Gocce di mestizia


In quel periodo già non mi parlava più. Tuttavia, secondo quella sua contorta etica femminile della non manifestazione del dolore, doveva fare in modo che nessuno potesse dire di sapere apertamente che io e lei con ci sopportavamo. Così, pubblicamente, recitava il ruolo della donna superiore, annoiata da me, che fosse quello il motivo del perché non mi parlasse più, lasciando ad intendere che in fondo non c’era mai stato nulla di sostanziale tra me e lei, e che se qualcuno doveva averlo pensato era stato un grosso errore…

Ed io, io che facevo? Niente. Come sempre io, annientato dalla sua vile finzione, le davo spago e non la contrariavo in nulla. Voleva che non le rivolgessi la parola (alla quale, facendo finta di non udirla, non avrebbe tra l’altro mai risposto)? Ed io allora non le parlavo. E mi dicevo, così sei contenta? Sei felice di distruggere così spietatamente tutto ciò che di bello una volta c’era stato tra di noi? Voglio proprio vedere come andrà a finire; voglio assistere all’ultimo momento nel quale del nostro amore non sarà rimasto nulla… E allora entrambi ci guarderemo intorno osservando bene le macerie del disastro irreversibile ormai compiuto e quindi ci daremo le spalle e ci diremo: questo è per sempre. È tutto finito, cancellato, annientato. Per sempre. Così davvero quel giorno non sarà rimasto nulla, e pure delle poche cose belle non resterà neppure l’ombra di un ricordo, di una sensazione di deja-vu…

Questa era la situazione tra di noi all’epoca. E quel giorno tu chiaramente continuavi nel tuo dogmatico e cieco desiderio di annichilimento, ed io vi soggiacevo, cercando di non pensare troppo a quello che facevi a me e a noi (a te)… Ma poi te ne uscisti davanti a tutti con quella battuta alla quale non potei che ridere sonoramente. Allora tu (che pur detestandomi bramavi il consenso, pure il mio, in particolare se ti avrebbe fatto ottenere più facilmente quello degli altri) ne facesti un’altra, ed io risi ancora, non potendomi trattenere dal farlo. E allora tu continuasti, fino a che cominciai anche io a risponderti (e qualche volta riuscii a strappare pure a te qualche sorriso, a te che non ti avevo mai vista sorridere prima in vita mia). Di li a poco tutta la sala si trasformò in un’accozzaglia di gente che rideva di gusto, spesso con le lacrime agli occhi.

In verità ero a conoscenza che il tuo modo di fare la simpatica fosse molto artefatto. Cioè, alla fine avevo capito che tu, il massimo che potevi fare era… copiare le battute degli altri. Però lo facevi così bene (lo ammetto), ed inoltre eri così portata alla recitazione, con quella tua faccia da bambina impertinente e pur soavemente incontaminata, che in ultima istanza, seppure sapevo che replicavi solamente precedenti modelli comportamentali di altri, non potevo non assegnarti una certa rilevanza di affinità…

Eri ebbra di felicità, perché era per merito tuo se la gente si scompisciava (ma senza i miei assist non avresti mai ottenuto il tuo risultato, vero amore?) e cominciasti allora a zompettare a destra e a manca, come un grillo, il che ti rese ancor più buffa. E perciò io feci più o meno altrettanto e ti dimostrai che quella comunicazione fisica la padroneggiavo molto meglio di te. Così, gli scrosci di risa incontrollati che ottenni furono molto superiori ai tuoi e, se avessi voluto, avrei potuto oscurarti totalmente. Ma non lo feci ed invece tornai a farti rientrare al centro della scena, perché sapevo che tu lo anelavi assai, mentre a me, tutto sommato, non importava niente, perché in quel periodo nulla aveva più importanza e, essendo annientato dal dolore che tu ci avevi tenuto tanto a provocarmi, vivevo in una vescica di spleen dalla quale non sarei potuto uscire se non utilizzando molta volontà, e solo quando avrei finito di versare tutte le mie lacrime…

Tutti pensarono che ero felice, il più felice di tutti, perché ridevo e mi sganasciavo, ma dentro di me invece versavo le lacrime più amare che potessi. E mentre rimiravo i tuoi occhi con altre lacrime, ma di divertimento, ciò non poteva che arrecarmi ancora maggior dolore, perché era vero che tu ridevi, sì, ridevi, ma lo facevi per il motivo sbagliato e la tua tua ottusa demenza non ti avrebbe mai permesso di tornare ad amarmi come era prima… Ostracista che non eri altro…

Quel giorno tutti pensarono che saremmo stati una coppia perfetta, tu ed io assieme. Anzi, si dovettero chiedere come mai, due persone così affiatate come noi non fossero già finite assieme nello stesso letto, come invero per un periodo pensarono che fummo sul punto di fare… Dovettero chiedersi: strana la vita, dove due tipi come questi si ignorano quasi sempre, anche se stanno così bene insieme quando si parlano… Ma perché non si parlano mai?

Il ghirlandoso petalo aulente negli emisferi di Zen-na e Zen-no


Zen-no regalò a Zen-na un bellissimo vaso annesso di bel fiore giallo.

Una settimana dopo, recandosi a casa di Zen-na, Zen-no constatò come quel fiore fosse appassito e risultasse al tatto assai secco. Se si carezzavano i suoi petali essi si polverizzavano; se si tastavano le punte della corolla ci si faceva quasi male per quanto essa fosse divenuta puntuta e aguzza.

«Perchè, Zen-na,» disse «non la hai annaffiata? La pianta è morta…»

E Zen-na lo guardò assorta e poi gli rispose: «La pianta non è morta. I fiori si seccano, Zen-no. E questo decorso è normale.»

Il bel fiore giallo non c’era più.

Telefonate mute


Chi chiama in mezzo alla settimana, in giorni feriali, vuol dire che ti ha pensato tutta la settima precedente e se fosse stato per lei ti avrebbe sicuramente contattato nel week end, nel quale però era impegnata col compagno attuale e quindi non ha potuto chiamarti. Oppure può essere semplicemente che, essendo la tipa un po’ in bolletta, abbia preferito contattarti dal lavoro (dove non paga la chiamata).

Chi chiama invece nei giorni festivi vuol dire che durante tutta la settimana è sempre molto indaffarata in menate varie, ma non per questo però il suo pensiero non è andato costantemente a te per tutto quel periodo…

Chi effettua chiamate mute ad ogni modo ha molti rimorsi.