Altman: I compari

Sarebbe un western, ma comunque col tocco altamiano, nel senso che ci sono molti più personaggi del consueto – anche se i protagonisti veri forse sono solo due, l’imprenditore e la prostituta capa, i quali si amano segretamente non essendo capaci a confessarselo – e si fa in qualche maniera una specie di critica sociale, all’inizio ironica.

Un misterioso pistolero con un passato che non vuole si sappia troppo in giro arriva in un posto ancora piuttosto “vergine” con dei soldi da investire in loco. Finisce per acquistare al cinquanta percento il bar in paese e poi anche per aprire un bordello con delle prostitute fatte arrivare apposta da vari luoghi. La sua opera imprenditoriale effettivamente trasformerà il posto rendendolo più vivace.

Poi a un certo punto verranno dei signori di una importante compagnia mineraria i quali hanno come compito quello di acquisire tutti i terreni circostanti. Ma l’imprenditore – che, a proposito, è interpretato da Warren Beatty –, per tirare troppo sul prezzo, si procurerà dei nemici ben presto non più disposti a trattare. Qui il film cambierà bruscamente atmosfera – c’è proprio una scena, in cui un ragazzo viene ammazzato con un pretesto, che fa da spartiacque – e da lì in poi si capirà che le cose non andranno troppo bene e sicuramente qualcuno finirà per giocarsi la vita.

Il proscenio della sparatoria e poi della morte sulla neve è rimasto nella storia del cinema.

Campa cavallo che l’erba cresce

NINNINI: Videmus nunc per speculum et in aenigmate!

Ninnini era “simil-cattolico”. O meglio lo erano i suoi genitori; per cui gli toccò d’esser battezzato, da piccolo. Il prete, prendendosi una licenza piuttosto larga, quando si trattò di infondergli il primo sacramento, quasi lo fece morire affogato. Per fortuna non si giunse a tanto.

Più grandicello, Ninnini dovette andare in chiesa a seguire le messe. Ninnini si credeva molto buono: era certo che Dio avesse un debole per lui, al contrario degli altri bambini che gli sembravano assai pestiferi. Per questo, durante la vicenda di Ninnina, gli chiese ripetutamente il favore di fare in modo che la sua quasi-fidanzata venisse da lui, gli rivelasse che lo amava e lo implorasse in ginocchio di sposarlo porgendogli l’anello di matrimonio. Ma noi sapiamo che nella realtà questa cosa non andò mai nemmeno lontanamente in porto. Ciò indispettì molto Ninnini, che si ribellò all’autorità religiosa e a Dio in persona. E per un periodo pregò meno intensamente e marinò le messe, con la scusa che gli faceva male la pancia perché non riusciva ad andare al gabinetto – come vedremo tale scusa in alcuni casi aveva solide basi, ma non anticipiamo troppo i tempi sennò ci giochiamo tutta la suspense.

Nonostante il suo periodo di contestazione agnostica, Ninnini arrivò, proprio, come tutti gli altri bambini che conosceva, a prepararsi per ricevere il secondo sacramento, cioè quello della Comunione. Tramite esso capì che da quel momento non si scherzava più e le cose si facevano davvero serie!

Frequentò dunque dei corsi precomunionali. Dovette studiare pomeriggi interi il Vangelo e la Bibbia – non aveva mai capito perché i due libri non fossero riuniti in uno e basta, senza presentarsi in tutte quelle salse e variazioni di sorta che non facevano che confonderlo ancor di più. Andò a catechismo almeno due volte a settimana, al principio. Poi ci fu il periodo caldo, e addirittura per un po’ di tempo quasi dovette darsi malato a scuola perché non faceva che recarsi a lezione di religione dalla mattina alla sera, mentre cominciava a scordare il volto dei suoi parenti più stretti. E per fortuna che non lo obbligarono a dormire in chiesa sennò gli sarebbe sembrato di fare il militare a tutti gli effetti, viste le notevoli coercizioni a cui doveva sottostare!

In quei giorni di approfondimento della buona novella fece una vera e propria full immersion di santi, angeli, demoni, ma sopratutto di Gesù e dei suoi miracoli. Gli rimase molto impresso la moltiplicazione dei pani e dei pesci. In esso ci trovò una maniera efficace per sanare una volta per tutte l’annoso problema della fame del mondo. Dunque non ci si doveva preoccupare poi molto di quella faccenda, perché un giorno sarebbe tornato Gesù e avrebbe sistemato tutto a modo suo, pensava Ninnini.

Poi anche il miracolo della resurrezione di Lazzaro lo colpì molto. A catechismo c’era un bambino che si chiamava proprio Lazzaro al quale facevano sempre la battuta: Lazzaro, alzati e cammina! Delle volte lo sgambettavano apposta per potergliela dire…

Sennò certo gli era rimasta molto impressa tutta la tiritera che uno dei discepoli avrebbe tradito Gesù per tre volte consecutive, prima che il gallo cantasse. Ninnini sul principio non ci aveva creduto tanto. Così, mentre gli raccontavano la storia come evolveva, come si fosse trattato di un thriller che si rispetti, era stato tutto in tensione. Ma poi, sì, effettivamente andò come aveva pronosticato quel diavolo di Gesù – che non ne sbagliava mai una manco a farla apposta! Aveva sempre ragione lui! – e per tre volte, una dopo l’altra, venne rinnegato da uno dei suoi discepoli. Manco fossero stati tre diversi. No, fu sempre lo stesso…

Sulla vicenda dell’Apocalisse Ninnini dovette confessarsi di non averci capito molto. Aveva compreso solo che sul finale sarebbe successo un gran putiferio, uno di quelli davvero incasinati e brutti brutti che solo Dio avrebbe potuto sbrogliare; e per fortuna che poi effettivamente c’era il lieto fine perché ci sarebbe stato il Grande Giudizio e lui, Ninnini, sarebbe finito direttamente in Paradiso. Questo era poco ma certo, perché in confronto a tanti suoi amichetti lui era proprio un angioletto e, se avessero mandato all’Inferno lui, poi avrebbero dovuto mandarci il 99% dei bambini, come minimo. Era un po’ come a scuola con la bocciatura: per questo Ninnini era certo che lui non sarebbe mai stato bocciato, seppure in Scienze Biologiche zoppicasse, oltre che in Storia e Geografia, dove un paio di volte si era fatto beccare che neppure aveva aperto il libro. Si era rifatto però in Matematica, avendo imparato bene tutte le tabelline, e in Letteratura che, a dire il vero, lo stancava molto, ma in cui doveva ammettersi che era più bravo della maggior parte della gente, per quanto avesse una grafia a zampe di gallina che faceva davvero schifo la quale delle volte neppure lui stesso comprendeva…

Insomma, alla fine, in qualche maniera, Ninnini riuscì ad arrivare a questo benedetto secondo sacramento. Addirittura, un giorno, poco prima del lieto evento, gli presero le misure per fargli indossare una specie di tonaca da chierichetto la quale, a dire il vero, Ninnini trovava gli stesse molto bene. Per questo non lesinò di farsi fare molte fotografie il giorno della Prima Comunione, sentendosi all’ultima moda, con tutti che lo ammiravano per quanto era bello.

Noi e la Giulia

Quattro cazzoni/pistola/pirla molto diversi tra loro acquistano un vecchio rudere in campagna. Sognano di ristrutturarlo per poi aprirci un agriturismo. Sembra facile ma, fra i tanti problemi, anche solo la convivenza tra caratteri così diversi, si scontreranno contro niente meno che la mafia locale la quale vuole estorcere loro il pizzo…

Si ride di cuore nella prima parte di questo ennesimo bel film di Edoardo Leo come regista, il quale, evidentemente, è bravo nel proporre la sua comicità.

L’ho visto perché non sapevo che c’era argentario…

Lucky (film 2021)

Difficile definire questo film. Difficile esprimere pure un giudizio a caldo. La cosa migliore sarebbe rivederselo da capo, una volta ultimato; oppure rifletterci sopra.

Questo fa capire quanto, questo, sia un film particolare. Diciamo che la pellicola è abile a portarsi appresso una certa questione fino alla fine, fino all’ultimissima inquadratura. Tuttavia… la presunta “soluzione” – o anche “non soluzione” – della vicenda potrebbe lasciarvi più indispettiti che soddisfatti. Di certo vorrei conoscere i giudizi di altri su questa opera controversa, per un confronto.

Una notte un uomo mascherato fa irruzione nella casa di una coppia (che sta già per scoppiare per conto loro). Il compagno accoppa l’intruso il quale però poi letteralmente sparisce come non fosse mai esistito. Inoltre il compagno dice alla propria compagna che ogni sera quell’evento si ripete, ovvero quell’uomo misterioso tenta di ucciderla.

Difatti da quel momento l’uomo mascherato proverà innumerevoli volte ad assassinare la donna, la quale col passare del tempo si farà sempre più combattiva e meno timorosa di affrontare quella sfida mortale, meno disposta a chinare la testa. In seguito scoprirà che non è la sola a dover sopportare quella specie di maledizione/condanna. Fino a quando non riuscirà a togliere la maschera al suo aggressore…

La bravura del film è quella di tenervi incollati alla sedia, desiderosi di una spiegazione logica – anche fantastica, ma pur sempre logica! – alla vicenda. Però il finale andrà in tutt’altra direzione.

Secondo me questo è uno dei pochi film “metaforici” che abbia mai visto, a parte alcuni di Luis Buñuel

Il colore dell’odio

Dovevo recarmi in trasferta. Tutti lo sapevano. Un giorno venni al corrente però che, in merito, girasse anche un’altra voce: una volta andato, non sarei più tornato.

Il mio malessere in azienda era risaputo. Era noto quanto fossi sempre più intollerante nei confronti del vecchio boss canuto. Venuto a conoscenza di quella voce, a dire il vero mi sfiorò davvero l’idea di prendere al volo l’occasione e dileguarmi. Tuttavia ancora non avevo trovato un altro impiego. Per questo dovetti seguire la via assennata che mi consigliava di aver pazienza permanendo ancora un po’ in quel detestato luogo di tribolazione.

Ovviamente c’era anche un altro motivo che faceva sì che volessi andarmene: Miriam. Questo nessuno lo sapeva. Da poco io stesso me l’ero confessato con molta fatica. Perché fa male ammettere di amare una persona con la quale non vai sostanzialmente d’accordo; una persona che forse un tempo mi aveva amato anche lei, ma che ultimamente mostrava di non sopportarmi più e tentava di ignorarmi a oltranza. Fa male provare affetto per una persona che non solo non ti contraccambia ma in certi momenti ti fa capire quanto ti odi.

A ogni modo, venuto al corrente di quella diceria che volessi andarmene, scelsi di non far nulla. Non la rintuzzai. Non la confermai. La lascia indolentemente circolare. Pensai: non è un problema mio; inoltre, se è in grado di far venire qualche ulcera al vecchio despota, mi fa pure piacere.

Poi venne l’antivigilia del giorno della partenza. Come ogni tanto mi capitava, mi ritrovai nella stanza di Miriam ad armeggiare su un computer che avrebbe dovuto svolgere delle mansioni autonomamente, in mia assenza. La collega di Miriam volle stuzzicarmi.

«Allora te ne vai, eh? Dopodomani è il grande giorno…», disse civettuola.

Volevo tenerla a bada, non mi andava di parlare di quel viaggio: al solo pensarci, mi indisponevo. Ma mi resi conto che dovevo fornirle qualche contentino perché non aveva intenzione di lasciar cadere l’argomento. Così provai a parlarle con una faccia il più possibile svuotata di ogni entusiasmo e fui assai parco.

«Sì…», le risposi.

«E ti piace fare queste trasferte di lavoro?», rinfocolò lei.

«A dire il vero è più il fastidio degli spostamenti che altro… Essendo io un tipo abitudinario…»

«Però ti pagano bei dindi…», fece il verso quasi scurrile del denaro con le dita della mano.

«Mah… Fosse per me, me li risparmierei. Non è che mi interessino troppo i soldi. Ci sono cose più importanti…», mi tradii sul finale rendendomi conto troppo tardi che le avevo fornito un assist su tutto un mondo nuovo che le si era spalancato davanti che solo chiedeva di esser sviscerato.

«Ah sì? E cosa? Dimmi, dimmi! Forse tu pensi al tipo di lavoro… Ti piace stare qui?», disse infine con un sorriso falso che mi diede la nausea.

«Mmm… Beh, ci sono pro e contro, come ovunque… Scusa ma adesso mi devo concentrare qui…», tagliai corto per togliermela di torno. E lei capì così bene l’antifona che, soddisfatta, e forse con la voglia matta di andare a spifferare subito quel poco avvenuto tra noi ad altri colleghi, si alzò per recarsi ufficialmente al bagno.

Così rimanemmo soli io e Miriam. Eventualità, quella, che avrei preferito evitare.

Mi abbrancò subito una gran tristezza. Lei era lì che faceva le sue cosette. Con un orecchio aveva ascoltato bene il discorso avvenuto tra me e la sua compagna di stanza ma non aveva osato intromettersi. Anche se, a dire il vero, il suo atteggiamento – di quello non potevo esser certo perché lei era un’attrice consumata; inoltre esso poteva cambiare anche molto quando erano presenti altre persone oltre noi – da quando ero entrato nella stanza non mi era parso così duro e inscalfibile, così ferocemente orgoglioso come negli ultimi tempi. Sembrava a dire il vero che sotto sotto patisse un qualche pensiero. La conoscevo bene e sapevo che poteva essere davvero così, anche se forse ciò che la angustiava poteva esser una gran sciocchezza, perché lei poteva preoccuparsi anche di immani cazzate attribuendo loro un peso del tutto sproporzionato.

Ovviamente non avevo intenzione di interrompere il silenzio tra noi. A quale pro, visto l’estrema difficoltà dei nostri rapporti? Così me ne stavo lì a scrivere sulla tastiera e ormai non mi mancava molto per potermene tornare nella mia stanza-rifugio con Belosh, che certo in quell’ambiente era la compagnia migliore che mai avessi potuto trovare.

Fu allora che Miriam, potei quasi vederla anche se avevo gli occhi sullo schermo del computer, tirò su la testa timidamente e, con un velo di tristezza negli occhi e pure nella voce, mi chiese:

«…Eri tu che mi dicevi che il viola è il tuo colore preferito?»

La balzana domanda mi spiazzò totalmente. Così rimasi alcuni secondi interdetto prima di risponderle, mentre smisi di scrivere al computer.

«Beh… Effettivamente sì…»

Avessimo potuto usufruire di una conversazione normale in quel periodo, le avrei sicuramente chiesto perché me lo chiedeva. Ma non avendo avuto la forza di ottenere indietro una sua ennesima eventuale cattiveria, non aggiunsi altro. Così fu lei ad aggregare giusto poche parole…

«A dire il vero anche a me piace molto. Ho anche dei bei abitini viola che ho comprato l’anno scorso, ma qui non li metto perché… il capo è superstizioso. Si narra che una volta abbia quasi licenziato una perché si era presentata con una blusa viola…»

La conversazione terminò lì. E mi lasciò basito. Non capivo il perché di quel discorso. Doveva pur esserci, ma nessuno dei due si sentì di far niente per portare alla luce ciò che in quel frangente appariva oltremodo oscuro. Poco dopo me ne tornai nella mia stanza. E non vidi più Miriam.

Il giorno seguente, per email, prese corpo la possibilità di non effettuare più il viaggio. Se fossi riuscito a fare il lavoro da remoto potevo anche non partire. Quell’eventualità mi rese abbastanza contento. Ne parlai col capo. Non gli mostrai che avrei preferito quell’opzione; così, quando lui mi chiese cosa preferivo fare, gli dissi con tono monocorde che per me andava bene tutto. Lui, immaginando un mio fastidio a cambiar programma e considerando che così avrebbe risparmiato quei per lui pochi euro, mi concesse l’autorizzazione a lavorare con quell’intento così da evitare il viaggio del giorno dopo.

Dunque tutto il dì mi occupai alacremente di quella questione. Doveva essere perfetta. Avrebbe dovuto funzionare tutto a meraviglia sennò mi sarebbe toccato di partire ugualmente. Giunti a sera mi resi conto che la mia accuratezza mi aveva fatto fare un po’ più tardi del previsto. L’ufficio cominciò a svuotarsi. Anche Belosh, che si offrì di farmi compagnia solo per non lasciarmi solo, se ne andò dopo che gli dissi che mi mancavano ormai pochi minuti e preferivo star solo.

Quando infine credevo non fosse rimasto più nessuno in azienda, compreso il capo, sentii bussare tenuemente alla porta. Venni scosso da un brivido. Non sapevo chi poteva essere, eppure nel mio animo era come sapessi già chi sarebbe apparso da quella porta.

Dissi avanti e la porta mi dischiuse una visione quasi psichedelica. Era Miriam con in volto un’espressione estremamente garbata, tornata nuovamente gentile con me, per un qualche incomprensibile evento eccezionale. Ma la cosa più stramba di tutte era rappresentata dal suo vestiario, completamente viola. Indossava pantaloni viola attillati che le disegnavano perfettamente i conturbanti fianchi, un maglioncino viola che doveva essere di un pregio ricercato. Inoltre, incredibilmente, anche il fard sui suoi occhi quel giorno, per la prima volta da quando la conoscevo, era viola.

Osservando il mio stupore mi disse con la sua voce da angioletta:

«Volevo salutarti… prima che tu parta.»

Poi non disse più nulla. Io pure non sapevo cosa dire. Eppure il nostro silenzio non era imbarazzato. La guardai negli occhi. Non potei più staccarglieli di dosso. Pure lei sembrava non intenzionata a mollare i miei.

«Ciao, Ariel», disse commossa con una voce ancora più tenue di prima mentre si richiudeva la porta alle spalle e forse dai suoi occhi stavano per affiorare delle lacrime.

Per cinque minuti il mio cervello andò in tilt e non capii più niente – per fortuna il lavoro era praticamente finito e mi erano rimasti da fare solo tre o quattro click col mouse in totale.

Quella sua venuta mi stravolse. Me ne tornai a casa corrucciato, imbambolato, con una strana voglia-timore di incontrarla da qualche parte, per la strada. Per tutta la notte continuai a pensare a quanto mi aveva fatto male quel saluto e al perché potesse esser giunto.

Il giorno dopo, in una fresca mattinata, si diradò la nebbia nella mia testa. Tutto mi apparve chiaro, perfino ovvio. Miriam non sapeva – perché lo avevano potuto sapere davvero in pochi – che probabilmente non sarei più partito. Dunque, attribuendo, come altri, a quel viaggio la concreta possibilità di non vedermi più… aveva avuto la pensata di vestirsi completamente di viola, per me, sfidando la sorte col capo, pur di donarmi un ultimo saluto d’addio che solo io fra tutti avrei compreso. Pur di dimostrami forse anche dell’altro…

Erano questi gli atteggiamenti in lei che mi lasciavano esterrefatto. Questa sua assurda generosità che affiorava subentrando alla sua cruda intransigenza. Queste cose che mi scombinavano da capo a piedi costringendomi a interrogarmi ancora e ancora, senza mai poter giunger a una conclusione certa, se lei avesse potuto amarmi sul serio un giorno, oppure no.

Quando mi presentai normalmente a lavoro, di buonora, feci subito una capatina nella stanza di Miriam. Come previsto lei si mostrò oltremodo sorpresa di rivedermi.

«Ah, oggi non ti sei vestita di viola, eh? E come mai?», le dissi come avessi smascherato totalmente il suo gioco segreto e adesso avessi voluto prenderla in giro per essersi lasciata andare a una tale esagerata premura verso me.

Al che lei rispose dapprima «…Ma tu non dovevi esser partito?!», per poi immediatamente, notando un sorriso sardonico apparire sulla mia faccia, stizzita, dirmi: «Mica mi voglio far licenziare solo perché a te… cioè a me piace il viola!»

Al che sprofondò lo sguardo nel computer, finse di avere da fare e si chiuse nel mutismo tipico di chi è stata colta in castagna ma non vuol dare la soddisfazione agli altri di ammetterlo. Così riprese immediatamente a odiarmi come prima.

Cartoni irrinunciabili: Jenny la tennista!

Un cartone che comprende sia tematiche sentimentali che sportive e che all’epoca rappresentò decisamente una novità fu senz’altro Jenny la tennista.

Si parla di questa giovane ragazza, molto insicura, che giocherebbe a tennis praticamente solo per hobby. Ammira molto la tecnica di un’altra tennista bella e bionda facente parte del suo circolo, Madame Butterfly, da tutti amata e rispettata per l’eleganza e l’efficacia del suo gioco. Jenny teme il serissimo e poco loquace allenatore del circolo il quale però incredibilmente la punta e insiste per spronarla a dare il meglio di sé. Il furbone ha l’occhio lungo e ha intravisto in lei delle potenzialità da campionessa…

La storia va avanti così, tra le crisi esistenziali di Jenny, gli allenamenti duri, i primi amori adolescenziali, l’invidia e la competizione spietata tra tenniste e la scalata alle classifiche…

American Horror Story: Roanoke – LA SESTA STAGIONE

Tra tutte le stagioni viste, probabilmente la più deludente, per quello che poteva interessare me. Spesso faticavo a non addormentarmi durante la visione di una puntata…

Stavolta i tagli che hanno voluto dare sono stati due. Nel primo troncone hanno preso una piega tipo serie americane che raccontano di omicidi – come quelle che passano sul 9, per intenderci. Nel secondo hanno scimmiottato i reality, ovviamente condendo tutto con tensione, morti ammazzati e fenomeni paranormali. I quali hanno come epicentro una misteriosa casa nei boschi; boschi tra l’altro infestati anch’essi da fantasmi-entità sanguinose accumulatesi strato su strato durante il corso dei secoli.

La serie mi è sembrata più raffazzonata del solito. Da par mio credo sia rimasto inevaso quello che poteva esser il punto più importante: ovvero approfondire ulteriormente chi cappero fosse quella strega che poi sembrava essere il capo di tutto il carrozzone… Mentre, per fortuna, almeno, il finale, al solito, è stato bello e ha riservato sorprese. 3:-)

Convivenza #26

Una notte siete a letto. Ti giri per cambiar posizione. Involontariamente la urti. Lei si sveglia immediatamente e ti dice una certa parola. La quale però trovi non c’entri nulla con te, così ti senti di puntualizzare: ce l’hai con me?

Lei risponde: no.

Allora con chi?, rinfocoli.

È complicato da spiegare, afferma tra la veglia e l’incoscienza.

Allora me la dici domani, fai il pragmatico.

Domani me ne sarò scordata, profetizza lei.

Vabbè, allora dormiamo, meglio se dormiamo…, poni fine alla questione, perché sai che lei ci tiene a dormire il più possibile senza disturbi di sorta. Lei sembra però ci rimanga un po’ male. A ogni modo si riaddormenta subito, come da sua caratteristica.

L’indomani, al mattino, appena vi svegliate le racconti l’aneddoto avvenuto la notte prima. Ovviamente lei non si ricorda nulla. Ti chiede quale parola avesse originato tutto ciò. Ma quello non te lo ricordi più tu.

Ronf!

Altman: Un matrimonio

Classica commedia anni Ottanta, corale, come poteva realizzarla Altman, con un mucchio di personaggi, che sembra voler prendere per il culo l’essere umano e tutte le sue assurde prese di posizione. Si narra del giorno del matrimonio di due giovani, provenienti da famiglie molto diverse tra loro. Uno dei fatti salienti su cui ruota la prima parte del film è la morte di una vecchia matriarca, che in un primo momento viene sottaciuta a tutti per non rovinare la festa… Nel finale ci saranno un altro paio di morti a sorpresa, affiorerà molta più malinconia, ma in fondo non troppa.

Una curiosità: tra gli attori chiamati a interpretare due ruoli da italiani ci sono nientemeno che Gassman padre e Gigi Proietti, che sembrano teletrasportati direttamente da commedie italiane di quegli anni. Proietti proprio da Febbre da cavallo, per quanto è caricaturale. Devo pensare che Altman li avesse visti all’opera in film precedenti ed, essendo rimasto parecchio impressionato, abbia chiesto loro di rifare grossomodo quei personaggi… 😉