Un giorno Nemesis se ne navigava placidamente sulla rete, quando ad un tratto una pubblicità allettante catturò il suo occhio. Era la réclame di un editore letterario che affermava di cercare versi originali per una prossima pubblicazione di inediti di scrittori sconosciuti.
Nemesis si ricordò di quella poesia, alla quale era molto legato, che poi era stata la prima poesia che si era azzardato a comporre nel suo periodo blu, quando, pur non covando aspirazioni da vate, aveva dedicato molto del suo tempo al tentativo di incanalare nei versi le decantazioni delle sue emozioni…
Ed invero Nemesis riteneva che quella sua prima poesia (che era stata quasi una dichiarazione di intenti per tutta la sua esistenza, e che lui non sapeva quanto fosse permeata su di sé molto più di quanto non immaginasse) gli fosse venuta molto bene e reggesse anche al trascorrere del tempo; cioè quando gli era capitato di rileggersela in tranquillità a casa sua, sul sofà, in ogni occasione che lo fece la trovò sempre attuale, ben scritta, satura di indubbi significati pregnanti. Insomma era proprio una bella poesia, anche se era stata la prima, e quindi avrebbe forse dovuto essere acerba rispetto a tutte quelle (e furono molte) che vennero dopo. Ma no, la poesia reggeva benissimo il confronto con le altre, anche con quelle nelle quali Nemesis infuse tutta l’esperienza e la maestria che nel frattempo aveva accumulato.
Non a caso, quella toccante poesia, Nemesis l’aveva poi imparata a memoria e ogni tanto gli piaceva recitarsela, riassaporandone l’aroma nell’anima. E fu per questo motivo che Nemesis commise quell’errore e, senza pensarci troppo, si iscrisse alla selezione dei nuovi talenti, alla quale partecipò proprio con quella poesia alla quale era assai affezionato.
E quando quelli gli dissero che erano interessati alla sua poesia e che gli doveva concedere tutte le autorizzazioni su di essa (in compenso però loro lo avrebbero citato senz’altro con il suo nome, in modo che lui ne avrebbe ricavato indubbia fama), Nemesis non pensò minimamente a quello che faceva e, forse subdolamente lusingato dall’implicita proposta di successo, gliela cedette. Sì, gliela cedette per un prezzo assolutamente irrisorio: un commerciale, caduco desiderio di successo, cioè il nulla più assoluto!
Solo più tardi Nemesis si accorse del suo grave fallo. Ma ormai la frittata era fatta. La poesia era stata pubblicata e lui aveva firmato tutte le autorizzazioni che prevedevano che loro avessero tutti i diritti sulla stessa e che lui non potesse esigere alcunché. Il bieco editore gli propose poi subito l’acquisto del libro che contena la sua poesia ad un prezzo che gli dichiarò assai esiguo, poiché scontato del cinquanta per cento. Era un’occasione, quella, che non doveva lasciarsi sfuggire, a detta loro.
Ma Nemesis, giunto a quel punto, aveva del tutto stanato il loro raggiro e, se pure una volta era stato avventato, questo non significava che era quell’allocco che loro si credevano (il quale, per appagare il proprio ego, sarebbe stato disposto a dispensare una bella somma di denaro).
Così Nemesis fece decadere il diritto di opzione per aderire a quella vantaggiosissima offerta e, quando ricevette l’ennesima loro incalzante sollecitazione a sottoscrivere, rispose loro di non farsi più vivi e che non li aveva mai autorizzati a rompergli l’anima fin quando non avesse effettuato quell’acquisto che loro pretestuosamente gli caldeggiavano ripetutamente. E almeno se li tolse dalle scatole…
Ad ogni modo Nemesis, non avendo acquistato il libro, volette vigilare che davvero la sua poesia fosse stata acclusa nella raccolta. Dunque un giorno entrò in una grande libreria molto fornita e chiese di visionare il tomo in questione.
L’impiegato che lo servì non sembrò per nulla meravigliato della sua richiesta e ciò gli fece intuire che non fosse il primo che quel dì gliela avesse posta. Il commesso lo accompagnò praticamente nel retro del negozio, dove si tenevano le scorte, o gli articoli in attesa di collocazione, o anche i prodotti che non sarebbero forse mai stati dislocati in siti maggiormente in vista (come sarebbe stato il caso del libro di poesie).
Nemesis osservò uscire da quel ripostiglio due persone che dovevano essere i clienti che prima di lui avevano inoltrato la medesima richiesta. Erano un uomo e una donna che pareva che non si conoscessero.
La donna era una vecchia conoscenza di Nemesis: la sua ex amica Rose… Nemesis ne rinvangò il ricordo di quando entrambi lavoravano all’agenzia di pulizie… Ricordò che Rose gli avesse rivelato di scrivere anch’essa poesie… Ricordò che lui si era invaghito di lei per un periodo, e per quello le aveva dedicato una bella poesia che però non trovò il modo di consegnarle prima che i loro rapporti si rompessero bruscamente.
Rose appariva molto diversa da allora. Non gli sembrava più quella donna intelligente e sensuale che allora aveva creduto. Gli pareva essere diventata una donna ordinaria, con propensioni alla casalinghitudine. Una donna priva di ogni grazia.
Infatti, quando lei gli passò accanto con gli occhi sul pavimento, dapprima lui quasi non la riconobbe, e quando invece lo fece non ebbe alcun rimpianto di essersela persa per strada (d’altronde era stata lei che lo aveva depennato dalla sua vita e non il contrario). Anche Rose forse lo riconobbe, ma non tradì in nulla la sua espressione assorta e pensosa con un’inclinazione alla malinconia e fece finta di non riconoscerlo.
L’altro uomo che la seguiva verso l’uscita invece era un tipo un po’ pingue che sembrava un bambolotto gigante. Era una di quelle persone che ad ogni età avrebbero conservato sempre una sostanziale patina di fanciullezza. Il tipo sembrava un bamboccione buono, un po’ tardo forse, ma del tutto impossibilitato a fare del male ad alcuno. Anche lui era sul malinconico… Chissà che tipo di poesie avranno scritto quei due, pensò Nemesis tra sé.
Nemesis sfogliò il libro. Era un volume anonimo, con una copertina color fumo di Londra. Scorse l’indice degli autori ma non si trovò. Allora, allarmato e lievemente alterato, diede un’occhiata all’indice delle poesie. E lì effettivamente rintracciò la sua cara poesia. Saltò alla pagina in questione e la lesse tutta ricavandone una morigerata gioia e un po’ di rilassatezza. Era la sua, non vi era dubbio, e non era stata cambiata neppure una virgola. Il problema però, scoprì, era che fosse stata attribuita ad un certo “Nessim”.
Ci rifletté su qualche istante e poi capì: qualcuno aveva deformato Nemesis in Nessim. Tale pensiero gli procurò fastidio. Avrebbe dovuto andare a lagnarsi dalla casa editrice e far valere le sue ragioni di autore… Ma già sapeva cosa gli avrebbero risposto: che ormai la stampa era stata fatta e che non se ne sarebbe parlato di cambiare niente fino alla prossima ristampa (che però non ci sarebbe mai stata); inoltre, utilizzando scanner vari, per loro sarebbe stato facile falsificare il documento in loro possesso (con la firma di Nemesis) e far credere che davvero lui si fosse firmato con quello pseudonimo. E se anche lui li avesse trascinati in tribunale, in una causa che poteva essere lunga anni, la quale lo avrebbe svenato sia nel portafoglio che nell’anima, ci sarebbe stato infine pure il caso che poi quella causa l’avesse persa (condannato a pagare le cospicue spese processuali e quant’altro)…
Quindi Nemesis decise di sorvolare. Ringraziò cortesemente l’annoiato commesso (che si era infilato un dito nel naso) e ripose il libro sullo scaffale, uscendo dalla libreria anch’egli come Rose e quell’altro prima di lui.
In strada pensò ancora a quanto era stato stupido a vendere la sua poesia più amata ad un’azienda di avvoltoi. Ma ormai era fatta. Nemesis non ci poteva più fare nulla.
Nemesis poteva però ancora recitarsela. Quello nessuno avrebbe potuto toglierglielo. Così, per l’ultima volta nella sua vita, se la declamò… E parlò ancora di un destino ferale che serbava la follia a chi avrebbe voluto capire la vera natura delle cose… Perché la verità era come la luce e, se la si guardava troppo fissamente, procurava una consapevolezza-pazzia di cecità… E dunque, diceva Nemesis nella poesia, per diventare più saggi non restava che guardare, sì, la luce, ma socchiudendo gli occhi, per poi riaprirli piano piano; così, lentamente, si sarebbe diventati più coscienti… Tuttavia, più ci si sarebbe spinti su quell’eccelso percorso, e più però si sarebbe diventati ciechi-pazzi… Così la vera verità non poteva che portare a non essere acclusa sul serio, poiché essa, forse, non era nelle possibilità dell’essere umano di essere intesa.