, di scatto, si rivolse verso il volto del medico fingendo di sparargli in faccia a tradimento. Questi cercò di sforzarsi di mantenersi calmo (non gli piaceva affatto che lei manifestasse quell’emozione di ammutinamento nei suoi confronti ma dovette fare buon viso a cattivo gioco).

«Hai mai… davvero sparato a qualcuno, Nadine?»

N. sorrise laida, tanto da fargli spavento.

«Eh! Si capisce che prima o poi sarebbe successo, no?! Non era scontato che sarebbe finita così? Finisce sempre così: se uno ha una pistola, poi la usa…»

Allo psicologo si accapponò la pelle.

«Ma…», provò inutilmente a obiettare.

«Mi diedi ben presto da fare per rimediare dei proiettili. D’altronde era la sola cosa che mi mancava per poterla utilizzare sul serio. Ne venni in possesso tramite un mio amico che in quel periodo sbavava per me. Quel poveraccio avrebbe fatto qualsiasi cosa per compiacermi. Era patetico come potessi farglielo menare anche solo con dei piccoli sfioramenti, o con degli sguardi falsamente possibilisti…» (il medico si intorbidò anche lui) «Per mia fortuna, conosceva le pistole e quindi tramite il modello della pistola… una magnifica Smith-Wesson!… ottenemmo il calibro adatto! Certo dovetti dargli qualcosa in cambio, però mi fu sufficiente fargliene solo uno… E anzi quasi tutto il lavoretto glielo feci con la mano, ora che ci penso, perché non volevo ingurgitare quel suo sperma acido che già immaginavo mi sarebbe rimasto assai indigesto e attaccato alla gola… Così ottenni dodici-proiettili-dodici nuovi di zecca!»

Il medico cominciò a sudare copiosamente dalla testa, allora si voltò per aprire la finestra alle sue spalle. Gli ci voleva aria fresca per riprendersi da quelle oscenità che uscivano dalla bocca di N. come fossero acqua da una fontana. Si cavò il fazzoletto da una tasca e si deterse il sudore.

«E poi… che cosa ci facesti con quella pistola carica?»

«Ricordo l’emozione che provai quando la caricai, lentamente, per godermi al meglio il momento, con quei proiettili fulgidi! Ero al settimo cielo! Poi, una volta caricata, dopo essermi messa davanti a uno specchio, non resistetti e la rivolsi contro me… La pistola era come se mi richiamasse e mi dicesse “Nadine, premimi! Sbloccami! Fammi esplodere di gioia! Sono nata per questo, Nadine… E questo faro sempre: sferrare proiettili”… Osservavo la mia faccia per vedere se avevo paura. Non l’avevo per niente…»

Il medico pensò: tanto non mi freghi stavolta, Nadine. È chiaro che per quanto tu mi stia instillando l’idea di esserti sparata, ciò è impossibile, dato che altrimenti non saresti qui con me in questo momento a riportarmelo. Mio Dio come sei squilibrata, Nadine. Una pazza da legare…

Ma N. gli disse poi quella frase che fu come un pugno nello stomaco.

«So cosa sta pensando, dottore. Questa qui mi vuol far credere che si sia sparata sul serio ma è ovvio che non potrebbe mai averlo fatto perché altrimenti non sarebbe mai sopravvissuta, non è vero? Ah! Ma se le dicessi che poi quel colpo me lo sono dato e che solo per un caso non sono morta e non mi è rimasto un segno evidente?», sorrise, e così facendo sollevò una folta parte dei suoi capelli dalla testa da cui emerse (ma forse era solo una suggestione) una zona che avrebbe potuto rappresentare una specie di cicatrice da foro d’entrata… Il medico degludì imprecando mentalmente tra sé perché ancora una volta non era stato in grado di setacciare la verità dalla follia in lei… «Oppure… se le dicessi che poi non è stato alla testa che mi sono sparata ma in un altro posto qualsiasi del mio corpo?», accompagnò quel discorso con le mani e fu come le passasse dalla punta dei piedi alla punta dei capelli. Il medico si impressionò talmente tanto che la immaginò spararsi e farsi saltare un dito del piede; spararsi a un polpaccio; spararsi in una coscia; spararsi in pancia; spararsi in un seno facendosi schizzare via un capezzolo; spararsi in un polmone; spararsi nel cuore con il proiettile che le rimaneva incastrato tra le costole e non poteva più essere estratto (e da allora lei conviveva con quel pezzo di metallo in corpo); spararsi a un orecchio… e poi leccare la canna della pistola ancora fumante per infilarsela nella vagina…

«Insomma, caro dottore», continuò lei, che tramite quel discorso si era accesa diventando pienamente padrona della conversazione, «potrei dirle che alla fine quel duro e freddo e bruciante acciaio bollente me lo sia ficcato in qualche parte di me… Potrei dirglielo e avrebbe pure potuto accadere. Ma non successe. Per qualche motivo, nonostante la forte attrazione che provavo per quella pistola, non mi sparai. No. Però qualcuno doveva finire per rimetterci ugualmente, perché era nella natura delle cose che così dovesse andare. Le racconto… Un giorno presi la pistola carica e me la infilai nel giubbotto. Era molto largo quel giubbotto e la pistola non era così grande, quindi non ebbi alcun problema a portarmela appresso tranquillamente e nessuno poteva intuire che ce l’avessi. Ora mi serviva un bersaglio. Cominciai a camminare per la città. A quell’ora per i vicoli del quartiere non c’era molta gente. Sarebbe stato perfetto per esplodere un colpo a qualcuno e poi dileguarsi. Mi portai lentamente verso un asilo nido. I bimbi, quattro o cinque, in quel momento erano soli in cortile a giocare con terra e sabbia. Sembravano bimbi di nessuno. Dell’insegnante che avrebbe dovuto sorvegliarli non vi era traccia. Quei bimbi mi furono subito odiosi. In particolare c’era una bambina moretta molto rumorosa che diceva cose insensate e comandava a bacchetta gli altri (chissà se stava scimmiottando sua madre o la stessa pedagoga che avrebbe dovuto guardarla). Insomma, provai un fortissimo impulso di spappolarle il cervellino…»

Lo sguardo di N. si fece vitreo mentre lo psicologo ebbe un moto di profonda ripulsa. Davvero N. sarebbe stata capace di quel gesto aberrante, uno dei peggiori compibili da essere umano? Il fatto che si fosse soffermata su quella bambina (e con quelle caratteristiche) significava qualcosa circa le sue motivazioni più recondite, oppure era solo un caso che ella fosse stata scelta invece di un altro bimbo? Ma il dottore non ebbe il tempo di domandarselo perché proprio in quel momento N., come avesse esaurito quella carica empia che l’aveva fin lì contraddistinta, cambiò intonazione e atteggiamento e ridivenne la N. che faticava a parlare, con l’espressione afflitta in volto.

«Ma poi… Poi non lo feci. Anche se avrei potuto. Alla fine andai in una discarica abbandonata e sparai un colpo a dei barattoli che sembravano essere lì proprio per quello scopo. Il boato, ma sopratutto il rinculo, mi diedero così fastidio che fui tentata di lasciarla lì nella discarica, la rivoltella. Però stabilii di portarmela appresso lo stesso (sperimentando una sensazione di disgusto per tutto il tragitto di ritorno). La riposi nel cassetto e per un pezzo non la toccai più…»

N. terminò con molta fatica il racconto e poi non riuscì a dire più di qualche parola. Il medico cercò invano di cogliere la natura del suo resoconto, le sue spiegazioni e i numerosi non-detti e aspetti nascosti del racconto stesso. Inoltre non gli sfuggì che prima N. aveva affermato che qualcuno ci sarebbe finito di mezzo, mentre alla fine sembrava che non avesse sparato contro alcun essere vivente. E ciò era una palese contraddizione. Ma forse il racconto era ancora incompleto, perché lei si era stancata troppo in fretta e non aveva più voglia di riportarlo.

Sul concludere della seduta il medico tentò di appurare una volta per tutte la veridicità di quelle che sembravano solo le balle di una ragazza malata di mente provvista di una esagerata fantasia che galoppava senza limiti. Allora la volle mettere alla prova e dapprima le chiese se possedeva ancora la pistola. E quando N. sorprendentemente gli disse di sì, la provocò chiedendole se avesse potuto portagliela per fargliela vedere nella seduta successiva. E allora N., allorché uscendo dalla stanza si trovò sull’uscio, gli disse quella frase inspiegabile che lo spiazzò completamente…

«Certo. Anzi, avevo proprio intenzione di portargliela. Ho deciso ora che questa sarà la mia ultima seduta con lei. Tuttavia, la prossima volta che ci vedremo, le porterò la pistola, e dopo qualcuno morirà.»

Nadine

La commessa: Spostata al pane, arrossisce

Oggi l’hanno messa a servire in panetteria invece che alla cassa; si vede che serve più lì. Lei non ne è felice. Si sente svilita. Si capisce da come si comporta. È nervosa. Poi neppure conosce tanto il mestiere, non è padrona assoluta del ruolo. Non le va di doversi inchinare ai bisogni della gente che le dice dammi questo e dammi quest’altro e le fa domande impertinenti. Alla cassa con era così…

Poi c’è quella subdola della sua amica, l’Infida Mora, che ha mangiato la foglia e ormai è convinta di aver compreso che lei mi piaccia. Allora gode a metterci a confronto. Infatti si allontana subito con una scusa e le dice di pensarci lei a me. E lei si sposta nel banco appresso, dove sono io, arrossisce e umilmente mi chiede che cosa voglio. Io le rispondo e lei, con gli occhi bassi, senza trucco, mi mette nella busta panini di forme diverse e, per esser sicura di non sbagliare, mi chiede se va bene anche un panino mini oppure se è troppo piccolo e deve darmene due per farne uno…

L’Infida Mora torna prima che me ne sia andato. Non vuol certo perdersi la maniera in cui ci saluteremo. Le sorprendo. Faccio ad entrambe gli auguri di buone feste. E loro colgono che sono tra i pochi che glieli fa. D’altronde è questa la mia pasta: gentile con i semisconosciuti, assente con i parenti.

Mi chiedo che cosa si siano confidate quelle due. L’Infida Mora si diverte a metterci di fronte solo perché quella volta ha colto il mio imbarazzo, oppure sa che anche la bionda prova qualcosa per me? È per questo che è arrossita, la bella bionda? Oppure era indignata poiché obbligata a esser gentile quando non avrebbe voluto, come ogni tanto le capita?

commbiond

La tecnica per farsi i muscoli

Vlad si dimostrò molto utile non solo per indicare a Nemesis come far meno fatica durante il lavoro ma anche per insegnargli come accrescere la sua muscolatura organica. Così, un giorno in cui faceva molto caldo e si vedeva che Nemesis arrancasse particolarmente…

Nemesis adocchiò di sbieco il suo collega Vlad. Avevano iniziato a pulire da circa un’ora ma tra loro la differenza era evidente. Vlad, pur grondando come una fontana, appariva ancora fresco e vigoroso come una rosa, mentre Nemesis sembrava un bocciolo smorto per carenza di linfa nutriva.

Nemesis si dissetò per l’ennesima volta alla boccetta dell’acqua che si era portato da casa. Faceva solo piccoli sorsi per mandare via la sete e sudare di meno. Però, presto, quel giochetto non sarebbe più servito a nulla.

Vlad contraccambiava le sue occhiate quasi a dirgli: sì, okay, fa caldo, però piantala di fare questa lagna esagerata che stai inscenando da tempo; se ce la faccio io, allora devi farcela anche tu, non ti compiangere troppo… (tutto con poche espressioni facciali e posture del corpo).

Infine però Vlad non ce la fece più a rimirare il suo amico sconsolato e perennemente gemebondo e ruppe quel silenzio.

«Beh?! La finisci di trascinarti come un malato terminale?»

«Che colpa ne ho io se soffro il caldo?! D’estate la pressione mi va giù in picchiata… Vorrei vederti al mio posto…»

Vlad si pentì di essere stato così scortese.

«Ti posso offrire un caffè?»

«No. Il caffè mi dà fastidio. E mi fa sudare di più…»

Vlad, come già prima di lui aveva fatto Nemesis, si guardò attorno in cerca di qualche finestra da aprire, o qualche condizionatore da accendere, o qualsiasi altra forma di refrigerio alla quale accedere. Ma la situazione era piuttosto deprimente. Infatti i due si trovavano in un locale totalmente sprovvisto di ricambi decenti, e l’aria fresca appariva un miraggio. Il luogo era innegabilmente fuorilegge. Eppure la gente negli orari di produzione ci lavorava facendo finta di nulla o stringendo i denti.

«Non c’è nemmeno una presa d’aria per indurre della corrente…»

«Lo so! L’ho cercata disperatamente anche io. Ma non ne ho trovata nessuna…»

A Vlad venne in mente solamente di offrirsi di terminare la parte di lavoro di Nemesis, come un bravo e attento amico avrebbe fatto.

«Siediti a riposare. Ci penso io a finire anche la tua zona.»

Ma, a giudicare dall’immutabile estrinsecazione con cui ascoltò le sue parole, Nemesis non era propenso ad accettare la gentile proposta dell’amico. Infatti le energie di Nemesis non erano ancora ridotte al lumicino e, tenace e adattabile quale era (o si riteneva essere), non si sarebbe dato per vinto. Più che altro, voleva solo prendersi una pausa. Poi sarebbe stato capace di portare perfettamente a termine il suo lavoro, con, certo, però una dissipazione d’energia necessariamente più oculata che in precedenza. E allora il suo maniacale controllo del corpo si sarebbe accresciuto così tanto che quasi sarebbe andato in trance… Perché Nemesis aveva sempre avuto questa facoltà di disporre in assoluto di sé…

Nemesis si voltò con nuova vitalità verso Vlad. Ma da dove attingeva quell’energia?, si chiese questi. Non era che avesse già recuperato le forze: piuttosto gli era venuta un’idea in mente.

«Non conosci qualche altro trucchetto per fare meno fatica, Vlad?»

Vlad lo guardò avveduto con quel suo sorrisino obliquo.

«Sì: farlo fare a qualcun altro. O darsi malato. A parte gli scherzi, ti ho già insegnato tutto in tal senso. Abbiamo raschiato il fondo del barile. Per chi mi hai preso? Per un santone yoga che dorme sui chiodi e che incanta un cobra mentre con i piedi passa sui carboni ardenti?»

«Peccato. Speravo che, visto che sei stato tu a insegnarmi la sacra tecnica della gru stanca che passa lo straccio per terra, sapessi anche insegnarmi la divina strategia del non fare un cazzo (poiché fa troppo caldo per farlo)…»

Vlad sorrise pensando a come Nemesis aveva ribattezzato i suoi insegnamenti. Effettivamente, quei movimenti trattenuti da trampoliere che sembrava fare quando puliva, potevano realmente ricordare quell’animale e il suo incedere.

«Sai, credo che la battezzerò davvero così…»

«Perché? Non si chiamava proprio così?», ricambiò il sorriso Nemesis.

Ma la saggia mente di Vlad stava già sondando il terreno in un’altra direzione.

«Mi hai fatto riflettere su una cosa. E se il tuo problema fosse esattamente il contrario?»

«Cioè? Che non ho abbastanza freddo?!»

«No! Che sei troppo deboluccio! Io sento caldo ma ce la faccio ancora ad andare avanti, non sono mezzo morto come te…»

«Quindi sarebbe colpa mia se mamma mi ha fatto così debole?»

«Come sei permaloso! No. Però forse è colpa tua se non fai niente per controbilanciare questa tendenza…»

«E che caspita dovrei fare?!»

«Credi che io sia nato così virile come mi trovi?»

«Ma chi? Te?»

Nemesis se lo squadrò come a palesargli: ma se sei un fregnetto insignificante come tanti, che se uno ci sbatte casualmente addosso neppure si scusa… Ciononostante Vlad aveva un suo perché.

«Fai nulla per tenerti in forma, Nemesis?»

«A dir la verità… Assolutamente nulla! Io e lo sport non andiamo d’accordo. È troppo faticoso… E, che senso ha espellere ettolitri di salsedine che un giorno potrebbero sempre tornarmi utili?»

«Chissà perché lo avevo intuito…»

Adesso era Vlad a prendersi la rivincita su Nemesis e a pensare che il suo amico fosse un po’ troppo magro per l’età che aveva. Infatti Nemesis nel corpo sembrava ancora un ragazzino, pensava Vlad, piuttosto che un giovane uomo.

Vlad si iniziò a togliere la divisa blu. Nemesis non fece in tempo a pensare “adesso hai caldo anche tu, eh?” che subito capì che non era per quello che il suo amico si denudava. In pochi secondi Vlad si ritrovò a torso scoperto.

«Credi che questa fisicità animale mi sarebbe mai venuta se non avessi fatto dello sport?»

Vlad rivelò degli impensabili muscoli scultorei nel petto e nella braccia. E si vedeva che non erano propriamente per lo sport che dichiarava di aver fatto che gli erano venuti, bensì doveva aver passato giorni interi nel chiuso di una palestra, a pompare, per ottenerli.

Nemesis rimase esterrefatto – segretamente pensò che, se fosse stato una donna, se lo sarebbe voluto fare –, forse anche un po’ intaccato e invidioso, perché lui quella roba lì, per un motivo o per l’altro, non avrebbe mai avuto la costanza di farsela venire.

«Fammi vedere i tuoi», gli ordinò Vlad.

Ma Nemesis si oppose.

«No. Non è il caso.»

«Perché no?»

«Mi vergogno. Non sono abituato a farmi vedere a petto nudo, sia dai maschi che dalle femmine.»

«Non vai al mare?»

«No.»

Vlad si chiese se stesse scherzando, come spesso Nemesis faceva. Ma capì presto che non era così.

«Togliti la divisa! Io l’ho fatto. Adesso tocca a te!», insistette perentoriamente Vlad. La sua voce sembrava quella di un sergente di ferro che si riferiva a una spina. Nemesis, a dire il vero, si prese un po’ di paura.

«Non ne ho voglia!», si impuntò, non disponibile a negoziare.

«Dai! Che c’è? Hai troppo freddo?! Non hai scuse sufficienti per non farlo. Io l’ho fatto e adesso lo fai anche tu. E se non te la togli con le tue mani, giuro che vengo lì e te la tolgo io la giacchetta, a costo di strappartela!»

Erano parole forti, forse troppo, pensò Nemesis, il quale comprese che Vlad non si sarebbe tirato indietro. Nemesis si chiese se si fosse accorto di quel lampo passatogli negli occhi quando il suo amico si era spogliato. Forse lo aveva frainteso e adesso… voleva farselo sul serio?!? Vlad era strano, ma fino a quel punto no!, pensò Nemesis. Ma a parte questa questione – che Nemesis archiviò subito per la manifesta eterosessualità di Vlad… Ma mai essere certi di queste cose al cento per cento!, pensava –, ora si parava davanti a loro un grande ostacolo da superare per la loro amicizia. Sì, perché Vlad sarebbe andato fino in fondo a quella storia. Ma anche Nemesis, per principio, sarebbe andato avanti a oltranza su quella posizione per far rispettare il proprio sacrosanto diritto alla privacy, come pure di fare quello che si vuole.

Mentre Vlad attendeva taciturno che infine il suo amico arretrasse, in un attimo Nemesis prese la sua decisione. Stavolta avrebbe conciliato: altrimenti sapeva che per un nonnulla il loro rapporto d’amicizia avrebbe potuto andare in frantumi.

«Non lo faccio perché tu lo vuoi, sia chiaro. Ma solo perché ho deciso di donarti la consacrata immagine della mia nivea epidermide risplendente di purezza…»

«…Mai sfiorata da una donna!», lo provocò Vlad sancendo la fine del loro dissidio.

Nemesis si alzò lentamente in piedi e poi, indolentemente, fece i gesti che lo portarono a togliersi la giubba e la t-shirt, come fosse un modello assai aduso a doversi vestire e rivestire infinite volte in una stessa giornata per provarci qualche gusto.

A spettacolo terminato, Vlad lo guardò con malcelata disistima. Le ossa di Nemesis erano più sottili della media per essere un uomo e ignudo appariva anche più asciutto di quanto si potesse immaginare, con le costole che gli sporgevano di fuori come quelle d’un Cristo. Malgrado ciò Nemesis ripagò il suo sguardo con alterigia, come si fosse sentito bello come un principe azzurro. E in realtà lo era bello, perché nel suo corpo c’era qualcosa di estremamente delicato, femminile, che lo rendeva unico e per sempre giovane. In qualche modo allora cambiò anche la considerazione che Vlad ebbe per lui. Vlad comprese che, qualora Nemesis avesse trascorso sui bilancieri le medesime ore che ci aveva buttato lui, sicuramente avrebbe avuto un fisico molto più ultimato e affascinante da vedersi del suo.

«Sei quasi rachitico. Ma basterebbe poco a farti diventare un dio greco

«Grazie, grazie…», si vantò Nemesis facendo il finto modesto.

«Sì, ma adesso sei comunque gracile», tentò di riportarlo coi piedi per terra, senza tuttavia sortire sufficiente effetto.

Nemesis si rivestì subito.

«Sei contento, adesso che hai potuto contemplare da vicino il coronamento stentoreo del mio scheletro realizzato direttamente dalla mano (destra) di Dio? Guarda che noi non siamo mica donne, che si scambiano i vestiti e sono abituate a vedersi tra di loro nude. E vanno alla toilette assieme…», gli disse Nemesis.

«Scheletro è la parola più qualificata che potessi adoperare in riferimento a te. A ogni modo, sai quanto farebbe più piacere a una donna se il tuo fisico fosse più modellato di quello che è attualmente?»

«Mi dovrei fare i muscoli per meglio imbrigliare una pulzella con la magnificenza delle mie grazie?!»

«Anche solo quello sarebbe un buon motivo. Ma se non vuoi farlo per quello, fallo almeno per non cadere come una pera cotta quando il tuo fisico è appena appena un cincinino in difficoltà.»

Era quello il succo del discorso di Vlad: Nemesis era troppo magro; eppure se avesse rafforzato il suo fisico si sarebbe sentito meglio e avrebbe potuto fronteggiare molto più soddisfacentemente anche un qualsiasi stress fisico avesse incontrato sul suo percorso. Nemesis capì l’antifona.

«Non voglio andare in palestra come te! Io in palestra non ci vado! Mi fa schifo la gente che va in palestra! Io non sono così!», protestò.

Avrebbe potuto procedere per ore soffermandosi su quel pistolotto che sosteneva la sua sostanziale unicità e controcultura, in opposizione all’imperante debordazione dei tempi che stavano sempre più corrompendo la gente. Vlad lo bloccò.

«Okay, Okay. Tu sei un incontaminato. Non mi interessa la tua religione, né i tuoi motivi di vita… Penso solo che per te sarebbe salutare irrobustire il tuo fisico. E credi forse che io vada in palestra per conservare questi gioielli?», contrasse per un attimo i pettorali come Nemesis aveva visto fare ai culturisti, e quello fu per lui esilarante, «…Nossignore! Solo all’inizio sono andato in palestra. Ma non ci vado più da cinque anni. Vuoi sapere come mi tengo in forma?»

Nemesis immaginò Vlad gli dicesse che si trombava a più non posso ogni ragazza che gli capitasse sotto il naso. Ma Vlad gli risparmiò quella battuta.

«Non hai notato che delle volte, invece di praticare la tecnica segreta e sacra della gru errabonda, sembra che faccia invece più fatica del normale mentre mi accingo a utilizzare lo spazzolone e lo straccio?»

Quel che diceva era vero: Nemesis delle volte lo aveva visto contrarsi (o comunque comportarsi in modo anomalo) mentre pareva trattenesse una flatulenza.

«Pensavo che soffrissi di calcoli renali. Per questo ho sempre fatto finta di non vedere e non te l’ho voluto far pesare…»

«Stupido mingherlino! Invece, in quei momenti, io ero intento a tendere ogni mia fibra muscolare per tenerla in forma!»

«Adesso capisco…»

Così quella volta Vlad insegnò a Nemesis anche come flettere i muscoli piuttosto che farli lavorare il meno possibile. E Nemesis accolse quella novità con gioia e riscontrò che, anche quella volta, il consiglio di Vlad funzionò concretamente. Cosicché, dopo già appena una settimana, Nemesis era divenuto più resistente a ogni tipo di sforzo fisico, e il volume dei suoi muscoli si accrebbe leggermente.

vlad