Da allora iniziò il mio incubo. Non riuscimmo a far ricoverare Martina. Poiché avevo un ascendente notevole su lei andai spesso con loro per favorirne gli spostamenti. Assistetti alle scene dei medici che la interrogavano. Martina con loro appariva perfettamente sana e tranquilla (forse perché aveva imparato a comportarsi a quella maniera in presenza di camici bianchi). Poi la conversazione scivolava sempre sul punto focale, e loro le chiedevano perché non voleva stare con suo marito e voleva stare con me. Ma Martina rispondeva loro con un tale piglio e una tale convinzione che sembrava che davvero volesse quello che affermasse.
«Non sono forse libera di amare chi voglio?!», diceva lei arrogante a quei medici che alzavano le braccia e infine ci dicevano che non potevano stare a sindacare sulle scelte amorose di una donna.
Smettemmo di sperare di ricoverarla. A quel punto, avendo esaurito la mia funzione ammorbidente verso Martina, ero pronto mestamente a farmi da parte (seppure sapevo che così avrei abbandonato Balbo alla sua pena personale per il resto della vita). D’altronde avevo già fatto tutto quello che potevo, mi ripetevo per farmi coraggio ad eseguire lo strappo definitivo. Ma presto mi resi conto di quanto mi sbagliassi.
Innanzitutto c’era il discorso del lavoro. Martina continuò a svolgere il suo incarico correttamente, seppure da allora si mostrasse assai più svagata e sconveniente negli atteggiamenti con le altre persone. E quello non era un motivo valido per licenziarla. Anche Balbo non mi venne affatto incontro, pensando che per lei fosse vantaggioso conservare un buon posto di lavoro (e soprattutto essere sorvegliata per tutto il tempo da delle persone che l’avrebbero protetta. A dir la verità lo capivo perfettamente e al suo posto credo che mi sarei comportato esattamente come lui. Per questo non riuscivo ad odiarlo).
«Non puoi licenziarla, Adrian…»
«Come non posso?! Mi rende la vita impossibile! Si comporta come se fosse la mia amante!…»
«Lo so, ma sul lavoro mi dici che è abbastanza irreprensibile…»
«Sì, per ora… Ma è solo una questione di tempo… Andiamo, Balbo… Sai anche tu che prima o poi farà qualche grosso errore che io o qualcun altro non potremo perdonarle…»
«Non necessariamente, Adrian. Vedi, Martina è pazza, ma non è stupida (come si suol dire). Sa che se si adopererà bene e se nemmeno uno si lamenterà, nessuno potrà toglierle quel posto…»
«…Quel posto! È me che vuole!… Comunque hai torto! La posso licenziare perché mi arreca un evidente danno…»
«Suvvia, per qualche bacetto…»
Mi inferocii così tanto che Balbo dovette calmarmi.
«Ascolta, Adrian… So perfettamente che in realtà hai ragione tu. Lo ammetto. Hai ragione, non lo posso negare… Ma sai quanto sia meglio che una come lei possa avere intorno delle persone buone come voi, e soprattutto tu…»
Riuscì a rabbonirmi.
«Amico mio, mi chiedi davvero troppo tollerando questa situazione, non trovi?», gli parlai con il cuore in mano.
«Lo so. E ti sarò per sempre debitore (e non basterà mai quanto ti restituirò perché il credito che stai contraendo con me è smisurato)… Ma in fondo… Solo a te lo posso chiedere, e solo tu me lo puoi fare questo enorme favore…»
Discutemmo altre volte dell’argomento. Una volta arrivai anche a minacciarlo che lo avrei denunciato. E lui mi rispose che mi si sarebbe opposto con tutti gli strumenti legali che avrebbe avuto in suo possesso, anche se sapeva che probabilmente infine la causa l’avrei vinto io. Ma non ebbi mai il coraggio di far seguire alle mie parole i fatti. E Martina rimase con me in quell’ufficio che da allora, il solo immaginarlo, mi dava l’orticaria.
Agli inizi Martina mantenne un certo (passabile) ritegno con tutti. Notai che in presenza di altri fosse più moderata nelle sue manifestazioni di amore. Così ci trasferimmo nella grande camerata che poteva comprendere ben sei, o alla bisogna otto, di noi. Da quel momento seguii sempre la maggior parte di loro, anche quando si andava in bagno. La possibilità di rimanere solo con lei divenne la mia oppressione ricorrente. In tali condizioni lei si limitava a baciarmi quando ci vedevamo al mattino e quando ci lasciavamo.
Ma questo limbo tutto sommato ammissibile non durò molto e lei progressivamente prese a pretendere sempre di più. Spesso si alzava dalla sua postazione all’improvviso e reclamava di venirsi a coricare sulle mie ginocchia facendomi interrompere il lavoro (da allora la mia produzione scese in picchiata del cinquanta per cento). Voleva che le facessi le coccole e che le dicessi che l’amavo, e l’unico modo per scrollarmela, fino alla sua prossima stravaganza, era proprio quello di darle quel che desiderava.
Non vi dico le umiliazioni pubbliche alle quali fui sottoposto… Anche i colleghi più sensibili rimasero shockati da molti di questi accadimenti, ma la maggior parte (beati loro) riuscì ad abituarsene facendosi una sorta di callo alla faccenda. Così tutti diedero per scontato le bizze di Martina e molti riuscirono quasi a non vederle quando queste accedevano.
Il faccione di Martina che mi si avvicinava sempre di più per baciarmi… me lo sognavo ripetutamente anche la notte (e dunque neppure là riuscivo a sfuggirle!). E tutti quei sogni urticanti e avvilenti che feci, in cui noi alla fine ci accoppiavamo (e delle volte lei prima mi doveva legare per farmi soggiacere, o mi tramortiva, o mi feriva mortalmente) non fecero altro che annunziarmi con sonori campanelli di allarme dove, prima o poi, saremmo sicuramente arrivati. Infatti di lì a poco accadde che l’azienda si rese conto che ormai noi due fossimo diventati delle palle al piede per tutti (ed io accolsi la notizia con gioia perché, se ci avessero licenziato, sarebbe stato sciolto il vincolo più forte che mi legava indissolubilmente a lei). Venne fatta una riunione per discutere appositamente di noi due. Ma, con mia grande sorpresa e con mio grande sconforto, non vennero prese le decisioni drastiche che mi sarei aspettato. Tutt’altro! L’azienda ebbe pena di noi e ripiegò su una soluzione tampone: decisero di metterci, a me e Martina, da soli in una stanzetta simile ad un ripostiglio, e mi fecero capire che non si aspettavano poi molto a livello di produttività, a patto però che non disturbassimo il normale andazzo negli altri e la normale armonia dell’azienda. Rimasi sconvolto da tale decisione: mi avevano immolato come un agnello sacrificale per poter conservare la loro borghese quotidianità!
Il primo giorno che ci trasferirono Martina era euforica, ebbra di gioia e di lascivia che le usciva da tutti i pori, mentre io avevo gli occhi sbarrati, mi ero ammutolito e mi sentivo incapace di reagire. Qualcuno mi dirà che avrei potuto lasciare tutto ed andarmene. Ma non era così semplice… Non era semplice trovare un altro lavoro. Non sarebbe stato semplice sentire una parte dei tuoi conoscenti avercela con te perché non avevi “aiutato quella povera persona tanto buona afflitta solo da un leggero handicap mentale”. Non sarebbe stato semplice guardare ancora gli occhi rancorosi di Balbo… Non sarebbe stato semplice continuare a vivere se Martina si sarebbe ammazzata (cosa di cui aveva già accennato che si sarebbe verificata se lei non avesse potuto starmi accanto). Ecco quali erano i miei robusti lacci inscioglibili!
Quel giorno sapevo che sarebbe successo qualcosa di brutto. E così fu… Quando si chiuse la porta alle nostre spalle Martina mi guardò con una faccia da pervertita. La vidi togliersi le mutandine sotto i miei occhi allibiti, in un gesto per nulla seducente o elegante. La vidi poi sollevarsi la gonna e rivelarmi il suo pelo pubico, che aveva uno strano fascino irretente… Martina mi si sedette sopra e poi si aprì anche la camicetta rivelandomi i suoi seni penduli e scialbi che sembravano pere appassite. Vidi il suo enorme volto baciarmi, leccarmi con la stessa voluttà che ci avrebbe messo se avesse voluto mangiare dopo un lungo digiuno forzato. Provavo ribrezzo per il suo viso tondo, i suoi occhi atteggiati nella posa dell’amore, le sue labbra dritte ma spesse, la sua bocca che gli si apriva rivelandone la lingua insalivata, e i denti bianchi che pareva mi azzannassero. E poi quelle sue mani tozze con sempre al dito l’anello nuziale, eterno vincolo del matrimonio con Balbo. Le avrei potuto anche vomitare in faccia se avesse insistito un altro po’… Ma quando poi, senza vergogna, osò anche fare il passo indecente di slacciarmi i pantaloni e tirare fuori il mio povero sesso rappreso (per la ripugnanza e la paura), insolitamente, la vista reiterata della sua vagina fulgida favorì in me una sorta di elettrizzante seduzione (che forse era malata) e trovai irresistibile unicamente quel suo triangolino che prometteva di consegnarmi il solo piacere che potesse portarmi più in alto della mia attuale depressione… Così facemmo l’amore e trassi enorme sollievo e piacere erotico nel penetrarla e poter sfogare le mie sopite e per troppo tempo angustiate passioni. E in quei momento non fu un problema il suo alito che sapeva di patatine fritte, la sua saliva che mi sbavava sulla faccia, sul collo e ovunque, e la sua faccia con quegli occhi da ebete che mi guardavano stretti in fessure. In quel momento… non riesco a trovare altre parole per esprimermi… In quel momento io l’amavo sul serio!
Ma dopo il coito, nei dieci secondi successivi ad esso, tutta la mia ripulsione per lei tornò esattamente come prima, tanto che le diedi una spinta e la feci cadere di schiena dalla sedia, facendole battere le terga sul duro pavimento. Diede una brutta botta e poi rimbalzò e si rivoltò mostrandomi le natiche grasse e piatte. Anche il suo grande sedere mi faceva schifo come (quasi) tutto di lei (se si eccettuava quella incredibile e prodigiosa guaina). Temetti di averle spezzato la spina dorsale ma Martina, pur rimanendoci male, non si fece nulla, ed inoltre la felicità di essersi finalmente unita carnalmente con me la fece sorridere di gioia.
Da quel momento lo facemmo altre numerose volte (d’altronde al chiuso di quella stanza, con quella porticina rossa che nessuno mai apriva, ci sentivamo totalmente isolati dal mondo, come difatti lo eravamo. E la gente si ricordava di noi solo all’ora del pranzo, quando raggiungevamo la mensa come tutti). Spesso la dovetti prendere a calci nei reni per farle capire che non lo volevo fare, e presi l’abitudine di percuoterla senza trattenermi lasciandole anche evidenti lividi su gambe, braccia, e anche in faccia. Pensavo: se per caso qualcuno mi accuserà ufficialmente di averla picchiata, almeno ci sarà un processo e io mi separerò da lei, e poi, se anche dovessi essere giudicato colpevole, cosa improbabile, almeno avrò ottenuto di essermi liberato di lei per qualche anno… E chi?… Chi di loro potrà mai accusarmi di non aver fatto bene?! Iniziai a guardare con aria di sfida tutti gli altri, come a dir loro: visto che mi fate fare?! È solo colpa vostra se sono ridotto così! E allora perché non mi denunciate alla polizia, se ne avete il coraggio?!
Nonostante le percosse Martina non si perdeva mai d’animo (essendo sinceramente convinta che io l’amassi sul serio) e nemmeno piangeva più di tanto allorché mi scagliavo senza misericordia su di lei quando, a sua volta, tentava di violentarmi (perché era questo il reale stato delle cose, non un altro!). Piano piano Martina capì quale fosse la chiave universale per aprire inderogabilmente la lampo dei miei pantaloni: la vista del pelo della sua fica spontanea ma atroce… Così capì che quando lei si spogliava preventivamente e me la faceva osservare, io ne rimessi incantato ed infatuato, in contemplazione. Allora non potevo fare a meno di mirarla all’infinito mentre lei mi avvicinava sempre più. Ed era inutile se le davo qualche pedata per scacciarla. Lei si rialzava e sapeva che sarebbe stata solo questione di tempo prima che mi avesse concupito.
Riuscì a farmelo fare tutti i giorni (a anche più volte al giorno delle volte). Capitò che, ormai esausti, ci abbandonassimo l’uno nelle braccia dell’altra e rimanessimo ore in quella posizione. Allora, totalmente svuotati di tutte le brame amorose, delle ire, delle pulsioni, e dell’irrazionalità, mi pareva di rivedere la faccia della vecchia Martina, quella che era mia amica, quella che non mi guardava come se fossi una fetta di torta con la panna, quella che non conosceva la malvagità del mondo. E allora mi appellavo a lei e cercavo di riportarla alla ragione…
«Martina, ma che stiamo facendo? Tu sei spostata con un uomo che ti ama… E io, lo sai che non ti amo, se non come amica… Martina, io potrei amarti solo come la dolce mogliettina del mio caro amico Balbo, che eri una volta… Martina, la vogliamo piantare di avvinghiarci come animali in calore? Non credi che adesso tu possa tornare alla tua vita normale, adesso che ti sei sfogata e che hai commesso tutti gli adulteri che avresti potuto compiere nella tua vita? E poi non ci pensi al tuo bambino? Che cosa gli dirai quando crescerà e capirà le cose? Come giustificherai i tuoi tradimenti?»
E Martina mi guardava come un tempo, con la sua faccetta timida ed educata da scolara elementare, e mi diceva…
«Sì, hai perfettamente ragione, Adrian. Dovremmo proprio smetterla di fare queste brutte cose sconce e istintive… Non si fanno queste cose… Proprio non si dovrebbero fare… Questa è l’ultima volta… Poi giuro che vado da Balbo e gli dico che non lo faremo più, così lui sarà felice e si metterà a piangere, e poi lo farò anche io, e poi piangerà anche il nostro bambino (anche se lui non saprà perché). E ci ritroveremo tutti e tre uniti in un abbraccio, stretti stretti, che non ci scioglieremo più (e anzi qualcuno dovrà poi aiutarci a dividerci sennò poi rimarremo sempre così). E poi ci saranno le domeniche con i pranzi ai quali sarai invitato anche tu. Che ne dici? Sarebbe bello se tornassi ogni tanto a frequentare la nostra casa come facevi prima, no? Non ci sarebbe nulla di male e Balbo so che sarebbe contento… Tanto più che ormai tutto sarebbe superato e appianato… E anzi dovresti venire allora tutte le domeniche e portarci le paste in dono… E, quando noi ci abbracceremo tutti quanti uniti, dovresti venire anche tu (perché ormai tu, Adrian, fai parte della famiglia, non trovi?). E tu mi terrai stretta stretta ad un lato, mentre dall’altro terrai Balbo, proprio come farò io (il bambino lo metteremmo al centro. L’importante è che sia protetto, no?). E poi, quando Balbo dormirà, io e te ci faremo una passeggiata in giardino, e magari anche una nuotata in piscina. E poi ci spalmeremo la crema solare… Ma che dico… La crema sarebbe meglio non spalmarcela prima. Dovremo farlo dopo. Solo dopo che avremo fatto l’amore ce la metteremmo, altrimenti finiremmo per mangiarcela, dato che ci baceremo e leccheremo per tutto il corpo…»
Le nostre conversazioni finivano sempre così, con la vecchia Martina che progressivamente veniva rifagocitata e tolta di mezzi da quella nuova, che infine, dopo avermi fatto credere al suo cambiamento, si ritrasformava nella creatura famelica e torpida, e con me che la spintonavo e le ammollavo degli schiaffi, ma anche dei pugni, delle ginocchiate o delle gomitate, e la facevo sanguinare, o le rompevo qualche vaso sanguigno.
Una volta, al culmine dell’avversione verso di lei, le usai violenza cingendola da dietro e cercano di provocarle dolore introducendomi nel piccolo pertugio del suo ano. E allora la sentii gridare non proprio di piacere… Fui cosciente che le facevo male ma, fino a quando potei, non mi fermai. Ma quello che ne ricavai fu solo la magra ricompensa di vederle uscire qualche rigagnolo di sangue da quel posticino, cosa che lei rimarginò come se niente fosse (d’altronde si sa che le vacche sono altresì resistenti e che non muoiono facilmente).
Le sue allusioni circa le mie visite domenicali a casa sua non erano affatto inventate. Infatti Balbo voleva avere il polso della situazione di come andasse con Martina, e mi invitava ogni domenica da lui. Dapprincipio mi faceva delle domande esplicite. Ma quando la situazione era precipitata aveva presto optato a limitarsi a ravvisarmi in faccia per capire tutto. Quello gli bastava e non pretendeva altro, cioè che gli rivelassi particolari scabrosi e sconvenienti, che lui intuiva perfettamente, e la cui esposizione avrebbe imbarazzato più lui che me. In tali occasioni, in cui lui vedeva le borse sotto i miei occhi e taceva su tali argomenti per deviare su quelli stantii della politica e del tempo, io non mi capacitavo di come potesse vilmente consegnarmi sua moglie tutti i giorni per poi fare finta di nulla quando mi avesse davanti. Lo guardavo con profondo disprezzo (come ormai guardavo tutti, compreso me nello specchio) e pensavo a che uomo mediocre si fosse ritrovato ad essere, un po’ per necessità e un po’ per codardia.
Alcune volte accadde sul serio che Martina volle avermi nella sua casa mentre Balbo, nell’altra stanza, dormiva (non so come poteva farlo, quel cristiano, mentre sapeva il rischio che correva lasciandoci la strada libera!). Allora avvenne che Martina mi attirasse in salotto e poi, come al solito, prendesse a denudarsi. C’è da dire che una volta mi regalò della biancheria di pizzo di buona qualità e che, agghindata a quella maniera, quasi poté solleticare per lo meno la mia curiosità, dato che me la vedevo come una strana bambola adiposa che faceva tenerezza per come avrebbe voluto sedurre, che non poteva per evidenti lacune fisiche e soprattutto spirituali. Quella strega ebbe il potere di far cambiare il mio atteggiamento per lei facendomi il gesto osceno di allargarsi i lembi della sua vagina fradicia e di farmela puntare, con in faccia un sorriso melenso (e quello rimarrà sempre il primo elemento nella mia speciale classifica della scostumatezza, e confesso che, ancor oggi, se per qualche motivo quel ricordo mi assale, quando nell’incoscienza del sonno ho allentato la presa dell’autocontrollo, ha la facoltà di farmi erompere in polluzioni abbondanti ed incontenibili)… Le saltai subito addosso e il mio unico pensiero fu quello di percuoterla con il mio bastone del piacere fino alla nostra completa e reciproca soddisfazione…
Un tale comportamento dissennato da parte nostra non poté che portare alla sua immancabile ingravidazione. Come mai non prendemmo mai precauzioni, direte voi? Da parte sua penso che lei ebbe sempre la costanza di ricercare quell’evento (e forse nella sua mente malata quel nascituro era l’unica cosa che mancasse); mentre, da parte mia, spero che mi crederete se vi dirò che non potei mai farlo. Infatti io partivo sempre dal presupposto che non avrei mai avuto un rapporto sessuale con lei, ed il fatto che ogni volta vi ci cedetti può comprovare, oltre che la mia palese debolezza, anche la mia buonafede.
Mi accorsi dell’infausto evento da come lei, per circa una settimana, mi apparve più debole, pallida in viso, e smunta come un’inferma. E poi la vidi rigettare. Si piegò su sé stessa da un momento all’altro e poi rigurgitò la colazione dandomi le spalle e conservando uno strano pudore (quando ormai mi aveva fatto assistere da spettatore e da protagonista diretto a tutto quello che poteva). Ancora incerto se esultare innanzi ad una sua prossima morte o aver pietà per lei, le chiesi: «Stai male?». E lei mi rispose, dopo essersi pulita la bava vomitante che ancora le colava: «No, sto bene. Sono felice. Perché sta arrivando il nostro bambino…». Poi si voltò e mi sorrise con un’ilarità così immonda che mi paralizzò. In quel momento Martina pareva così malvagia… Eppure era conscia di cosa volesse significare un accaduto di siffatte proporzioni? Certo che lo sapeva! Anche se vedeva tutto dalla sua ottica distorta e folle! Ma io solo sapevo a quello che sarei andato incontro…
Ci meditai e mi convinsi che cosa peggiore non sarebbe mai potuta accadere!… La nascita di un nostro bambino (e ne rabbrividisco ancora oggi al pensiero) significava avere un legame di carne ed ossa che ci avrebbe unito per sempre! Non bastavano già tutte le sudicerie e le esperienze mortificanti, e il lavoro, e Balbo, e tutto il resto! Ci voleva anche questa disgrazia adesso! Che cosa sarebbe accaduto dopo che la creatura sarebbe nata? Primo: tutti avrebbero capito cosa era avvenuto tra di noi… E se pure adesso c’era qualcuno che non se ne era ancora capacito perché mi aveva conosciuto bene nella mia vita precedente, e che quindi non mi avrebbe mai reputato tanto misero da ridurmi a scopare con una ritardata… Anche coloro infine si sarebbero arresi e avrebbero compreso… Ma non solo… A quel punto il nostro legame avrebbe avuto un qualcosa di accreditato ed innegabile. Ed allora… Ed allora… Mi immaginavo che anche un giudice sarebbe potuto piombare sulla nostra evidenza e annullare il suo precedente matrimonio con Balbo (“per consistenti cause di cessazione effettiva del rapporto”) e sancire invece la mia aggregazione con lei, facendomela sposare e obbligandomi ad accoglierla d’ora innanzi come se essa fosse sul serio la mia devota e amabile mogliettina!… Una tragedia!
Questo pensiero mi faceva impazzire e sapevo che non avrei mai resistito ad una esperienza del genere. Ne sarei morto, sarei impazzito io stesso, o mi sarei ammazzato. E confesso che pensai anche di ucciderla. Sì, fui così misero da pensare di uccidere una donna incapace di intendere e di volere… A tal punto era la mia prostrazione… A tal punto mi ero ridotto cercando solo di, non dico vivere, ma tentare di sopravvivere! E allora mi immaginai di strozzarla in uno dei nostri convivi d’amore (mentre ancora il pene eretto le spingeva dentro facendola godere). In tal caso la sua morte non sarebbe stata così pessima dopotutto, no?… Oppure la potevo portare in un posto isolato, con la scusa di una gita fuori porta (ah!, come sarebbe stata felice la sciocca!), e una volta che mi fossi accertato che ci fossimo appartati da tutto e tutti (e dallo sguardo pure di Dio), l’avrei accoppata in qualche modo (forse con un coltello da cucina infilato nella gola) e nessuno avrebbe sentito le sue grida da scrofa al mattatoio…
Ma in quei momenti non era tanto la possibilità che io potessi ammazzarla a farmi retrocedere (perché ebbi chiaro il sentore che, ormai, spinto da quelle contingenze, ne fossi diventato capace)… No, a bloccare la mia mano ed ogni mio concreto intento di liberazione fu il comprendere che così avrei assassinato l’esserino che lei teneva in grembo, quell’esserino debole ed indifeso che non aveva nessuna colpa di quello che stava accadendo… Lui no, lui davvero era l’unico che non c’entrasse nulla… E anche se un giorno avrei preso ad odiare anche lui, perché chissà, magari, sarebbe diventato come la madre… Non sarei mai stato in grado di sopprimerlo quando ancora era innocente, quando ancora il suo peccato non si era manifestato… Non sarebbe stato giusto e sentivo che avrei aggiunto, con il mio agire, un’altra ingiustizia a quelle che già si perpetrano nel mondo in ogni istante. E di questo non potevo farmi carico…
Una volta che eseguii questo ragionamento non avevo più scampo. Ero in trappola e non potevo fuggire. Ovunque mi voltassi sapevo che non ci sarebbe stata quiete per me. Solo tormento. Tormento e sofferenza…
E ricordo che, in quegli ultimi giorni di quella vicenda così triste da costringermi a scriverla per potermene liberare tutt’oggi, mi ero praticamente arreso al mio destino avverso e sovrastante, che come una marionetta mi manovrava ed aveva deciso che infine per qualche motivo oscuro dovessi essere io ad incarnare la persona più triste a questo mondo… Così lo avevo accettato. E non avevo più energie. E anche quando lei mi chiese altri accoppiamenti non le diedi le solite bastonature e mi adeguai a compiere il mio dovere di padre e coniuge…
Non potevo immaginarmi che quel giorno potesse avvenire il miracolo che mi salvò. Ed oggi, che ci ripenso, non posso che attribuirgli un significato mistico perché, nel momento più basso della mia vita, quando ormai ero spacciato, solo quello che avvenne poté strapparmi al pericolo e tirarmi di impaccio da quella infinita sequela di sciagure che si seguivano l’un’altra e tutte quante ormai mi pedinavano passo passo…
Di quel giorno ricordo pochissimo. Solo una gran confusione… Eravamo lì, io e Martina, chiusi nella nostra alcova-stanzino. Eravamo buttati per terra e lei mi stava torturando ribadendomi dei vestitini che avrebbe comprato al bambino e chiedendomi anche se lo avrei preferito maschio oppure femmina… Ad un tratto Innocenzo buttò giù la porta con un calcio (e non capirò mai perché lo fece e non preferì semplicemente aprirla). Era stravolto in una smorfia di terrore impellente.
«Dovete sbrigarvi ad uscire! È scoppiato un incendio! Tutti se ne stanno andando per le scale di emergenza!»
Rimase senza fiato ansimante. Io e Martina ci alzammo in piedi incerti.
«Sbrigatevi!» ci urlò. Poi scomparve. Ebbi il riflesso giusto di dirgli dietro: «Ma dove è scoppiato?!…» e sentii la sua voce allontanarsi che diceva: «Non si sa!»
Lo sentimmo correre con quanto fiato gli era rimasto in corpo e prendere la via delle scalinate (lui il suo dovere lo aveva fatto, dovette pensare). Non vidi più Innocenzo e non potei mai ringraziarlo a dovere. Fu lui a salvarci la vita, a me e Martina. Se non fosse stato per lui saremmo finiti senz’altro carbonizzati o asfissiati dal fumo nero. Fu lui a ricordarsi di noi quando nessuno lo aveva fatto. Infatti, appena si era sparsa la voce, la gente era stata presa dal panico e si era andata a comprimere nelle scale di emergenza, lasciandosi lavori a metà, oggetti di valore e tutto quanto il resto alle spalle per sempre.
Io e Martina iniziammo a corricchiare per quanto potevamo (eravamo assai spompati dalle nostre gesta lussuriose che da mesi ci infettavano la carne e lo spirito); ad ogni modo l’adrenalina che prese a montare ci aiutò non poco.
Una volta giunti alle scale assistemmo ad una scena da girone dantesco… Una quantità spropositata di persone si accalcava su quelle scalette di ferro arrugginito, che sopra tutto quel peso e quello sforzo sembravano molto più esili e sul punto di spaccarsi da un momento all’altro. Vidi masse di corpi, membra, volti trasfigurati dalla paura, avvolti gli uni negli altri. Quelle persona sembravano incapaci di scendere i gradini in maniera civile o perlomeno tollerabile. Parevano una grande slavina di carne umana ancora viva che preferiva rotolarsi piuttosto che procedere con le proprie gambe… Vidi gente camminare con le mani, altri strisciare ardendo di esser schiacciati, e altri che, tentando la furbata, facevano il surf sopra tutti loro ma poi rischiavano di essere risucchiati da un buco che si apriva all’improvviso (dal quale non sarebbero più ricomparsi); altri scivolare verso il vuoto, come se provassero a prendere il volo come uccelli, o come se avessero scelto di tuffarsi nel mare del cemento passando nel mare dell’aria… E questi si andavano tutti a spappolare a terra (e numerosissime furono le chiazze e le spoglie insanguinate che essi lasciarono come uccellini morti, che in seguito vidi con i miei occhi).
Entrare in quella torma di gente rappresentava già di per sé una prova di coraggio o una penitenza che uno si autoinfliggeva volontariamente (e avrei voluto volentieri farne a meno, e forse l’avrei fatto se mi fossi fermato a pensare, preferendo affrontare la morte del rogo piuttosto che quel martirio di spasimi). Una donna anzianotta notò il nostro imbarazzo ad introdurci a spintoni nella ressa e ci disse benevolmente: «Entrate qua… Io tanto non ce la faccio… Vi cedo il posto…». La donna si tirò fuori con le ultime forze facendoci cenno di introdurci prima che qualcuno di quelli dietro avesse occupato quell’imprevisto spazio vuoto. Mi ci gettai richiamando Martina, che mi rispose che mi avrebbe seguito. Ebbi coscienza che la povera vecchia spirò, anche se non la vidi nel suo ultimo istante.
Entrato nel torpedone demoniaco mi sentii terribilmente pressato da ogni direzione, e a giudicare dalle morbidità che sentivo dietro, che mi si addentravano nella schiena, dovevo avere Martina (il suo seno) proprio dietro di me. Più volte rischiai di rimanere incastrato da qualche parte, stritolato, o contuso. Inoltre furono molti gli individui senza scrupoli che per avere un vantaggio non esitavano a mordere, colpire con pugni o colpi di Karate, scalciare anche alle spalle, pur di avere più chance di sopravvivere. E con tali tipi mi sentii del tutto abilitato a comportarmi con loro allo stesso modo, e molti furono quelli che lasciai per terra con un cazzotto, o ai quali staccai un orecchio, o tirai i capelli per farli capitombolare…
Mano a mano che si scendeva la gente sembrava rigovernarsi, forse perché tutti intravedevano la grazia tanto agognata. Così negli ultimi passi che discesi potei quasi rilassarmi, godendomi la vista panoramica delle altre persone che si erano già portate in sicurezza e che si abbracciavano come i sopravvissuti che effettivamente erano. Tra di loro c’era anche Balbo che, quando mi intravide, mi calamitò gli occhi addosso e mi seguì con lo sguardo fin quando non misi piede in terra. Feci a Martina, girando appena la testa indietro, ma senza guardarla: «Guarda, Martina. C’è anche Balbo…». Ma lei non mi rispose. Pensai che dopo tutto quello che avevamo passato doveva essere stata messa a dura prova anche lei…
Ma quando io e Balbo ci ricongiungemmo (e solo allora posso dire che potei tornare a respirare a pieni polmoni e mi sentii piacevolmente leggero), lui mi disse scosso: «E Martina?!…». Mi voltai indietro e vidi che il seno morbido che avevo sentito nella schiena per tutto il tempo era quello di una donna (che, sotto shock, ancora mi seguiva) dai capelli biondi, con la faccia quadrata in cui risaltava una burbera mascella scolpita, con la bocca aperta come un pesce morto nella posa di un attonito e perenne stupore d’oltretomba, la quale aveva anche tutto il vestito strappato che le faceva per l’appunto mostrare i seni molli graffiati che al centro avevano dei capezzoli scuri come la pece…
«Pensavo che fosse lei…» dissi stupefatto a Balbo. Lui non mi credeva, o almeno non voleva credermi. Infatti immaginava che non mi sarebbe potuta capitare miglior sorte per avere la scusa di abbandonare Martina tra le fiamme. Balbo mostrò evidentemente di esecrarmi (e mai questo era accaduto prima). Ma il suo avvilimento durò poco, perché vidi i suoi occhi intenerirsi dalla commozione poco dopo, quando, dall’uscita principale dalla quale continuavano a venire persone alla chetichella, spuntò la figura annerita ed disinteressata di Martina. E non era sola: serrava al petto il loro figlio legittimo del quale, per una volta, non si era scordata. La raggiungemmo esterrefatti, lui per la gioia, io dall’incredulità della circostanza. Come poteva infatti Martina essersi ricordata di quella cosa così importante, ma che tutti quanti avevano scordato, proprio lei che un anno fa aveva lasciato suo figlio nelle mani della nurse come se niente fosse? Mi sembrava una grande contraddizione.
Ma qualcosa era cambiato per sempre dentro di lei (o forse si era ripristinato?). Capii dal suo sguardo fiero e freddo, e dal fatto che mi ignorò totalmente, che Martina… non era più innamorata di me. Anzi sembrava avercela con me… come se mi accusasse di non aver salvato quel figlioletto di cui (anche a detta di Balbo) non reputava più alcuna attenzione dal giorno del nostro alterco scatenante…
Non seppi mai cosa si fosse smosso, o disincagliato nella sua psiche di donna contorta ma ipersensibile. So solo che mentre Balbo piangeva tributandole elogi e dicendole parole del tipo «Martina! Che Dio ti ringrazi! Sei salva e hai anche salvato nostro figlio! Non ci speravo più!», lei prese placidamente la via di casa propria e invitò Balbo a seguirla con un semplice «Andiamo».
Da allora non li ho più visti. Mi giunse su di loro solo una singola voce che diceva che lei aveva deciso di abortire (un ultimo atto in mio sfregio, o un savio tentativo di rinsaldare la sua famiglia?). Non ho più visto il figlio di Martina e Balbo e non riesco ad immaginarmi se somigli più a lui o a lei. Non ho più visto Balbo e anche lui non mi ha più cercato… Ma lo capisco bene. Per fin troppo tempo ho preso il suo posto nella sua vita e mi sono sostituito, mio malgrado, a lui e ai suoi obblighi. È normale che non mi voglia più vedere, nemmeno da morto. E non ho visto neppure più Martina. Che cosa sarà di lei? Sarà tornata la donna delicata che faticava a mantenere le proprie opinioni davanti alle contrarietà degli altri, come ai primordi? Oppure sarà ricaduta in quel suo stato strano che la fece innamorare di me ma che avrebbe potuto scegliere come bersaglio chiunque altro? Molte volte mi sono chiesto come mai Martina avesse scelto me e non un altro, e sono riuscito a trovare solo due ordini distinti di risposte (più o meno razionali, mentre il campo dell’irrazionale non ho la minima intenzione di vagliarlo). Sono quasi certo che c’entrasse il fatto che io fossi il miglior amico di Balbo. Non poteva essere un caso. E non escludo nemmeno che in verità lei, agendo in quella guisa, volesse in qualche modo punirlo (ma di cosa non saprei). Oppure l’altra possibilità (e devo ammettere di sentirmi ancora oggi un po’ in impaccio a ripensarci) poteva essere che lei davvero si fosse innamorata di me nonostante le nostre enormi differenze (e soprattutto quando lei si trasformò in una sorta di Mrs Hyde al femminile). Sembra assurdo? Forse. Però questo spiegherebbe anche quel fascino animale che si sviluppò dalle nostre unioni carnali, che mai avrei creduto potesse esserci se non lo avessi saggiato di persona. E qualche volta credo che il nostro rapporto bipolare ci diede anche la sorpresa dell’amore, quello vero ed inspiegabile, quello che scatta tra due persone pure se queste si odiano e si detestano. Sì, alcune volte sono sicuro che io ricambiai Martina e l’amai, anche se non ne saprò mai l’origine. Oggi che è passato tanto tempo me lo posso ammettere, ed una piccola parte di me la rimpiange anche con nostalgia (perché non troverò mai nessun’altra che mi amerà e che io stesso amerò più intensamente di lei).
Non ho idea di dove sia Martina e non ho idea come sia, e come stia. Ma per qualche motivo insondabile me la immagino ancora mutata in quella terza creatura volitiva e consapevole di sé e di quello che la circonda. E mi immagino che non mi pensi più e che mi abbia ormai dimenticato per sempre.