La ragazza dietro la porta


Giovedì è il giorno della settimana in cui vengono compiuti più tentativi di abboccamento. Perché venerdì è troppo tardi per combinare qualcosa. Giovedì i buoni ragazzi, come pure sopratutto i cattivi, inoltrano richieste di appuntamenti. E se sono cattivi lo fanno per poter turlupinare le povere malcapitate; se sono buoni invece no. Oggi è giovedì…

Mi dirigo per quegli usuali corridoi. Dentro ormai non c’è più nessuno. Non incontro nessuno. Si sono trasferiti tutti: tutti tranne lei. I pavimenti spogli, non lavati da mesi, me lo testimoniano. I bagni senza acqua che neppure più puzzano…

Un senso di solitudine e di abbandono mi pervade. Eppure io sono qui per lei. Questo è l’unico modo in cui posso comunicare con lei. È l’unico modo in cui lei mi ha permesso di comunicare con lei, nonostante le mie rimostranze e contrarietà, nonostante fossi anche riuscito a spingerla fuori dalla sua tana-nascondiglio una volta. C’ero quasi riuscito, ma poi che è successo? È andato tutto in malora e da allora è stato anche peggio di prima. E lei è tornata a oscurarsi alla mia vista, sempre di più. Sempre di più. Fino a giungere a questo momento… Il momento in cui cedo alla mia debolezza e la cerco nuovamente. Anche se non dovrei. Anche se sto cercando di sbarazzarmene (perché mi fa male). Anche se innumerevoli volte mi sono già giurato di non farlo più.

Eccomi finalmente davanti alla sua porta. È esattamente come le altre porte sprangate e abbandonate. Ma qui dietro c’è qualcuno, anche se non posso sentire alcun suono provenire da qui. Anche se non ho mai udito il suo respiro. Eppure sono certo che qualcuno sia stato qui dietro in passato, vigile, quando passavo a lasciavo lunghe lettere sotto la porta, e il mattino dopo trovavo un’altra lettera in risposta alla mia. Delle volte le sue lettere sembravano non c’entrare nulla con quello che le avevo scritto. E allora mi chiedevo se davvero quelle lettere fossero per me. Ma mi ingannavo. Quello era solo il suo modo enigmatico di comunicare. Il solo modo che lei conosceva e poteva permettersi. Perché dire le cose come stavano, per lei, sarebbe stato davvero troppo probante e impegnativo…

Busso. E lascio sotto la mia missiva. Stavolta è molto breve. Giusto per sapere come sta, che è un pensiero che mi ossessiona (e lei non lo capisce)…

Attendo… Attendo lì. La risposta delle volte è stata anche pressoché immediata. Attendo… L’ultima volta ci ha messo due o tre ore a rispondermi. E io mi dicevo: vedrai che stavolta davvero non ti risponde. Stavolta non ti parlerà più. Neppure buongiorno e buonasera, o buona sorte. Ma poi lei mi ha risposto con uno dei suoi messaggi ormai tipici. E mi ha tranquillizzato. Pacificandomi. E io mi sono allora detto: che stupido che sei! vedi che lei c’è sempre? lei non ti abbandonerà mai solo perché sono passati mesi dall’ultima volta che vi siete sentiti. lei non è e non sarà mai come gli altri, nel bene e nel male. lei non morirà mai…

Per questo attendo. Sento che la mia lettera a quest’ora debba averla già letta. Ma dato che non mi è facile accettare un suo rifiuto, allora penso: deve aver avuto un contrattempo. Forse sta male. Forse non ha tempo. Forse è partita per un viaggio… Forse…

È passato un giorno. Allora è vero. Lei non mi ha risposto… E io ancora qui a giustificarla: chissà cosa starà affrontando ultimamente la poverina, magari mi risponderà tra qualche giorno scusandosi del suo ritardo e io tornerò a dirmi che ho fatto male a dubitare di lei. E mi dirà che era in ospedale…

L’illusione dura circa tre giorni. Poi devo accettarlo. Stavolta non mi risponderà. Dunque è così che finisce, eh? Alla fine è andata come mi ero sempre creduto. D’altronde non era forse questo che volevo, liberarmi di lei? Già. Forse. Ma non in questo modo. Non con questo iter. Questo iter è sconsolante, vergognoso, ignominioso. Banale. Gretto. Sbagliato. Non è così che dovrebbero terminare i rapporti tra le persone, secondo me. Eppure ogni giorno terminano per lo più in questo modo nauseante, senza neppure dirsi le cose in faccia. Ma quando finisce qualcosa si devono dire per forza le cose in faccia?, mi sembra di ascoltare la sua critica al mio ragionamento. Certo che si devono dire, sennò è come sminuire tutto e tutti. È come dire che prima o poi tutti ti tradiranno, non è vero?

Dunque è così che è finita?, mi chiedo in strada stringendomi nel mio cappotto. Mi sbaglierò, ma oggi mi sembra più freddo, più freddo di ieri. Questo vento rigido da dove viene?

Allora sei stata tu a togliere la spina al polmone d’acciaio in cui era rinchiuso il nostro rapporto ormai, vero? Non era questo che volevo? Non era questo? Non sarà che non mi sta bene solo perché non l’ho deciso io? No, io non sono così superficiale ed egocentrico. Non io…

Beh, ancora una volta potrò vantarmi di non essere stato io ad abbandonare qualcuno. Nella mia vita, sono sempre stato lasciato. Questo è il mio record di cui andar fiero: mai colpevole, io. Io non ho mai abbandonato nessuno, al limite mi sono adattato a prendere atto dei cambiamenti delle situazioni, ma io non ho mai lasciato nessuno… Eppure con te sono stato tentato di farlo. Ma mi sarebbe dispiaciuto farlo proprio a te, che forse sei meglio di tante altre che ho incontrato, tante altre che hanno vissuto come si fossero sempre trovate in una giungla in cui vigeva la regola del predare prima d’esser predati…

Ecco, adesso è il momento di non pensarla più. E quando ancora mi verrà (perché ormai ho preso l’abitudine) di ripensare a lei, potrò dirmi: vedi? non ti ha risposto: dunque te la devi togliere dalla mente quella ragazza misteriosa piena zeppa di segreti e patimenti. Eppure in questo attimo finale mi chiedo quali siano gli ultimi pensieri che le abbiano attraversato la mente. Che cos’è che infine l’ha fatta decidere a comportarsi così, di darci un taglio, di spazzare via tutto quello che tra noi c’era stato, senza più avercelo sul cuore? Che cosa ha provato lei negli ultimi istanti prima della decisione? Questa decisione, in verità, l’aveva presa da tempo ma non l’aveva posta in essere solo perché non ne aveva avuto il coraggio? Tante volte ho pensato che questo momento sarebbe giunto… Fin dal principio, invero. Ma poi invece lei tornava sempre a palesarsi nella maniera che prediligeva, l’unica che mi donava…

Che cosa avrà provato negli ultimi istanti della nostra relazione? Mi ha odiato? Oppure le piangeva il cuore a prendere questa decisione che io non riuscivo ancora a prendere (perché non l’ho mai presa in vita mia)? Il suo è stato un atto di estrema magnanimità nei miei confronti oppure un gesto vile, segno di smaccata idiozia o permalosità? Non mi ha dato modo di saperlo. Ecco il suo marchio di fabbrica. Ambigua sempre, anche sul finale. Ci sarebbe da ridere a vedere le cose dall’esterno senza esserne coinvolti…

Ecco. È andata. Sento che è andata. Sono libero. Libero di tornare nel mio tugurio e viverci in solitudine fino alla fine dei miei giorni. Libero di rimpiangerla ogni giorno della mia vita. Libero di trovare un modo per disprezzarla. Libero di amarla per sempre nonostante la sua inadeguatezza…

Libero di ingiuriarla. Libero di amarne un’altra. Libero di cercarne un’altra. Libero di adorarla. Libero di trovare un modo per giustificarla. Libero di impazzire al suo costante pensiero. Libero di buttarmi via, senza lei che lo fa prima di me. Libero di riscrivere la nostra storia per come è stata (non per davvero). Libero di lasciarla scolorire languidamente, giorno dopo giorno, come un ricordo che col tempo si appanna sempre più e un giorno si trasformerà solo in una macchiolina colorata, o meglio stinta, sempre di più, sempre meno distinguibile. Libero di liberarla, da lei e da me, da lei e il suo ruolo con me, da lei e la sua maschera, quella maschera con cui si è sempre mostrata a me. Quella maschera che ora potrà finalmente gettare via e non indossare più. Per non esser più la misteriosa ragazza dietro la porta, senza volto, senza voce. Senza anima, senza corpo. Senza coscienza. Senza pensieri. Senza un’identità certa. Se una rinuncia a un’identità che si è scelta, che si era creata, che cosa rimane? Una maschera vuota. Con niente dietro. Lei è andata. È andata per vivere davvero, per affrontare il mondo per quella che è davvero, con i suoi pregi e i suoi difetti. Per riappropriarsi della sua vera identità. E questo ha comportato cassare tutto quello che era attinente con quella maschera e quella porta. Così, neppure lei deve più abitare dietro la porta di quell’edificio abbandonato. Ormai neppure lei è più lì. Quel posto è morto. E io sono stato l’ultimo vivo che ci è andato non capendo che ormai era diventato un santuario, un cimitero, con dentro mille storie di mille persone ormai andate. Persone che talvolta sono morti lì dentro. Persone che altre volte se ne sono andate per tempo e si sono salvate.

Domani l’edificio verrà abbattuto. Gli operai hanno detto che è completamente disabitato. Ma a me, a saperlo, è preso un fremito. E allora ho preso il braccio di uno di loro, di quello che avrebbe comandato la macchina con l’enorme palla di ferro e gli ho detto: ma ne siete proprio sicuri?!, avete controllato bene?! anche alla porta numero 23?! E il tipo, un po’ spaurito per la mia sparata, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto cercando di essere più chiaro possibile: certo che siamo sicuri, siamo entrati in ogni casa, abbiamo aperto ogni porta. anche quella della porta 23. e non abbiamo trovato nessuno. non c’era nessuno da nessuna parte, glielo assicuro. tutto l’edificio è abbandonato, completamente, da chissà quanto. neppure i topi ci sono più…

Me ne sono andato mentre metteva in azione la sua macchina di distruzione. Mi sono allontanato non volendo vedere. Non avrei resistito. Neppure i topi ci sono più…, mi rimbomba quella frase. Allora io che ci sono venuto a fare qua, quest’oggi? Perché ancora passo per queste vie facendo finta di capitare qui casualmente, facendo finta che questa strada sia uguale a un’altra, anche se non lo sarà mai, neppure dopo che avranno buttato giù tutto e sarà sorto un edificio del tutto nuovo?

Dove sarà andata la ragazza dietro la porta? La ragazza misteriosa che mi disse tutte quelle cose strane… Così strane da farmi accapponare la pelle. Così strane da sognarmela diverse volte la notte, nonostante non avessi mai visto il suo volto. Il suo volto… Ma è come se lo abbia visto. Sì, io in verità conosco, ho conosciuto le emozioni segrete che sono albergate nei suoi occhi. Dunque un giorno, teoricamente, forse sarei in grado di rintracciarla attraverso gli occhi di una ragazza incontrata casualmente per la strada… È così vero? Ah, ma lei non lo vorrebbe, non lo vorrebbe mai! Quello sarebbe il suo incubo più grande, se un giorno io dovessi riuscire a identificarla, non è vero ragazza dietro la porta? Così, se anche un giorno dovessi riuscire a sovvertire il fato, neppure quel giorno sarei libero di rivelare che l’ho ritrovata. Neppure allora potrei riabbracciarla e stringerla forte a me dicendole: quanto mi sei mancata…

 

Coppie: L’alunno e la maestra


Di solito parlava sempre lei, ed era pure difficile frammettersi nei suoi discorsi. Ma talvolta le prendeva la fisima di chiedersi, dopotutto, con chi si stesse intrattenendo: non è che stava facendo tutto lei? Allora si fermava e sperava fossi capace di tirar fuori un argomento che potesse attrarla. Sennonché, in genere, appena, cogliendo il suo segnale, mi lanciavo, già mi rendevo conto che non sarei stato in grado di discorrere per minuti interi come faceva lei; e non perché non fossi capace di portare avanti un argomento da solo, bensì perché poi lei mi guardava come le avessi detto delle cose insignificanti e allora mi affrettavo a terminare il discorso per non risultare noioso. Ma così facendo sembrava ancor di più che non fossi capace di parlare…

Poi venne quel giorno in cui mi servì su un piatto d’argento praticamente il mio “argomento a piacere”. E finalmente potei darle un saggio della potenza immane del mio vocabolario. Le parlai di quella cosa che mi piaceva molto e mi aveva assai coinvolto, e lei, per la prima volta, mi assecondò e fu con me molto più che acquiescente. Per la prima volta potei esprimermi senza remore e impedimenti di sorta, con lei che implicitamente mi incitava a dare il meglio di me e faceva di sì con la testa: con lei che si beava della mia non comune preparazione. Così giocai fino in fondo, sfoderandole anche un paio di termini desueti e molto eruditi i quali a dire il vero non ero certo al cento per cento che lei conoscesse…

Parlare con lei quel giorno fu come un esame. E alla fine la mia maestra mi assegnò quel dieci che aveva sempre sperato mi meritassi ma di cui ultimamente non era stata più tanto certa.

Con quell’impulso, la nostra relazione andò avanti per un altro po’. Fin quando lei si sarebbe fatta venire ben altri dubbi, ben più difficili da dissipare. E lì, alla fine, mi avrebbe bocciato. E io non avrei ripetuto l’esame. Avrei lasciato perdere, stufo di dimostrarle tutto quel valore che sentivo di avere ma che lei aveva sempre bisogno le ridimostrassi.

 

Andrea De Carlo: Giro di Vento


Quattro amici si recano assieme a un agente immobiliare a vedere delle casette in aperta campagna che forse vorrebbero acquistare. Solo che hanno un incidente e si ritrovano praticamente tagliati fuori dalla civiltà come la conosciamo noi, catapultati in un mondo ostile e del tutto inatteso in cui nulla è scontato e va quindi riesaminato.

La violenza è dietro l’angolo. Ma non è portata dalla natura selvaggia, bensì, al solito, dall’essere umano.

Per la prima volta (almeno rispetto i romanzi che ho letto di questo autore) Andrea De Carlo imbastisce una storia dovendo tener presente contemporaneamente la psicologia di molti personaggi (molto diversi tra loro). Il risultato che ottiene è superiore alle (mie) attese. E l’esperimento gli riesce.

La bambola e lo sbirro


Era una donna che non si poteva non notare, almeno per quelli che erano i miei gusti. Ferma nell’abitacolo, con le braccia pesantemente sul volante, con accanto un vecchio che poteva essere parimenti suo padre o suo marito. Pensai: che spreco che una donna del genere debba accompagnarsi con un tipo simile! Aveva un’espressione seria e fiera che la rendeva bella e implicitamente altera. Non resistetti e mi avvicinai.

Il vecchio mi avvistò per primo e le disse qualcosa a mezza bocca, forse che arrivavo. Lei allora diede una rapidissima occhiata laterale verso sinistra senza farsi accorgere. Poi, quando fui prossimo al finestrino, fece finta che si fosse accorta solo allora della mia presenza. E mi sorrise. Oh!, che bel sorriso che aveva! Uno di quelli educati e timidi: che pagheresti perché una donna del genere ti facesse almeno una volta al giorno. Se una donna del genere te lo avesse fatto una volta al giorno, non si sarebbe avuto bisogno di niente altro per tutta la giornata.

Il suo volto era deliziosamente inquadrettato da quella sua frangetta impudente eppur casta. Confesso che non ho mai resistito alla frangetta. Ci sono delle donne a cui dona moltissimo. Ci sono delle donne, come era questo il caso, che con una frangetta simile mi risultavano praticamente irresistibili.

«Salve, agente!», mi disse sorridendo con la sua frangetta sfrontata. Aveva una dentatura equilibrata senza imperfezioni, con denti robusti e grossi, capaci di staccare carne cruda con un morso, alla bisogna. Mi sciolsi subito in un sorriso anche io.

«Salve, signora… o signorina…», cercai di farmi dire se era ammogliata oppure no, ma lei si limitò a guardarmi compiaciuta come sembrasse realmente felice di vedermi. Dato che non parlava, andai avanti col discorso.

«Come va? Tutto okay? Ho notato che è ferma qui con la macchina da qualche minuto…»

«Ah, sì. È per colpa sua…», disse sorridendo accennando all’altro, il quale da allora prese il comando di quella conversazione, purtroppo, impedendomi di avere un rapporto diretto con lei.

«Devo andare in banca a prendere dei soldi, ma proprio non ricordo dove ho lasciato il libretto degli assegni…»

Non seguivo il suo discorso. Cioè gli detti un’occhiata per gentilezza, facendo finta che mi interessasse quel che diceva, ma tutta la mia attenzione era completamente focalizzata su di lei, sulla sua frangetta, sul suo sorriso del tipo: ehilà, dove sei stato nascosto per tutto questo tempo, bel poliziotto! Che a pensarci bene forse era più un: ehilà, come ho potuto essere nascosta alla tua vista per tutto questo tempo, io che sono una donna così spontanea, bella, piena di vita e voglia di vivere e accoppiarmi con dei bei poliziotti come te, bel poliziotto! Aveva una camicetta bianca molto leggera. Fui certo che non portasse il reggiseno, tuttavia non riuscii a individuarle traccia di areole o punte di capezzoli, a testimonianza che fossero probabilmente di quel tipo assai poco turgidi da rilassati, forse molto piccoli, sicuramente più tondi che spessi, almeno a riposo.

«Questo qui non ricorda mai dove mette le cose», mi fece il piacere di farmi ascoltare ancora la sua voce dopo che il vecchio si era profuso in un discorso assai noioso e un poco riottoso nei confronti della sua donna, che ancora non avevo capito se era la moglie o la figlia. A ogni modo era certo che fossero molto intimi, che intercorresse fra loro un rapporto assai familiare, stratificatosi per anni e anni. Ah!, che spreco!, pensai ancora immaginando che per tutti gli anni che si era dedicata a quel vecchio avrebbe potuto avere una piena storia d’amore con me! Quante cose avremmo potuto fare in tutto quel tempo!

«Io gliel’ho detto: ci vado io a prenderti i soldi, basta che mi fai la delega. Ma lui no. Lui per queste cose sembra sempre che non si fidi. Se le vuole fare lui…», aggiunse l’amazzone dell’amore che sedeva al volante sorridendomi con la sua dentatura perfetta e con quella frangetta che mi stava facendo impazzire.

«See! Il giorno che ti affiderò queste faccende, sarò bello che morto, bella mia!», ribatté il vecchio, «Perché vorrà dire che tu mi hai definitivamente messo i piedi sulla faccia e non me li toglierai più!»

Il vecchio brontolone poteva avere da una quindicina a una trentina di anni più di lei, che comunque era una donna matura, non propriamente di primo pelo, però di quelle che raggiungono il massimo della loro sensualità proprio a quell’età matura, mentre prima potrebbero apparire più vecchie di quanto non siano e quindi fornire di loro un’immagine in qualche modo non soddisfacente. Il vecchio indossava un classico completo grigio con pantaloni intonati alla giacca e aveva un bastone al seguito su cui si appoggiava come fosse uno scettro.

Non capivo come avesse potuto essere così burbero verso lei. Beh, fosse stato l’amante, avrebbe dovuto ringraziarla in eterno di essersi accompagnata con lui, di averglielo permesso, a lui che era un vecchio tisico che si vedeva aveva già un piede nella fossa. Stesso discorso se fosse stata la sua cara figliuola. Fai una figlia del genere e… come puoi non amarla? Come puoi non amare uno splendore del genere? Ma forse… quella sua scontrosità così accentuata mi fece immaginare che lei avesse potuto avere un lato nascosto, qualcosa che non emergeva, dal principio. Forse era una donna materialista, di quelle molto attaccate al denaro, e forse quell’accenno a esso non era stato affatto casuale come mi ero creduto dapprincipio. Forse lei era una di quelle donne che prima ti sorridono con quella frangettina da innocentine e poi ti pugnalano alle spalle appena ne hanno la possibilità. Ce ne sono di donne così, eccome. Ce ne sono molte più in giro di quanto non si creda. Forse è un modo che ha la natura per far sì che esse possano in qualche maniera difendersi dall’imperante maschilismo che le vede sempre più o meno soccombere, in questa società iniqua e sbilanciata verso chi tiene i pantaloni. Dunque forse era una donna traditrice, dovetti pensare in qualche anfratto celato del mio subconscio, senza accorgermene.

Ma ciò non mi spinse affatto a cedere dal desiderare di stare con lei. Infatti, se davvero era una traditrice, sarebbe stato molto meglio per me, perché non ci avrebbe messo molto a voltare le spalle a quel vecchio per un bel poliziotto come me, alto, robusto e biondo e pure con gli occhi azzurri che sembra uscito da una favola col principe azzurro. Di colpo mi fu lampante che quella era la donna per me e io l’uomo per lei. Insieme saremmo stati perfetti, avremmo trovato una tale armonia…, ne ero certo. Se solo avessi potuto avere più tempo per creare un legame e farglielo capire… Ma c’era quel vecchio che mi rompeva le scatole. Qualora non ci fosse stato, sono certo che quella donna stupenda che sembrava attendere solo me ci sarebbe sicuramente stata…

A quel punto non potevo più indugiare però. O le chiedevo i documenti (ma quel gesto sentivo che sarebbe stato interpretato in maniera molto negativa dalla coppia) oppure me ne dovevo tornare nella mia vettura ad ascoltare la radio in attesa di dover intervenire per qualche rissa o qualcuno che teneva la radio troppo alta. Così non mi restò che portare una mano al cappello e gettarle un saluto da cowboy che lei comprese al volo, sempre con quel suo sorriso splendido di denti perfetti. Mi disse con partecipazione mentre facevo per allontanarmi:

«Buona giornata!»

Ah! Il mio uccello mi diceva che ci sarebbe stata. Non si sorride a quel modo a un poliziotto solo per educazione. Le piacevo, e lei me l’aveva fatto capire indiscutibilmente. Beh, tornato dentro l’automobile, potevo comunque continuare a osservarla di sguincio sperando che lei facesse lo stesso. Mi venne in mente una cosa: se davvero quel vecchio doveva recarsi in banca, prima o poi avrebbe schiodato quel suo culo secco sbiancato da quel sedile e lei… sarebbe rimasta sola. Ma certo! A quel punto le avrei gettato altre occhiate infuocate da qui, e lei avrebbe potuto fare altrettanto. E qualora si fosse anche voltata verso me e avesse continuato con quei sorrisini invitanti, a quel punto avrei trovato una scusa per andarle a parlare, e senza il vecchio tra le palle! Ma sì, era questo che dovevo fare. Solo avere un po’ di pazienza. E in un battibaleno avrei capito che rapporto aveva col vecchio e se era davvero disposta a tradirlo. Forse le avrei strappato un appuntamento al volo…

Cinque minuti dopo che erano stati a confabulare nella loro auto con aria da freddi frequentatori ormai stanchi dello stesso sfinito letto, finalmente il vecchio aprì la portiera del passeggero dove era alloggiato, tirò fuori il bastone e si alzò in piedi per dirigersi lentamente, quasi claudicante, verso la banca che era lì davanti a due passi.

La guardai. Lei era consapevole di me. Eccome. Però non voleva guardare direttamente dalla mia parte. Adesso che era da sola, forse appariva leggermente nervosa, come avesse temuto che senza la protezione del vecchio davvero avrebbe dovuto decidere se starci o meno, cosa che le lasciava dei dubbi perché metter in piedi un tradimento presenta sempre dei dubbi e delle perplessità se non parti già con quell’idea. Capii che dovevo essere io, quindi, a darle il la.

Sceso dalla macchina, mi avvicinai ancora una volta alla sua autovettura. Lei ebbe uno scatto involontario, quasi come per un attimo avesse tremato. Fui ancora al suo finestrino con la mia ombra che la coprì. E lei ancora mi sorrise, togliendo un braccio dal volante per metterlo sopra lo sportello aperto in cui il finestrino era stato tirato tutto giù per via del caldo.

Caldo, come calda era lei. Notai la sua eccitabilità, anche se mi sorrideva come prima. Volli lasciarla un momento sulla graticola mentre lei mi fissava incerta su cosa le avrei detto. Poi infine esordii:

«Alla fine ce l’ha fatta ad andare in banca, eh?»

Immagino che dovette pensare che quella fosse una chiara allusione al fatto che adesso potevamo parlare da soli senza impicci. Quello le diede un’altra scossa quasi impercettibile che però io non mancai di cogliere. La ragazza capiva e si sentiva eccitata per il momento della nostra congiunzione, che ci sarebbe stato da lì a poco, ormai.

«Sì, ce l’ha fatta…», disse venendomi dietro.

Si ritrovò imprevedibilmente senza parole. Guardò l’orologio. Sorrideva ancora verso me, ma adesso avevo come l’impressione che quasi fossi di troppo, che qualcosa le impedisse di gettarsi completamente nelle mie braccia. Pensai che non avesse voluto farsi sorprendere dal vecchio. Che forse lui era un tipo molto geloso. E forse proprio di quello avevano discusso nell’abitacolo per quei cinque minuti con fare grave, troppo grave per una coppia che era uscita solo per fare un’escursione alla banca e prendere qualche soldo. Giustificai il suo impaccio. Fui certo che non si sarebbe più sbilanciata. Il suo atteggiamento si era fatto più chiuso. Cordiale ma chiuso. Di fronte al fatto compiuto che fossi tornato espressamente per parlare con lei, aveva scelto la fuga, poverina. Perché voleva evitare guai con quel vecchio, almeno per ora. Però si vedeva che, se non ci fosse stato lui, non ci avrebbe pensato due volte a gettarsi nelle mie braccia divertendosi anche molto con me. Saremmo stati una coppia perfetta, perfetta, se solo lei non avesse avuto l’impiccio di quel cazzo di vecchio.

Improvvisai. E anche se mi ero detto di non farlo in precedenza, pensai che quello fosse un buon modo per avere delle informazioni su di lei, in maniera poi da poterla rincontrare prima o poi, un giorno, quando il vecchio non sarebbe più stato tra le palle (prima o poi sarebbe pur dovuto succedere, no?).

«Mi fa vedere un documento, per favore?», le dissi cercando di essere più soave possibile.

Lei, sempre sorridendo, velò comunque la sua espressione: si fece dispiaciuta, come l’avessi quasi delusa.

«Certo… C’è per caso qualche problema, agente?», mi fece con una faccia dispiaciuta e un poco ferita.

La volli subito acquietare. Non potevo dirle che volevo solo sapere come si chiamava, il suo stato sociale, quanti anni aveva e dove abitava così da ricapitare dalle sue parti prima o poi, male che sarebbe andato. Tuttavia più probabilmente contavo sul fatto di dirle subito qualcosa sul luogo dove viveva. Del tipo: anche una mia zia abita là! E da lì speravo che la conversazione avrebbe preso una piega nella quale alla fine lei mi avrebbe invitato a passare da lei quando sarei stato in zona per recarmi dalla mia povera zia malata sulla sedia a rotelle (la balla era già pronta nella mia mente).

«È solo un controllo. Niente di che. Giusto per poter dire alla centrale che oggi ne ho fatto un tot. Succede ogni giorno. Non si preoccupi…», le dissi ancora sforzandomi di farle capire che non avevo nulla contro lei, al contrario, che se le chiedevo un documento era perché anzi mi piaceva molto.

«La patente va bene? O preferisce la carta d’identità?», apparve subito molto più sollevata ora. Pacificata direi. Rilassata, come se adesso non c’era più tanto da scegliere e le cose stavano andando come era preparata che andassero…

«É la stessa cosa, signorina. Signorina o signora? Prima non me l’ha detto…», riprovai a farmi dire se si scopava quel vecchio, il che mi avrebbe rammaricato molto, a dire il vero, perché non capivo come un bocconcino del genere potesse essere finita con quella vetusta nullità.

Lei armamentò con la borsetta a fiori. Sembrava non trovare il documento. Ma non si scompose. La tirò su, l’appoggiò sullo sportello con il vetro tirato giù, quasi come pretendesse un aiuto da parte mia (in tal caso io ero già pronto a darglielo). Eppure la mano che cercava il documento era completamente risucchiata da quella borsetta dalla quale ella non lasciava trapelare nulla, neppure uno sparuto rossetto appena comprato o una scatoletta con le mentine per l’alito.

Mi diede un’occhiata sorridendo come a dirmi: c’è un casino qui dentro ma troverò il documento per te, bel cowboy. Era tranquilla, adesso: tranquillissima. Aveva quella frangetta che mi faceva impazzire. Immaginai di toccarle la testa e carezzargliela magari mentre lei mi faceva… Ma esplose un colpo… Mi colpì in pieno… C’era una pistola nella borsetta, in quella borsetta che lei aveva così precisamente posto davanti a me, ma da cui non lasciava intuire nulla di quello che ci fosse dentro… Lei era una di quelle che tradisce, che ti frega. E io lo avevo saputo, ma non avevo voluto intenderlo. Allettato da quel sorriso e quella frangetta, avevo sperato che non mi avrebbe tradito. Agli altri sì, mentre a me no. Invece lei aveva tradito anche me…

 


I film di 007


C’è un mio amico che stravede per i film di 007 (e anche per Sean Conney). Invece io li detesto. Infatti, curiosamente, sono quasi tutti accomunabili in un certo filone che, indipendente dal regista e dagli attori, li rende estremamente simili tra loro, con gli stessi pregi (che io non vedo affatto) e gli stessi difetti.

Innanzitutto… lo vogliamo dire?… sono film sessisti in cui spessissimo le figure femminili assurgono solo funzioni sexy stereotipate (vedi pure stucchevoli sigle iniziali con forme di ragazze nude che si muovono a esclusivo beneficio degli spettatori maschi). Poi le trame… Vabbè che sono film d’avventura e d’azione, però in genere non c’è traccia della minima verosimiglianza. E sono così incoerenti che a guardarli mi procurano fastidio.

Recentemente ho provato a ridargli un’occhiata in tv, dato che rai3 sta passando questo ciclo. Ma non c’è stato verso: ogni volta ho dovuto abbandonarli per la scarsa qualità.

E dire che Ian Flaming, che è stato l’autore dei romanzi che li hanno ispirati, sembra sia stato davvero una spia. Ma è ovvio che le avventure che doveva vivere nel mondo reale erano molto diverse da quelle che fabbricava sulla carta stampata. E chissà, forse lo faceva apposta, come per ridicolizzare quel certo mondo degli 007, anche per fabbricarsi un alibi, perché se uno scrive di spionaggio non può certo essere davvero una spia, no?

Stai calmo


Ab Oif si appoggiò alla parete esterna dell’edificio come faticasse a stare in piedi. Era talmente pieno di tranquillanti e psicofarmaci… Nemesis uscì dall’edificio e con la coda dell’occhio avvertì la sua presenza. Anche Ab Oif lo vide e tra se e se si disse: stai calmo. quello è Nemesis. se volesse, potrebbe spazzarti via. ma io non voglio essere suo nemico. vedi come è forte Nemesis? forte e bello, vorrei essere come lui. chissà Nemesis le donne che ha… io invece, solo mamma. solo mamma Naro mi vuole bene. la mamma e le mie sorelle. ma loro non vogliono che io macchi la tavoletta del water o le coperte del letto con la mia piscia bianca. così mi fanno prendere le medicine. e da quando le prendo non me lo sento quasi più irrigidirsi. però, se davvero voglio, se mangio le patatine fritte piccanti e sto lì a sollecitarmelo con impegno, qualcosa posso ancora tirar fuori. ma non l’ho detto a nessuno, neppure alla dottoressa, sennò quella mi aumenta le medicine, o me ne dà di più cattive, come prima. così non potrei che dormire tutto il giorno essendo stanchissimo, e sognare sempre che sto per morire e che non ce la faccio neppure a camminare. in quel periodo sognavo sempre di essere alla spiaggia e di dover andare da mamma e papà. ma per raggiungerli facevo sempre un viaggio lunghissimo che non finiva mai. cioè delle volte succedeva che incidentalmente li incontravo in costume sulla spiaggia e allora erano loro a soccorrermi. però delle volte invece mi passavano vicino, mi salutavano, delle volte neppure si accorgevano di me, ma poi filavano diritti lasciandomi prostrato a terra con la sabbia che mi entrava dalla bocca e con i bambinetti che mi facevano il castello di sabbia sopra, e qualche volte prendevano a seppellirmi, tanto io non potevo più muovermi a quel punto, quindi era come essere seppelliti vivi, vivi…

Suo padre N’ Dnoa lo vide perso in una delle sue visioni a occhi aperti; allora gli disse di malumore:

«A cosa stai pensando, Ab Oif?!»

Ab Oif non gli rispose, però tornò per un attimo in sé. Allora rivide Nemesis che si era spostato di qualche metro. Ab Oif si avvicinò all’automobile e vi si appoggiò sopra perché altrimenti sentiva che le gambe avrebbero potuto cedere. Il padre lo guardò con la solita dose di disprezzo e di malanimo. Quel figlio handicappato lo colmava di vergogna: era la sua croce, perché tramite lui si sentiva debole. Poteva essere oltraggiato dalle voci delle malelingue. Ma anche da una dose eccessiva di patetismo, che lui non voleva gli venisse riversata, perché non si sentiva poi di dover essere gentile anche con la gente che odiava (e lui odiava quasi tutti)…

Ab Oif vide un cane passare al guinzaglio con il suo padrone e allora pensò: stai calmo… che bestia incredibile che è il cane. ma perché i cani esistono? e perché la gente se li tiene accanto? non capisco questa moda. a me i cani fanno paura perché hanno quella lunga bocca come di bestie feroci. sì, i cani mi ricordano le fiere dell’inferno e i diavoli con i denti acuminati. per questo mi fanno paura, ma devo rimanere calmo. ho sempre paura che possano impazzire e corrermi addosso per mordermi. non potrei mai difendermi in queste condizioni, con le gambe molli che ho. stai calmo… li immagino saltarmi addosso e cominciare a sbranarmi ancora vivo… oddio, sarebbe terribile stare lì, aspettando di morire, mentre quelli mi azzannano alla giugulare come Dracula e cominciano a masticarmi, masticarmi, masticarmi… stare lì a sentirli inghiottire, a sentirli che mi strappano la carne pezzo a pezzo con le loro mascelle da bestie puzzolenti con l’alito peggio del mio. e poi, mentre uno è lì che mi mangia il collo e poi passa ostilmente alla faccia e per primo agli occhi, ne verrebbe subito un altro che mi salta sulla pancia e comincia a mangiare da lì. si apre un varco ed è subito negli intestini e nello stomaco. che se poi ho mangiato leccornie lui lo sente eccome, lo sente!… se trova quei quintali di salsicce di cui è composto il mio intestino sarei davvero perso perché allora gli verrebbe così fame che non mi mollerebbe più neppure se papà venisse a prenderlo a calci. stai calmo… e poi verrebbero anche gli uccellacci neri, i corvi, che mi gracchiano ogni tanto quando mi vedono dall’alto. so che quelle bestie mi odiano anche se io non gli ho fatto niente. so che aspettano come avvoltoi che io cada, ma io, finché prenderò le medicine e farò tutto quello che mamma e papà e i bravi dottori mi diranno, io non morirò. anche se la fifa blu di morire ammazzato non mi passa lo stesso e ho sempre paura di… morire.

Nemesis prese per voltare l’angolo. In quel mentre osservò con la coda nell’occhio quel ragazzo negro, adiposo e alto, che era Ab Oif. Aspettava che lo venissero a prendere con il pulmino. Ogni giorno Ab Oif aspettava che lo venissero a prendere per farlo stare all’istituto. Poi la sera lo avrebbero riportato a casa perché Ab Oif preferiva dormire a casa sua. Quella cosa lo rendeva molto più tranquillo. Inoltre a casa aveva l’aria condizionata e poteva scoreggiare quando gli andava senza che altri si lamentassero della puzza. Quelle sue scoregge lunghissime e puzzolentissime che chissà da dove venivano… Glielo aveva chiesto anche, il padre, da dove gli venivano. E Ab Oif si era interrogato a lungo circa quella questione perché sembrava che il padre non le facesse mai, e neppure la madre, neppure al gabinetto. Una volta lo aveva chiesto alla mamma mentre lei era la gabinetto: ma mamma tu non le fai mai le scoregge lunghe, neppure la mattina al gabinetto? E la madre, cacciandolo fuori dal bagno semisvestita, gli aveva detto scocciata: ma che domande fai, Ab Oif?! io non lo so proprio cosa ti passa per la testa delle volte! Solo più tardi, a colazione, si era parzialmente scusata di averlo trattato così male e allora gli aveva detto che le scoregge le facevano un po’ tutti, anche se non si facevano notare, chi più chi meno. E allora il padre gli aveva suggerito di imparare anche lui a non farsi accorgere, o anche a trattenerle, quando era in pubblico, se non era sicuro di non farsi accorgere. Ma quando Ab Oif aveva provato a trattenerle era finita che il pancione gli aveva cominciato a fare così male che aveva cominciato a lamentarsi e alla fine era stato necessario portarlo all’ospedale dove gli avevano dato delle strane supposte e poi Ab Oif aveva dovuto chiudersi al gabinetto per ore a cagare e pure, finalmente, a scoreggiare come non gli accadeva da tempo. E da ultimo Ab Oif aveva richiesto alla mamma: ma allora le posso fare le scoregge, mamma? E la madre, commuovendosi, Ab Oif non capiva di cosa, gli aveva risposto: ma certo che le puoi fare, tesoro! d’ora in poi non trattenertele più, figlio mio! Poi Ab Oif beatamente si era messo a dormire e chissà perché aveva ripensato al pelo scarmigliato della patata della madre quando era entrato al cesso senza bussare e allora gli era tornato stranamente duro e allora, visto che quel giorno le medicine erano saltate e si sentiva più forte, aveva fatto quella cosa che tutti gli avevano detto di non fare, sennò poteva diventare cieco. E ci mancava solo che diventasse cieco. Ecco, quella era un’altra cosa di cui aveva il terrore: come avrebbe fatto a scampare i cani del demonio se poi un giorno fosse diventato davvero cieco? Non avrebbe più avuto speranza, pensava Ab Oif. Inoltre non avrebbe più potuto guardare la televisione per tutte quelle ore, e i quiz, e le ragazze che si divertivano, e la musica che si suonava, eccetera.

Una volante della polizia passò per la via e tutti si misero a guardarla. Ab Oif si disse di stare calmo. Pensò che forse stavano ricercando proprio lui. Allora provò un brivido al basso ventre, trattene una scoreggia e tentò di accartocciarsi più di quanto non fosse già sul cofano dell’auto per celare lo sguardo e la sua figura. Quando la volante fu scomparsa, Ab Oif si sentì subito meglio. Fu così felice che, dimenticandosi all’istante della paura di qualche secondo prima, disse a voce alta:

«La polizia sa sempre quello che fa. Ci si sente protetti…»

Il padre lo guardò stranito chiedendosi cosa volesse intendere, o meglio da chi avesse udito quella frase. Forse all’istituto, si disse, c’era qualcuno che l’aveva pronunciata e Ab Oif adesso l’aveva ripetuta come un pappagallo. Ab Oif pensò ancora a quella volante e in particolare alla vita avventurosa che doveva condurre un poliziotto. Si immaginò lui di indossare la divisa e andare in giro per la città a svolgere il suo mestiere. Si vide aiutare una donna a portare le buste della spesa (poi la donna divenne sua madre); si vide acciuffare un manigoldo colpevole di aver gettato una cartaccia per strada… Il bastardo lo aveva fatto appositamente in spregio dell’ordine e dell’autorità. Allora Ab Oif, mostrandosi accigliato, si era detto che non gliela poteva far passar liscia e doveva punirlo. Allora gli era corso dietro (nella visione, infatti, correva come un tempo non accusando alcun intralcio) e il manigoldo era stato presto beccato. E poi Ab Oif gli aveva messo le manette dicendogli: non lo fare più, canaglia! adesso ti porto alla centrale dove passerai la notte in gattabuia finché non ti sarai pentito! E quello era già lì che piangeva e che gli diceva che non lo avrebbe più fatto…

Stai calmo, si diceva sempre Ab Oif quando sentiva che si stava eccitando troppo, o che un pericolo incombesse dietro l’angolo. Nemesis se lo lasciò alle spalle con noncuranza.

DOT: Negatività

Mercoledì.

Vorrei tanto andare da Cristina e rivederla, però sono sfibrato fisicamente, ho il magone e un senso di tragedia si è abbattuto su di me. Sarà anche che penso a quel mio amico blogger che si operava lunedì. Temo che l’operazione sia stata infruttuosa… Nessuno crederebbe che una notte mi sono sognato che stava per morire in circostanze analoghe. Pochi giorno dopo, lui ha annunciato alla comunità web che era gravemente malato e che si doveva operare. Nel sogno andavo al suo funerale e incontravo gli altri blogger, che conoscevo solo tramite il loro pseudonimo non avendoli mai visti in faccia. Insomma, la storia finiva molto male…

Per questo ho anche un po’ paura a riconnettermi e vedere come è andata. Qualche notizia avrebbe potuto essere disponibile già ieri, però. Mi sento un vigliacco per non aver osato controllare…

Mi sento negativo: e penso che anche la storia con Cristina non avrà mai alcun compimento. Che sia inutile, quindi, che la stia tanto a pensare.