Ti dissi di coprire il tuo corpo perché le Sacre Scritture lo dicevano. Poi tu un giorno andasti a controllare e mi contestasti che non era vero. Immane bestemmia! Ti diedi cinquanta frustate; così ti convinsi a tenere il burka.
Ma continuavi a lamentarti. Così io continuavo a picchiarti. Fin quando presi l’abitudine di frustarti almeno una volta a settimana, perché la donna, come dicevano le Sacre Scritture, va battuta anche preventivamente per non farla deragliare dal giusto cammino. Stavolta tu non dicesti nulla in merito alle Sacre Scritture. Che strano. Eppure me lo sarei aspettato. Ma meglio così. Voleva dire che cominciavi a capire e ad essere maggiormente rispettosa di Dio, tu, sempre stata ribelle fin da ragazzina, che volevi fare quello che facevano gli uomini.
Un giorno faceva molto caldo. Era d’estate. Volevi toglierti il velo ma ti avevo già avvertita circa quello a cui saresti andata incontro se davvero l’avresti fatto. Decidesti di non farmi arrabbiare, almeno non in quel modo. Ma poi mi accorsi delle tue braccia glabre, quasi lucide. Mi accorsi dei tuoi piedi nudi che attiravano le mie fantasie. Mi accorsi delle tue ginocchia impudiche che volevano attirarmi verso le zone più in alto. Allora mi adirai con te e ti battei furente per quindici minuti senza sosta. E quando mi chiedevi perché lo facevo non riuscivo a risponderti. Lo feci quella sera, quando mi fui totalmente rigovernato. Allora, nella calma della nostra stanza nuziale, con te che giacevi fasciata sul letto in quell’atteggiamento esageratamente agonizzante, ti dissi che d’ora innanzi anche d’estate avresti dovuto coprirti come d’inverno. E quando tu, scioccamente, mi chiedesti perché, ti risposi che avevo finalmente capito la vera natura della donna. La donna è nata per tentare l’uomo. La donna è lo strumento preferito del Maligno. La donna sta sempre a insidiare il povero uomo che altro non desidera che seguire le Sacre Scritture. La donna è dunque implicitamente malvagia. Per questo, con le morbide forme del suo corpo, istiga di continuo gli uomini e quella lusinga va scacciata con tutta la fermezza del caso.
Tu non dicesti più nulla quella notte. Però ti sentii rantolare per ore. Evidentemente non dormivi. Dovevi star riflettendo sulla brillante verità delle mia alte parole, dettatemi direttamente dalla pia bocca di Dio.
Passarono due stagioni e invero sembrava tutto procedesse bene tra noi. Non mi davi più problemi. Anche se mi sembravi sempre inspiegabilmente taciturna e smorta e ogni cosa la facevi con grigiore. In compenso però io ero molto contento. Perché una donna scialba è una donna che non fa vergognare il proprio uomo. Tuttavia ancora una volta mi ingannavo sulla tua purezza. Perché una donna che non proferisce parola è una donna che sta meditando qualcosa di molto grosso e peccaminoso, qualcosa che poi, quando avverrà, la rimetterà a paro di tutto il male che avrebbe potuto compiere in quell’arco di tempo in cui non l’aveva fatto…
A un tratto stavi servendomi il thè. Lo facevi spesso d’inverno. E io bevevo per riscaldarmi. Notai le falangi delle tue mani. Erano proprio mani da donna, mi dissi. Indubbiamente mani da donna. Quelle di un uomo non avrebbero mai avuto una forma così affusolata e piacevole. Intrigante. Ebbi una visione spaventosa, sicuramente ispiratami da Iddio stesso. E nella visione tu usavi quelle mani, che sembravano sempre così pulite e profumate, per pratiche assolutamente indecenti, riprovevoli, ributtanti, proibite e sudicie. Le più empie e oscene che avessi mai visto. Così presi il bastone e te lo diedi sulle mani stando attento a spezzarti ogni osso delle dita…
Il dottore disse che sarebbero miracolosamente guarite e saresti tornata a utilizzarle quasi come prima, non perdendo sensibili funzionalità. Ringraziai Dio per il piacere che mi accordava dicendoti che d’ora innanzi anche le mani avresti dovuto tenermi nascoste alla vista, sia d’inverno che d’estate. Lo stesso valeva anche per i piedi, ovviamente.
Così cominciasti a essere fasciata da capo a piedi e solo i tuoi occhi ormai erano l’unica parte di te che potevo vedere. Per un po’ andò tutto bene. Fu meraviglioso e io non dovetti difendermi da nessuna blandizia proveniente da te. Ma poi un giorno infausto… Ah, quegli occhi terribili, i tuoi occhi scuri profondissimi, mi sussurrarono nella mente che tu eri pronta a fare con me le peggiori porcherie non si fossero mai viste sulla faccia della terra. Quella volta fu davvero terribile per me perché temetti davvero di cedere alle moine dei diavoli. Feci appena a tempo a prendere un forcone… Cercai di affondartelo negli occhi. Ma tu, non so come, forse avvertita da quegli stessi diavoli che sempre servivi fedelmente come la cagna puttana che eri, tu facesti in tempo a chiuderti in bagno. Mi implorasti allora di dirti cosa volevo che facessi affinché non ti forassi gli occhi col forcone. E io udii la voce di un angelo suggerirmi di dirti che d’ora in poi avresti dovuto indossare uno di quei burka corposi, con un velo talmente fitto sugli occhi da non lasciar intravedere alcuna forma di essi, che erano troppo ammalianti e tentatori.
Acconsentisti immediatamente. E quando uscisti dal bagno pochi minuti dopo, tremante, indossavi proprio quel modello di burka che ti avevo richiesto, quel modello che avevi acquistato circa un mese prima al bazar, anche se quando te ne avevo chiesto il motivo, dato che tu non avevi mai indossato un capo così coprente, mi avevi risposto che era per via di una specie di presentimento. Avevi immaginato che prima o poi ti sarebbe stato utile. E innegabilmente anche questo può spiegarsi come un altro intervento divino nella nostra umile vita di peccatori. Iddio mi seguiva passo passo, per buona sorte. Altrimenti che cosa ne sarebbe stato di me? Ho modo di pensare che mi sarei perso già da tempo. Ma per fortuna Iddio era buono e giusto e amava chi lo amava sinceramente, come me.
Trascorsero sei mesi di grande tranquillità in cui potei dedicarmi con tutta l’attenzione che si conveniva al guadagno. Una sera avevo invero concluso molti affari proficui che avrebbero innalzato il nostro tenore di vita. Allora ti chiesi cosa pensavi avrei dovuto fare di quel gruzzoletto in più che ero riuscito a introitare con tanto sudore. Sembrasti sorpresa che ti chiedessi la tua opinione. Mi dicesti che comunque non ne avrei mai tenuto conto. E quello era sicuramente vero. Però in quel momento mi interessava sapere cosa pensava una donna come te, se dovevo investirli o metterli da parte. E tu cominciasti un lungo discorso, molto acculturato, che dimostrava che, nel segreto della nostra casa, ti ritagliavi degli spazi per te e solo per te, per accrescere la tua cultura, mi avresti detto mentendomi, quando invece era solo per diventare sempre più furba, così un giorno mi avresti fatto le scarpe. Tutto questo lo pensai nella mia testa ma ancora ero indeciso su quale pena ti avrei assegnato, quella volta. Così ti lasciai parlare e tu non la smettevi più, non la smettevi più e davvero pensavi che la tua opinione mi interessasse…
Poi avvenne qualcosa che non mi sarei mai aspettato. A un certo punto la tua voce, forse perché non la sentivo da tempo così coinvolta eppure dolcissima (ed era dolcissima perché ti concedevo di parlarmi liberamente senza darti alcun freno), quella tua voce cominciò a risultarmi incredibilmente sensuale e tentatrice. Capii in quell’istante che così come eri in grado di giostrala con me per farmi perdere ogni freno inibitorio, allo stesso modo avresti potuto farlo per far perdere la testa a un qualsiasi ospite maschio avesse attraversato la soglia di casa nostra, o anche un semplice e vile mercante al mercato che vendeva datteri aromatizzati. Allora non ci vidi più, afferrai le forbici e mirai dritto all’interno della tua gola. No, non volevo sgozzarti. Volevo solo tagliarti le corde vocali. Così ti ficcai le forbici in gola fin quando il tuo grido inumano terrorizzato divenne un miscuglio gutturale sempre meno potente. Non so se davvero riuscii, con quella mia azione avventata dettata dalla rettitudine, a reciderti davvero le corde vocali (neppure ero certo di sapere dove si trovassero) fattostà che da quel giorno tu non parlasti più.
Il giorno dopo bruciai tutti i libri che erano in casa, tutti i libri che avrebbero potuto darti strane idee di elevazioni morali o culturali ai miei danni, anche quei pochi libri miei che si occupavano di contabilità e di affari. Anche i giornali e le riviste che comperavo quando c’era un articolo che mi interessava. Da quel giorno, seppure ogni tanto comprassi qualche pubblicazione di vario genere, dopo che la leggevo essa la mandavo sempre nel cestino dei rifiuti.
Trascorsero altri mesi beati in cui davvero non mi procurasti più alcuna problematica. Non sembravi neanche più tanto una donna, tutta fasciata a quella maniera, che non parlavi mai neppure quando avrei desiderato rispondessi a una domanda diretta. Usavi un blocchetto degli appunti per comunicare, e scrivevi anche in stampatello, forse perché intuisti che una scrittura troppo femminile avrebbe potuto eccitare troppo parti di me non disposte a esserlo. Il colore della tua pelle me lo scordai totalmente. Per quanto ne avrei potuto sapere, la tua pelle erano i vestiti che indossavi che ti fasciavano.
Come eri brava. Non indossavi abiti aderenti capaci di farmi schizzare la libido a livelli inopportuni. Non ci fu neppure il bisogno che ti dicessi che dovevi cominciare a fasciarti il seno che tu, da sola, capisti che sarebbe stato meglio farlo per incontrare maggiormente i miei favori. A dimostrazione che quando volevi, sapevi perfettamente cosa desiderassi nel profondo del mio cuore e quale fosse la retta via e quale la cattiva.
Poi successe che mi ruppi un piede, purtroppo. E questo implicava che non sarei più stato in grado di accompagnare i bambini a scuola. A quell’epoca tu ancora uscivi, ma potevi farlo solo fasciata e portandoti dietro quel blocchetto per gli appunti per comunicare con il resto del mondo, il quale aveva preso l’usanza di soprannominarti “la murata”. Mi ero già rassegnato all’idea di far mancare da scuola per circa un mese (il tempo che avrei impiegato a guarire e tornare un provetto guidatore) i due maschietti, quando un mio amico mi suggerì di far prendere la patente a te. Infatti, se anche avevi le corde vocali compromesse, le tue gambe funzionavano bene e le mani pure abbastanza bene per inserire le marce, mettere in moto e tenere il volante. Il mio amico mi disse che anche lui faceva fare alla moglie un sacco di cose con l’auto, compresi i traslochi. Non avrei accettato, ma poi mi disse che conosceva un tale che ti avrebbe insegnato a guidare e ti avrebbe rilasciato certamente una patente, con tutto in regola, in meno di dieci giorni. Allora accettai. E tu, zitta, non mi dicesti niente. Non mi dicesti che così sarebbero potute venirti strane idee, idee di partire, idee di indipendenza, ma sopratutto idee di essere come noi uomini.
Anche io non ti dissi nulla per vedere se ci saresti stata. E tu ci stetti eccome. Quando, l’ultimo giorno d’addestramento, ti doveva essere consegnata finalmente la patente, ti dissi di non andare, di portarmi l’asse di legno con la quale solevo batterti e di inginocchiarti davanti a me. E tu lo facesti piangendo. Me ne accorsi dai rumori che facesti. Così tornai a flagellarti (vestita) dopo tanto tempo. Ti dissi che ti avevo messo alla prova per saggiare la tua fedeltà di donna prona al marito e che, la prova, ovviamente, come sempre, non l’avevi superata.
Di lì a poco stabilii che, per essere certo di te, che non cadessi in errore, dovevi rimanere chiusa in casa tutto il tempo e non vedere nessuno all’infuori dei famigliari più stretti e anziani, a parte i bambini.
Trascorsero altri quattro o cinque mesi molto buoni. Poi un giorno accadde la catastrofe, o forse fu il giorno della redenzione. Ti chinasti per raccogliere un avanzo di cibo che era ruzzolato sotto il tavolo. Mi accorsi che eri ancora una donna, tutto sommato. Non ci vidi più e ti volli prendere in quella posizione. Ti strappai i vestiti. Mi accorsi che eri diventata talmente brutta da fare spavento. Ti mancavano i denti, avevi labbra storte. Ti eri fatta grassa e pelosa. Però avevi ancora quelle impudiche mammelle ormai diventate da matrona, quegli impudichi larghissimi fianchi, quegli impudichi capelli lunghi da sgualdrina, quel sedere enorme tipicamente femminile e poi… e poi quella cosa che avrebbe dovuto servire solo per fare figli ma che tu mi costringevi a bramare anche in altre nefaste occasioni. Ti violentai. Ciononostante ero consapevole del mio sbaglio e della tua ennesima grave colpa. E da quella colpa sarebbero nati anche dei figli, se non vi avessi subito posto rimedio.
Così, da ultimo, posi fine al tormento che mi avevi dato per tutta una vita e ti uccisi. Perché non avrei più dormito tranquillo sapendo che una donna dormiva con me nello stesso letto, nella stessa casa, una donna implicitamente maligna e tentatrice, una donna messaggera stessa del Demonio in persona. Una donna che anche se la si batteva quotidianamente, avrebbe sempre trovato il modo di flirtare e indurre nelle sue cosacce sporche. Per questo dovetti ucciderti. E allora potei finalmente trovare la pace che avevo sempre anelato…