Melanie


Ricordo la tua carnagione bianca, intinta di rosso. L’ho sempre amata… Le tue labbra rubiconde. I tuoi occhi verdi, in verità molto infidi e pusillanimi, che non ti meritavi. Le tue mani che sapevano di tabacco. Quelle membra secche, ma quel seno abbondante. Anche questo, troppo per te…

Tre anni fa eri un fantasma, volevi sparire. Oggi invece ho visto che vuoi comparire, ci vuoi essere. Sono cambiate tante cose in tre anni, vero?

Bambini. È la prima cosa che colgo. Pensa un po’, tu che fai bambini! Sforni marmocchi da quella cosa che hai in mezzo alle gambe… E io che pensavo che ti servisse solo a quello… Ah! Mi sto immaginando la scena con l’ostetrica che ti dice spingi, spingi! E tu che le rispondi: spingo spingo! è una vita che spingo, porco @a$$o! ci sono abituata!

Non sapevo che avessi quei gusti. Adesso ti piacciono pure gli uomini voluminosi, col panzone, mezzi pelati (che si vede che sono molto tristi, perché sicuramente ce li hai resi tu così). Con lo sguardo basso. Ombrosi. E tu che cerchi, ti sforzi di sorridere, per tenerli su. Ma perché ho imboccato questa strada tutta al plurale?! L’uomo è uno solo, quindi parliamone al singolare…

Un omone che sta perdendo i capelli. Beh, i miei reggono, nonostante tutto. Se tutto va come deve andare, ho modo di ritenere che morirò con ancora tanti capelli in testa. Pure se mi dovesse venire il cancro, perché è scontato che uno come me la chemio non la farebbe mai… Ma torniamo a te…

Anche tu non è che hai tutto questo sguardo allegro. Te ne ho visti fare di molto più espansivi di sorrisi! Molto più espansivi! Dunque non ti senti poi così appagata, vero? A me non la fai. Ti aspettavi qualcosa di più dalla vita. Okay: ti sei sistemata, però sei ancora giovanissima. E poi sono piovuti quei marmocchi (non riesco a credere che una tipa egoista come te possa averli non solo desiderati ma anche fatti! Non è che hai solo trascurato di proteggerti?)…

Ma io che ne so? Chi sono io per giudicare te solo da qualche foto… Io che neppure ti sono mai stato vicino, mi diresti, perché tu non mi reputavi degno…

Contenta tu. Ditti pure tutte le bugie che vuoi. A me non interessa.

Però certo non credo che quell’omaccione possa apprezzarti come ti apprezzai io quell’unico giorno nel quale fummo vicini. Te ne ricordi? Secondo me, nonostante tutto, se ti ci impegni, te lo ricordi. D’altronde è lì che dovette attecchire il tuo ostracismo verso me…

Ricordo tutte quelle volte che volli sbattermi in faccia che io non ero cosa per te. Che dispiacere… Ma certo che non ero cosa per te. Anche se più esattamente tu non eri cosa per me. Forse sono stato io ad allontanarti. A non farti avvicinare, cosicché avresti potuto avvicinarmi solo qualora fossi stata molto motivata. E una tipa arrogante e viziata come te non avrebbe mai creduto tanto in me da venirmi dietro. Così ti ho perso alla prima curva, che cazzo. Perso per sempre. Goodbye, occhi verdi. E tanti saluti…

Ricordo quell’estate afosissima, con noi che stavamo lì a schiumare sudore. Tu scomparivi sempre. Insieme all’altro. A quello che poteva essere considerato un po’ il mio sosia. Non mi sono mai interrogato a sufficienza su questo fatto. Voleva dire che in condizioni differenti, se non avessi avuto l’impressione di essere respinta, ci sarei potuto essere io al suo posto? Non si direbbe, visto la freddezza che ormai mi connaturavi così comodamente, cosicché davvero potevo pensare che per te fossi l’ultimo degli ultimi, uno con cui non scambiare neppure buongiorno e buonasera. Neppure le basi, neppure le basi avevi… Che stronzetta insolente sei sempre stata.

Beh, ammetto che quell’estate scoprire quel tuo tradimento fu come ricevere un pugno allo stomaco. Nausea, disgusto, rifiuto, rabbia. Attendere che passasse. E poi passò, ma per farlo passare dovetti smantellare ogni immagine idilliaca di te nella mia coscienza. E dopo, di te, non rimase più nulla di bello e cominciai a vederti come una di un’altra specie, una da prendere per il culo a biliardo, dunque di nessun interesse, anche se avevi sempre quelle tette enormi che ti calavano proprio bene che proprio non potevo esimermi dal notare.

Chissà perché mi ricordo poi di quella volta che parlavamo sulle scale. Che cosa mi dicesti? Non ricordo, ma era qualcosa di importante, che all’epoca si fissò nella mia psiche. Forse mi rivelasti una parte nascosta di te che non avevo mai compreso. E sembrava tanto che avessi atteso tutto quel tempo per comunicarmela, che avevi atteso tutta la vita per dirmela e farmi capire qualcosa che tenevi molto che io conoscessi… Peccato che adesso non me ne ricordi più. Ma tanto a cosa servirebbe ormai quel ricordo?

Ricordo piuttosto la mia vendetta. Che fu terribile e sottile. Mi bastò prendere colui per cui sbavavi e aizzartelo contro, con pochissime parole calibrate ad arte. Era quello che ti meritavi, sgualdrina. Perché anche in quel caso avevi scelto il peggio, il peggio di tutti. Eppure a te piaceva. Che diavolo ci vedevi in quella nullità?! Forse lo supponevi mio amico? Ma mica era mio amico! Come avrebbe potuto esserlo?

Lo feci rivoltare contro di te come una vipera. E tu quel giorno accusasti il colpo, in pieno, ma non credo che capisti mai che ero stato io ad avergli dato una spintarella, a quella mondezza, per ripudiarti pubblicamente (dunque subisti un’onta pubblica! La cosa peggiore per te!). D’altronde per lui contavo molto più io che te. Vuoi sapere una cosa? Lui neppure ti trovava attraente. E se ti avesse scopato, lo avrebbe fatto accusando in parte del ribrezzo, proprio così. Ma non ci siete mai arrivati, vero? Per me potevi essere una Venere; per lui eri affascinante quanto Ecate. E dire che a lui le ragazzine attizzavano parecchio, molto più che a me. E lui non si faceva problemi di coscienza, al contrario di me…

Beh, adesso sei in cerca, vero? Per questo hai messo tutte quelle foto. No, non per la famiglia. See… Ti conosco oppure no? Solo il tuo sfigato compagno panzone può ignorarlo. Ma penso che non lo ignori affatto nel profondo della sua anima, il poveruomo. Deve sapere di che pasta è fatta la sua dolce metà rancida.

Io ti amai sinceramente come nessuno. E tu mi sputasti in faccia. Io ti rivestii di significati di cui mai nessuno ti ritenne capace. Forse avevano ragione gli altri, ed ero io lo stolto. Sta di fatto che non troverai mai un altro capace di credere in te come fu per me.

Non sorridi più come una volta. Ti si è appannato il viso, ma potresti dire lo stesso di me. Quel viso che io conobbi prima di tutti, radioso, pieno di egocentricità e boria. Oggi la ragazzina è divenuta donna. Ha pure figliato. Allora perché sei così triste? I tuoi occhi si sono fatti stanchi e languidi.

 

Bastona il razzista


C’era ingente attesa circa il grande Convegno sul Razzismo. E tutti già sapevano che si sarebbero scontrate quelle due cospicue dottrine seminali, quella del professor Perlinghetti e quella del professor Limacciotti, cioè dei due più grandi luminari in materia di sottocultura fascista.

Ed effettivamente le cose, fin dai primi giorni di convegno, andarono così. Ed entrambi i professoroni si batterono utilizzando tutte le armi della retorica e della logica e della scienza in loro possesso.

Il professor Perlinghetti sosteneva che i razzisti fossero così principalmente per via di un’educazione carente o bacata avuta nella loro triste esistenza di feccia incolta e arretrata. Ma il professor Limacciotti ribatteva che non era affatto vero, perché il razzismo non era tanto una piaga sociale originatasi da un triste passato, quanto invece proprio una libera scelta all’idiozia più esacerbata che ci potesse essere, perché ormai, nell’era di internet, dell’informazione, e della connessione, non poteva più sussistere ragione valida per poter affermare che chi fosse razzista lo fosse per disgrazia e sfortuna, per un retaggio del suo infausto passato menzognero e disimparato…

Ma il professor Perlinghetti non ci stava. E allora ribatteva pugnace ribadendo la tua teoria e diceva che non si potevano ignorare gli ingenti danni che genitori assenti o ignoranti potevano compiere su quei poveri marmocchi che poi un giorno sarebbero diventati razzisti. Non si poteva rimuovere in toto il fattore ambientale e neppure quello genetico, a dirla tutta. Perché da degli studi recenti assolutamente affidabili, a sentir lui, era ormai stradimostato che da geni razzisti fosse molto facile far germinare altri geni razzisti. Quindi in certi casi i razzisti erano quasi condannati a essere le merde che erano…

Ma qui il professor Limacciotti, seppur accettando le congetture iniziali sulle quali si basava la teoria dell’altro, si inalberava rigettando le conclusioni del suo stimato collega. Il professor Limacciotti diceva che c’era sempre la possibilità di scegliere in fondo, per cui il razzista poteva aver subito, sì, una vita difficile nei primi anni dell’infanzia, che pure erano, questo lo ammetteva, i più rilevanti di tutta un’esistenza. Tuttavia, crescendo, il razzista non poteva non essersi accorto di come fosse davvero il mondo, non poteva non sapere che la sua fissazione altro non fosse che un mucchio di leggende superate derivate pure dalla segreta paura che la sua carente cultura sociale fosse un giorno soppiantata da quella dell’altro, del diverso, cioè da una vera cultura sociale, non certo quella sua accozzaglia di valori pseudo patriottici e nazionalistici che altro non erano che un mucchio di merda nel mare della merda… Il razzista non poteva non sapere che è assurdo discriminare a seconda del paese di provenienza o per il colore della pelle, perché sarebbe stato come dire a esempio che tutte le donne erano in fondo puttane (principio, questo, in cui a dire il vero infatti molti di essi credevano sul serio), o che chi avesse il naso lungo fosse un cattivo soggetto, o che le persone con la pelle chiara avessero le emorroidi con maggior facilità di quelli con la pelle scura (seppure il convincimento che i membri della gente nera fossero mediamente più lunghi di quelli di tutti gli altri pareva avesse delle comprovate basi scientifiche)…

Ma, inutile dire che questa presa di posizione ancor più netta da parte del professor Limacciotti, cagionò un ulteriore inasprimento nel professor Perlinghetti, così la sua visione del razzismo divenne ancora più fiscale. E si arrivò all’ultimo giorno di convegno con le due fazioni col coltello tra i denti: da una parte c’erano quelli che in finale sostenevano che il razzismo fosse originato principalmente dalle cattive esperienze pre-adolescenziali; dall’altra c’erano quelli che affermavano che ciò non sarebbe mai bastato come scusa, perché un individuo è quel che è soprattutto perché nel corso della sua vita matura un percorso di autocoscienza che, in genere, lo porta comunque a essere ciò che era destinato a essere, quindi nel caso del razzista meramente una paurosa cacca patologica che per l’appunto nutre immotivati timori di soppiantamento da parte di un altro essere umano (per di più solitamente sconosciuto).

Tutto il mondo guardava con il fiato sospeso i risultati di questo dibattito globale al quale non si poteva dare una degna conclusione di convergenza, e ciò era assai spiacevole. Così fu fondamentale la decisione presa dai fautori del Congresso stesso di creare un’apposita commissione che si incaricasse di far confluire per l’appunto le teorie dell’esimio professor Perlinghetti con quelle del parimente rispettabile professor Limacciotti.

E invero la commissione riuscì nel suo intento. Perché alla fine sia il professor Perlinghetti che il professor Limacciotti si dichiararono d’accordo sul fatto che il razzista, di qualunque natura fosse stato il suo status, era una feccia che non si meritasse alcuna scusante. E dunque, finché sarebbe stato tale, andasse bastonato. Punto e basta. Bastona il razzista!, divenne il motto del Convegno. E tutto il pubblico del Convegno applaudì. E anche i giusti e gli onesti lo fecero. E da allora fu stabilito il legittimo diritto di prendere a calci nel culo qualsiasi razzista, in particolare se appartenente a movimenti di destra o indossante una camicia verde, per la sola ragione che si palesasse tale. E tutto il mondo ci guadagnò e i fascisti scomparvero presto dalla faccia del pianeta…

Lieto fine. 🙂

3<–

La ragazza dal pozzo nero


Laddove la menzogna è verità,

laddove il buio è al posto del giorno

e il giorno al posto del buio,

laddove esistono solo urgenti bisogni primari,

e primarie sensazioni,

e primarie esplorazioni,

e primarie conflagrazioni,

e primarie lacerazioni

e primarie, caduche estasi…

lì è il tuo pozzo nero.

*

Più nero del nero,

più cupo della disperazione,

più annichilente della violenza,

più fosco della depressione,

più luttuoso della morte stessa,

più cattivo dell’abbandono,

più terribile della sofferenza

perché una sofferenza a cui non si sfugge,

a cui non ci si può adusare,

lacera le carni e l’anima

come nessuna cosa altra,

come nessuna cosa altra.

*

Scoprii un giorno una ragazza bellissima,

così bella

che non sapeva di esserlo

perché nessuno glielo aveva mai detto.

L’avevano sedotta

convincendola che dovesse essere in un modo,

che si dovesse far desiderare da un uomo,

ma era solo la più grande menzogna,

la più grande menzogna che mai fu detta,

alla quale lei credeva

per sentire di attribuirsi un senso.

*

Se ne stava sempre al buio,

tutta infangata,

eppure rimaneva bella,

alternando momenti di abbattimento epocali

a splendenti folgorazioni,

oppure a vacue tranquillità che lei,

abituata a esser svilita,

non sapeva minimamente apprezzare.

Così quasi preferiva

il dolore al vuoto,

(vuoto, così lo chiamava),

a un senso di vuoto di cui

come per beffa

si colmava la sua esistenza

in assenza di sofferenza.

Il dolore è vero, pensava.

Il dolore mi fa battere il cuore.

Invece la calma è inutile,

non so che farci, pensava.

Così per lei era quella la vera dipartita:

la calma,

non la disumana situazione

alla quale sempre si sottoponeva

per sentirsi viva…

*

E io mi ci rammaricavo

a vedere com’essa si sprecasse,

si buttasse via,

fosse incapace di esser davvero felice,

fosse schiava dei suoi aguzzini i quali,

cattivi, intuendo la sua sciagurata natura,

se ne approfittavano per i loro turpi scopi.

Volevano che restasse nel pozzo nero.

Per sempre.

Così la potevano usare.

Io ne soffrivo

perché non riuscivo a salvarla

e più volte lo scoramento prevalse in me

facendomi soppesare l’idea di lasciarla,

perché non potevo far nulla per lei,

se lei non voleva e poteva guarirne

com’ella mi diceva…

E quella ragazza eri tu,

amore mio.

*

Ma io oggi lo so,

sì, lo so,

lo so che un giorno

un giorno te ne verrai su,

perché se delle volte tu hai creduto

che la mia affezione fosse migliore della tua,

io tante volte ho creduto che in fondo

per te ci sia più speranza,

seppure il tuo odierno destino è stato finora

peggiore del mio, posso dire

(chissà se tu adesso pensi lo stesso di me).

Cosicché se avessi qualcosa da scommettere

non esito a pensare,

e anzi ne sono convinto,

che un giorno tu ce la farai

e allora il mondo ti sembrerà migliore

e ti chiederai perché mai fino allora

ancora non ne eri stata capace,

amor mio.

*

Un giorno te ne verrai su,

ne sono sicuro,

afferrerai la mia fune o quella d’altri,

permetterai che ti tiri,

o forse lo farai con le tue mani,

perché sei forte abbastanza,

tanto forte che tu non lo puoi

nemmeno immaginare, piccola mia.

E allora scoprirai che sopra

il cielo, il sole,

la notte,

è tutto diverso.

Che il giorno dura più della notte

e ciò è bene.

Che il sole illumina il cielo non solo pochi istanti

ma ore e ore e ore intere,

per la tua delizia e quella degli altri.

Che la luce, sì la luce,

non è quel terribile e inebriante bagliore

che acceca alla vista,

seppur fugace,

quando si è abituati alla fitta bruma del buio.

Che l’aria è fresca e ventosa

e non deve esser stantia e umidiccia.

Che si può respirare a pieni polmoni

senza che si acceleri il battito.

Che quel cuore,

quel tuo piccolo cuore tanto forte e tanto funestato

che fin da bambina ti palpita forte nel petto

con il quale hai diviso tutto il dolore della vita,

quel tuo piccolo cuore è innocente e puro,

perché non è vero che sei sempre stata una bambina cattiva

come il mondo ti ha voluto far credere…

*

Quel giorno capirai che

se un amore fa soffrire,

troppo,

sempre,

allora non è tale

e non deve esser consumato.

Il vero amore è gioia,

amore mio.

 

Consigli per un ragazzo con il cuore spezzato


Se un giorno ti dirà di non fidarti di lei, tu non protestare, credile. Ti starà dicendo una grande verità, in un momento di non falsità.

Se un giorno ti dirà che ci vuole fegato per starle accanto, anche se tu la ritieni la donna più bella del creato, credile, perché a una così non sarà affatto semplice stare accanto.

Se un giorno ti dirà che è pessima e che ti tratterà male, credile, anche se non vuoi, perché, se le dirai che non è così, lei ti darà la prova inoppugnabile di quanto non menta.

Ma non accettare tutte queste cose passivamente, ragazzo. Non lasciar decidere solo loro. Sii forte. Perché loro non sono mai forti. E ti faranno male solo se tu glielo permetterai. Ragazzo, non ti aspettare costanza, o sincerità, o verità dalle donne. Ma se vuoi loro davvero bene, devi dimostrar loro che tu sei più forte, che non è giusto buttare tutto dalla finestra solo perché è difficile. Che ci si può credere anche quando è complicato. Che tutt’è crederci. E se un giorno riuscirai a farti credere, allora le avrai conquistate e loro non ti diranno più di non fidarti di loro, anche se ci vuole fegato per stare con loro. E ti diranno che sono cambiate. E tu, se le ami davvero, concedi loro un’altra possibilità, se hanno fatto un errore e sono realmente pentite. Aspettale, se ne vale davvero la pena.

 

Tanto lavoro


Evidentemente, se un idraulico, o un elettricista, o un falegname necessita di più chiamate affinché si decida a smuore il suo consacrato culo per farti l’ingente favore di venire a portare i suoi alti servigi presso te, vuol dire che esso deve essere talmente oberato di lavoro da potersi permettere di fare il prezioso.

Quindi, il mio consiglio, se dovesse capitare di imbattersi in uno di codesti figuri, è quello di rivolgervi a un altro. Così renderete un favore sia a quel qualcuno che per l’appunto è pieno di lavoro, che a quel qualcuno che ha davvero bisogno di lavorare, che infine a voi stessi che non vi scasserete più a stare appresso a un tipo accidioso e irritante aduso alla buggera.

The Signal (film)


Ecco uno di quei film che io definisco prettamente ludico, ma di scarso valore artistico. Cioè, più o meno ci si diverte a vederlo, anche se poi, stringi stringi, alla fine ti rendi conto di aver passato solo il tempo, che in questo caso il film è un’occasione persa.

Il film lo dividerei in due parti. Nella prima, che mi è piaciuta molto più dell’altra, si vede il mondo dal punto di vista di una ragazza. Una notte d’amore, un tradimento, un dover tornare a casa anche se non lo si vorrebbe. E poi la metamorfosi del mondo che cambia in un’orgia di violenza. Quasi tutte le persone cominciano a dare di matto trasformandosi in killer. Divengono molto simili agli zombi, se vogliamo; gli zombie però si muovono più lenti e sono molto stupidi. Quindi va pure peggio!

La colpa di questa trasfigurazione è di un misterioso segnale passato incessantemente dalle televisioni, dai cellulari e quant’altro. Il segnale rende squilibrati e idrofobi… La ragazza scappa verso la stazione, dove spera di salvarsi. Cerca di ricongiungersi a quell’amore che ha appena lasciato.

Nella seconda parte invece il ritmo rallenta e si dà molto risalto alla comicità. Così si perde tutto quel che di buono era stato seminato prima.

Finale molto triste, per la giovane ragazza bionda.

 

Iper Key, iper Keats


{Avevo tra le mani LA CADUTA DI IPERIONE. UN SOGNO di John Keats, Fazi Editore, quando, leggendo le lettere finali dell’autore, sono caduto preda di una strana suggestione. Trovavo quella prosa molto “poetica”. Così non ho resistito alla tentazione di cavarne per l’appunto dei versi, interpolando quelle semplici frasi di Keats con le foschie che si agitano nella mia mente… Il risultato mi è piaciuto molto. Due poesie “decadenti”, per come intendo io questo termine…}

*

*

l’indulgenza consentita

*

conduciamo una vita così monotona

potrei solo narrarti delle mie ossessioni

e dei miei incubi notturni e diurni

e non mi troveresti infelice in questo

perché tutti i miei pensieri e sentimenti

le mie quotidiane meditazioni

continuano a farmi

ogni giorno che passa

sempre più d’Acciaio

*

il Paradiso Perduto è per me

una meraviglia sempre più grande

sento che è nelle mie possibilità

diventare uno scrittore

sento in me la forza di rifiutare

il velenoso consenso del pubblico

il mio essere così diventa

sempre più importante

per me

abitano un regno

folle di ombre

in forma d’uomini e di donne

*

l’anima è un mondo di per sé

e ha abbastanza da fare nella propria casa

quelli che conosco da tempo

cresciuti come parte di me stesso

sono come un’allucinazione

se avessi una dura saldezza di cuore

così da poter sopportare incolume

l’urto estremo di pensieri e sensazioni

senza stancarmi

potrei passare la vita anche da solo

in eterno

altrimenti mi devasterei

perché più si ha

e più ci si butta via

e io non potrei mai fuggir

da questa legge superiore

ma sento che il mio corpo è troppo debole

per sostenermi a tali altezze di ebbrezza

sono continuamente obbligato a frenarmi

e a farmi nulla

un Nulla di nulla

che non esiste

che si nasconde

che muore o vive

che differenza fa?

*

non ho altro da parlare

se non di me stesso

e di cosa potrei parlare

se non di quel che abbranca?

l’agitazione della marea è incanalata

distorce

si duole

contorce

si ricrea

vanifica

corrompe

e crepa

è questo il mio unico stato

nella mia unica poesia

perdonami se preoccupo per quel che vivo

perdonami se non riempio la pagina intera

la prossima volta pregherò gli amici

di risparmiartele

dar credito alla costanza

e allo stesso tempo rinunziare all’indulgenza

che mi si può consentire

l’indulgenza consentita

*

*

tu mi abiuri

*

sentire che vi sareste incontrati in campagna

spero che il tempo vi passi piacevolmente

e mi piacerebbe rendervelo ancora più piacevole

con un mazzetto di mie viole

degne spero di esser apprezzate

finora non ho avuto molta fortuna a questo gioco

*

vivo in solitudine perché tu sei andata a far visite

sono sorpreso dal piacere che mi hai dato

lasciandomi vivere in solitudine

ieri è stata una grande giornata

era ora che ci fosse un po’ d’eccitazione in questo posto

prima non succedeva nulla

tutto addormentato

nemmeno la carrozza di qualche zitella

di ritorno da una partita a carte

e se qualche donzella diventa vecchia gallina

nessuno se ne accorge perché fa un buon brodo

ieri c’è stato un po’ di trambusto

è vero

picchiavi sul selciato

come fanno i buon vecchi bastoni di marca

e dopo qualcuno disse:

che rumore che fa quella matta!

legatela!

avrebbe voluto chiamare i poliziotti

ma io osservai che dopotutto

era solo una piccola brezza

e presto sarebbe passata

*

la qualità delle tue vie è molto femminile

i manici delle tue porte sempre freschi di scopa

il tuo battente ha un’aria spaventosa

non ho mai visto una collezione di teste come la tua

porte nere sopra il buco della chiave

e tu che mi chiudi fuori casa

facendomi spezzare la chiave dentro

e ora non ho né casa né chiave

*

com’è fresca la tua aria

pungente ma dolce

un tempo casta

cieli di Diana

non mi son mai piaciuti i campi di gramigna quanto adesso

meglio del verde freddo della primavera

in qualche modo sembri calda

come lo può sembrare un dipinto

mi hai colpito così tanto

che durante la mia passeggiata domenicale ho scritto una poesia

*

immagino che tu stia contemplando il tempo

ti vedo col nasino all’insù

ad arricciare le tue grotte

chiedendoti se quella nuvola è più pecora

o giumenta

se è più te

o l’altra te

ci sono state delle volte che ero così felice

che non sapevo minimamente comi tu fossi

ti copierò nei versi

copierò dei versi per te

oh mia dolce lama che affonda nelle mie carni

e le scinde per sempre

senza pietà

*

non so perché

ma ti ho sempre associata all’autunno

sei la più pura e genuina estrinsecazione

dell’inversione artificiosa

o meglio artistica

del mio stato d’animo

vorrei dedicarmi ad altre sensazioni

ma tu mi tieni giù

la testa nel secchio col piscio

sarebbe interessante se mi scuoiassi vivo

e mi dicessi quale parti di me vorresti conservare

e quale buttare

so che lo faresti con arte

con vera voce di sentimento

io non saprei mai decidere

poiché tu hai guastato

ogni mia forma d’immaginazione

per me non vi è distinzione

tra un’orgogliosa strenue gelosia

e una pugnace crudele mietitura

*

frammentario

non ho una meridiana su cui calcolare

le date dei tuoi ingressi

o misurare le circonvoluzioni

delle circostanze

stanotte è tutto nella nebbia

non riesco a disconoscere

una cosa dall’altra

ma poiché tu conosci la mia disposizione

all’instabilità

e alle divagazioni

puoi indovinare che tutta questa agitazione

sarà finita una mattina

c’è un pensiero che mi colpisce adesso

negli ultimi due o tre anni

hai condotto una vita strana

qua e là

nessuna àncora

ma ti è piaciuta

se riesci a vedere Bobby

prima di lasciare la campagna

fallo

hai scelto proprio un bel posto

per alcova

hai preso l’acqua calda per fare il thè

negli ultimi tempi ho evitato alcuni nostri amici

e ti consiglio di fare lo stesso

mi riferisco ai diavoli blu

ce ne sarà qualcuno che ti aspetta alla stazione

ma tu

già so che ci andrai

adesso che te l’ho detto

non potrai evitarti di andarci

lo sapevo

ma se lo sapevo

perché te l’ho detto?

forse per fartici andare?

ma allora

tu dovresti assecondarmi

oppure contrastarmi?

che cosa voglio farti fare davvero?

a te la sentenza

mia terribile Maria Antonietta

*

lasciami per favore esporre

la mia ultima opinione

durante la passeggiata oggi

mi sono piegato per oltrepassare una ringhiera

era tutta ricurva

e come il nostro amore

minacciava di cadere

ma non sarebbe caduta

per quanto fosse deforme

l’ho passata e mi son detto

perché non l’ho semplicemente evitata?

perché mi son risposto

tu non mi hai forzato a passarci sotto

vorrei essere un uomo di buonsenso

che fa quello che dice

che non ami quel che odi

che non dispregi quel che odia

si dice che in punto di morte

per quanto pazzi essi siano stati

gli uomini riacquistino la ragione

io spero di non riuscirci

c’è ancora spazio per sragionare

molti poeti hanno detto le stese cose in meno spazio

e sono stati più bravi

non trovi che siano stati più bravi di me amore?

ho sentito di leggi scritte con caratteri così minuti

da essere stati stampati in una cassa d’orologio

le tue sorelle dovrebbero a quest’ora

aver imparato la natura della vostra genia

oh come ammiro le quindicenni delicate e ben proporzionate

come fosti tu un tempo

ce n’era una sulla soglia di un’osteria

che teneva in mano un quarto di vino

il solo pensiero di lei

che sarebbe potuta diventare

esattamente come te

mi ha tenuto caldo per tutta la notte

almeno sei ore

mi scuserai

se sono così sincero

 

Come il vento

 


Vagabondavo guardando con occhi nuovi il mondo circostante, chiedendomi che senso avesse ancora quel mio dolore che sempre mi portavo appresso come un’ombra, che quando il sole era forte nel cielo allora anche esso lo era (per quanto quell’ombra si potesse allungare o concentrare in uno spazio esiguo), e quando era solo buio allora era anche peggio, perché il suo potere era talmente immenso, smisurato che ingoiava tutto ciò che vedevo e di cui ero a conoscenza non lasciandomi altro scampo che esso, non sfamandomi d’altro cibo che non fosse quel dolore profondo e irrimediabile, insanabile.

Seduto su una staccionata, osservavo gli altri ragazzi della mie età, ragazzi e ragazze. Sembravano spensierati, sembravano. Taluni intenti a rimorchiare qualcuno, altri persi in sciocchi pensieri di studi e proiettati al prossimo esame. Solo io mi sembravo diverso. Solo io guardavo ed essi non mi guardavano, troppo presi da essi stessi per accorgersi delle mie pene. Sì, io li guardavo ma non per curiosità (seppure sempre mi chiedessi perché a me e non a loro), ma solo perché essi erano le uniche cose che mi si muovevano incessantemente intorno, che sembravano quindi voler veicolare la mia attenzione.

Una risata alle mie spalle. Mi voltai. Ecco là che già il prato dietro di me era diventato un comodo ricovero per un picnic improvvisato. Due ragazze e due ragazzi flirtavano mangiando ed effondendo parole vane. Una ragazza con i capelli lunghi, invero molto carina, mi guardò un secondo. Nei suoi occhi curiosità. Quella ragazza aveva percepito qualcosa. Per questo mi rivoltai subito concedendole le spalle, ponendo fine a quel rapporto che non volevo avere con nessuno, tanto meno con una femmina. La quale… che cosa avrebbe potuto darmi in cambio del mio viso puro? Solo altro dolore da aggiungere già al mio, che era così notevole che lo trascinavo nei piedi come fossero quintali.

Feci di più. Di lì a poco mi spostai leggermente per non avere l’impiccio di quelle risate alle spalle. E allora mi mossi sulla destra, perché la sinistra mi metteva paura poiché lì la densità di ragazzi era ancor più cospicua: lì la mia solitudine triste avrebbe risaltato ancor di più, mentre io volevo continuare a essere invisibile.

Quel giorno ero stufo. Avevo camminato fingendo di avere uno scopo, ma non era vero. Io quel giorno non avevo alcuno scopo. Non avevo neppure il mio amico da incontrare con il quale era facile confondersi e custodirsi, al quale dicevo tutto e lui faceva altrettanto e insieme cercavamo di contrastare i rispettivi problemi con l’altra sponda, così curiosamente simili e gemelli, proprio come per molti versi lo eravamo noi. Allora perché quel giorno mi ero portato lì, se fuggivo la moltitudine detestandola e agognavo invece la pace? Apparentemente il mio comportamento non aveva senso. Ma la verità forse era che solo nel rumore potevo distogliere lo sguardo dal mio dolore seppur per poco. E quel poco mi era sufficiente per trarre un lieve sollievo che momentaneamente mi avrebbe fatto scordare dei patimenti ben più gravi che provavo quando mi ritrovavo solo a fissarmi sconcertato e costernato allo specchio della mia memoria.

Poco prima avevo incontrato stranamente, stranamente perché anche se non sembrava quello era un giorno di semi-festa e non mi aspettavo proprio di vederla, colei che mi amava ma che non potevo corrispondere dato il mio stato confuso, sconclusionato e sopratutto volto strenuamente verso l’altra, quella che più di tutte mi stava triturando il cuore. Si era manifestata gentilmente, esterrefatta, e presto mi aveva rivelato che anche in lei albergasse un barlume di sottile malinconia. Che cosa hai?, le chiesi. E lei mi rispose che era triste perché, anche in quel giorno di festa era dovuta venire per sbrigare delle pratiche scomode, in quel giorno che era il suo compleanno. Le feci gli auguri e le chiesi come mai non me l’avesse fatto sapere per tempo. Ad averlo saputo le avrei sicuramente fatto un regalo. E lei mi disse che potevo sempre farglielo tra due giorni il regalo. E io le chiesi che cosa avrebbe voluto in regalo. E lei mi disse una rosa. Ma non una rosa qualsiasi. Una rosa bianca. Quel bianco mi rimase impresso. Bianco era il suo sentimento per me. Casto. Immacolato. E casto e immacolato era quello che voleva fosse il mio sentimento per lei. E solo per lei.

Mentre pensai a dove poter rinvenire dei fiorai lì vicino (ne trovai nella mia testa almeno due e mi sfiorò l’idea di protendermi immediatamente per quel dono, ma poi non ne trovai il coraggio perché sarei stato troppo sfacciato), le diedi la mia parola promettendole che tra due giorni avrebbe avuto la sua bella, unica rosa bianca. E poi ci lasciammo. In seguito però due giorni dopo fu lei a non presentarsi quel giorno e io di quella rosa impacchettata non seppi che farmene e, sentitomi tradito anche da lei, la lascia galleggiare in un fontanile, vedendola presto affondare inesorabilmente.

In quel momento non pensavo a niente, dicevo. Fu allora che giunsero lei e Smokey Man, come sempre insieme in quel periodo. E non potevo scappare ormai, né nascondermi nell’ombra del mio amico assente. Mi toccava affrontarli.

Manifestarsi geloso o no? No. Non lo ero più. Non più di Smokey Man, da quando avevo capito che il poverino doveva soffrirci anche lui e che il suo dolore era precedente al mio e quindi, in un certo senso, più rilevante del mio, per quanto il mio mi stava distruggendo mentre lui di certo non avrebbe mai rischiato la vita per lei…

In quel periodo filavano di nuovo d’accordo. D’altronde a lei servivano i suoi favori e aveva fatto in modo di firmare un armistizio, che però non prometteva nulla e non svelava nulla circa il futuro, il quale sarebbe stato alla fine esattamente come il passato. Solo io e lui non l’avevamo ancora capito. Mentre lei doveva saperlo già da un pezzo.

Dunque non manifestarsi geloso. E neppure fuggire. E allora che fare? Niente. Salutarli come loro fecero con me, e in verità anche in maniera molto affettuosa. Così affettuosa che compresi che dovevano aver parlato assiduamente di me, cosicché avevano deciso di comune accordo di tentare in qualche modo di recuperarmi, dato che io ero uno che soffrivo e loro non volevano che una persona così sensibile come me soffrisse per… per cosa? Per dei problemini di cuore, e chissà di cos’altro. Per delle ingerenze casuali e dei quiproquò.

La loro pietà, seppur verace, per un verso mi dava la nausea. Era per loro se stavo così male. O meglio per lei. In realtà il povero Smokey Man non lo potevo certo considerare un cattivo soggetto solo perché soffriva della mia stessa malattia: essersi innamorato di lei.

Erano molto sorpresi di vedermi. E contenti. Forse avevano appena finito di parlare di me. Forse mi avevano evocato fino a quel momento credendomi lontanissimo, quando io invece non ero a casa a studiare o altrove a divertirmi, ma ero andato in quel luogo come loro, anche se io non studiavo perché avevo terminato il periodo nel quale avevo previsto di farlo e non avevo più niente da fare che mi occupasse la testa.

Cercarono di coinvolgermi nel loro entusiasmo e nelle loro chiacchiere. Ma io ero mogio e un po’ distante. Ribattevo, però avevo l’anima velata di mestizia. Se ne accorsero. Smokey Man, capito che non sarebbe stato capace di trainarmi fuori dal mio stato albeggiante, ebbe un moto di rabbia commista a limpido terrore. Forse in me rivedeva lui stesso. Lei era felice come una pasqua. Finalmente mi aveva di nuovo lì davanti a lei. Che bella fortuna! Allora poteva riprovare a parlarmi. Ma sì, non ero poi così distante come si credeva. E parlandomi sarebbe tornata a essere la mia musa e avremmo appianato ogni divergenza. Che cosa ce lo impediva in fondo? Il nostro passato? I nostri rispettivi errori? Ma se potevamo spiegarci e parlare come prima allora potevamo anche fare la pace e smettere di soffrire una volta per tutte, no?

Era incredibilmente ottimista. Ma dovevano andare al bar. Prendiamo una cosa e riusciamo, dissero. Ti ritroviamo poi?, chiese lei speranzosa. E io dissi una delle mie cazzate nelle quali però credevo profondamente. Non lo so, dissi, dipende dal vento. Smokey Man sorrise fiducioso. E anche lei era fiduciosa. Si mossero veloci per fare ancora prima.

Io non volli seguirli con lo sguardo, dapprima. Ma poi li scorsi mentre entravano nel bar. Parlavano. Quei due se la intendevano. Avevano un mucchio di esperienze in comune, mentre io e lei, no. Noi due avevamo solo il dolore, e l’attrazione, illogica e istintuale, l’uno per l’altra. Un’attrazione funesta. Le cose che avevamo maggiormente in comune erano i nostri dissidi…

Sembravano una coppia, una coppia affiatata. E tra breve sarebbero tornati indietro, per me, per cavarmi dal mio buco, per farmi compagnia, per medicarmi, per farmi entrare nel loro duo cosicché saremmo diventati un trio. Così, con la scusa dell’amicizia, nessuno avrebbe avuto più da reclamare niente. Ognuno avrebbe controllato gli altri due e nessuno avrebbe potuto appartarsi con nessuno lasciando solo l’altro.

Ma tutto quel che pensavo era solo una congettura. Anche perché in verità io non pensavo proprio niente in quel momento. Io provavo soltanto emozioni, ero una creatura emozionale e nulla più. Che stava male.

Tra breve sarebbero tornati. Mi prese un senso panico. Volevo esserci al loro ritorno, oppure no? Un attimo prima non lo sapevo ma in quel momento decretai che non avrei voluto esserci per nessun motivo al mondo, perché non volevo che avessero scorto la mia tristezza. Non avrebbero potuto far niente per me, per sanare le mie petunie. Solo lei avrebbe potuto. Ma non sapeva dove mettere le mani. Ed era una codarda, dunque aveva bisogno della compagnia per affrontarmi. E non sapeva quali potevano essere le frasi giuste per farmi superare tutto e quali azioni compiere per appianare tutto.

Così alzai le mie stanche membra e me ne andai, quando un attimo prima avevo risposto alla loro interrogazione dicendo che forse sarei stato ancora là. E non mi guardai indietro mentre mi allontanavo. Scappai come un ladro. Un ladro a cui era stato rubato il cuore e che aveva a sua volta rubato la serenità di una ragazza, che invero tanto serena non era mai stata.

Abulia

 


Avevo diciassette anni e il mio amico, sollecitato da un tale a esprimere un’opinione su di me, su come mi rapportassi con l’altro sesso, disse una cosa che non mi aspettavo e che mi fece molto riflettere. Che secondo lui io me ne sbattevo di tutto, e pure delle ragazze. E dunque non avrei mai davvero sofferto d’amore, come invece era capitato a lui. E mi invidiava per questo…

Rimasi allibito a scoprire l’immagine che aveva di me. Anche perché in quel periodo avevo il cuore che sanguinava per una. E non riuscivo ad arrestare l’emorragia. Dunque ero così bravo a dissimulare, pur non volendo? Ma io non è che fingessi: mi difendevo solo…

Delle volte sono sembrato e sembro freddo e indolente. O mansueto. Ma non sempre ciò corrisponde a quel che provo nel profondo. Delle volte la tensione mi ha attanagliato impedendomi di uscire allo scoperto. Altre volte è stata la timidezza a bloccarmi.

Spesso i miei atteggiamenti sono stati fraintesi e ho comunicato agli altri esattamente il contrario di quel che provavo. Così, quando sembravo disinteressato, in realtà ero fin troppo interessato, fino alla follia.