. L’amara lezione
Un pomeriggio io e R.T. ci eravamo appartati in un’aula deserta della scuola per fare dei disegni che ci vedevano assai partecipi. Io mi dedicavo ai personaggi e lui agli sfondi. Il nostro palese intento era quello di ricopiare gli eroi dei cartoni animati. In verità non era la prima volta che ci ritagliavamo uno spazio simile, tra un gioco e l’altro, tra il fare i compiti assieme durante i pomeriggi del doposcuola.
Ma quel giorno avemmo una bruttissima sorpresa. All’improvviso vedemmo entrare nella stanza L.C. assieme a un altro ragazzo del nostro gruppetto esclusivo (il quale quel giorno indossava un cappellino che lo faceva sentire un gran giamburrasca fico), oltre che il bullo che le suonava a tutti nella classe, con cui L.C. aveva finito per affiliarsi non avendo potuto fare di meglio.
Erano venuti apposta per menare le mani, lo capii subito dal loro modo di fare autoritario. Ciò mi spaventò a morte, perché ai tempi ero molto sensibile e pauroso e la violenza mi paralizzava sconvolgendomi. A ogni modo scoprii presto che non erano lì tanto per me, che in definitiva piacevo a tutti e si poteva dire non avessi nemici. Erano lì per R.T. Non mi ci volle molto anche per comprendere che esso non aveva alcuno scampo. Si erano messi in testa di punirlo per alcuni suoi atteggiamenti. Tutti e tre infatti nutrivano nei suoi riguardi delle acredini più o meno marcate, e in taluni casi c’ero di mezzo io, o meglio la gelosia per il rapporto che intrattenevo con lui a discapito loro.
Così lo attaccarono con delle scuse puerili che rappresentavano meri pretesti. Fu il bulletto il primo ad alzare le mani dando l’esempio. E R.T., vedendosi perso, si mise subito a piangere. Poi anche gli altri due non rinunciarono ad assestargli la sua sanzione, che si materializzò in un paio di schiaffi. Quando toccò a L.C., lui si manifestò molto più cattivo degli altri e, anche se il colpo che gli assestò fu solo uno, non si poté dire che non fosse proprio sentito.
Il bulletto, abituato a ben altre battaglie a perdifiato nelle strade selvagge del rione popolare in cui viveva e imperversava, di fronte alle subitanee lacrime inconsolabili di R.T., non poté che perder presto interesse per lui canzonandolo per la sua codardia mentre già gli voltava le spalle andandosene. Sicuramente non si era aspettato molta opposizione, però così non c’era gusto per lui, tanto più che al suo fianco, per una volta, insolitamente, aveva potuto contare sul supporto di altri due bambini scudieri agguerriti che gli facevano da guardia-spalle, a lui che tra l’altro si sarebbe gettato in una rissa anche contro cento persone pur di non fare la parte del vigliacco.
Così i tre se ne andarono alla chetichella; ma non prima che L.C. mi avvertisse dicendomi chiaro e tondo come stavano le cose. Se avessi continuato a frequentare R.T., anche io avrei potuto fare una brutta fine prima o poi. Quella frase mi fece molta paura.
Mentre tentavo inutilmente d’esser di conforto a R.T., esso era perfettamente consapevole che non potevo dargliene in nessuna maniera, di conforto o aiuto. Perché anche io ero debole esattamente come lui. Perfino di più, come vedremo.
Oggi, a rievocare quell’amara punizione, penso: dunque quei tre ragazzini si erano messi d’accordo per menare espressamente le mani. Ma come era stato possibile tutto ciò? Che si erano detti: adesso andiamo lì e lo picchiamo? E da dove e da chi era partita quella violenza? Come avevano potuto, quei tre, così diversi tra loro, aver trovato un comune accordo su quella cosa così aberrante e malvagia? Che si erano detti per, infine, avallare tutto ciò?!
Non lo scoprirò mai. Erano solo bambini. Ma si erano comportati da gangster.
