Ammazzabubù

«Intralcio?»

«Ciò che non carbonizza il falò il nume lo dilapida.»

«Non mi dà cruccio. Volevo tamponarti per una cozza…»

«Sei mai stata a biascicare dirimpetto un rivolo? È un fondato spasso…»

«La clemenza attenua il languore. Si tratta di quel campione che tu percepisci di buona famiglia…»

«Le mie natiche ancor me ne conversano.»

«Bisbigli e proclami…»

«In Scandinavia non esistono buoi muschiati.»

«Che ricreazione!»

«Dici che aveva un anodo avvallato?»

«Mai stata baciata pria! E più volte perdurò! Scostati che passa la mamma a sgrassare l’immobile!»

«Rocce e sassi in fondo son la stessa granella.»

«Come sei tenebrosamente corroborante stanotte… Sarà che una giovin moglie ti ha fatto compagnia nel covile fin quando lo sfoggio è stato imparziale?» (ridacchia)

«Come i suini! Che grufolando van in cerca di tartufi!»

«Tuberi!, che però stanno dentro le braghe dei lord!»

«Adesso vorresti anche togliermi i miei hobby?»(cit.)

«Bando alle zoccole: io ormai solo le infradito…»

«No, io beatamente me ne vado in gir per l’urbe. E non sussiste un crepuscolo che non sia mai stato già arroventato o consunto dai gorgoglianti calici di Bacco che detergono il lordume che gli uomini si portano posteriormente negli aguzzi pendii delle loro ossature dissipate.»

«Alle corte che ammonimento mi dai? La chiatta fluttua in sull’abisso, oppure il passero è attecchito all’albero come un suo arbusto?»

«Incombenza delicata come il cioccolato che, pur non sciogliendosi nell’invernata, se dilatato tra le terga d’un crapulone, in qualche prassi riesce a stimolarlo omogeneamente, ma poi…»

«Dunque così drastica? Neppure un appello per me, se non per te?»

«Favorisco la polpa paffuta delle trippone quando gli pratichi il pizzicotto per l’inoculazione.»

«Orbene se la mossa del cavallo non ti garba si può incessantemente digitarne una col pitale in ferro, sempre ammesso che…»

«Bofonchia l’aiuola, che è uno dei vocaboli più canori, forse l’apogeo.»

«Stornisce lo storno.»

«O stormo.»

«Buonanotte.»

«Buongiorno.»

ammazz

Karma – Parte I

Fu Vlad che insegnò a Nemesis come svolgere al meglio il suo lavoro.

«Non è così che ti conviene tenere lo scopettone…»

«Ma è così che ci hanno insegnato al corso…»

«E tu fa sempre quello che ti dicono al corso! Schiatterai ancor prima di aver pulito venti metri quadri. Ci vuoi arrivare ai quaranta anni, o vuoi morire prima, Nemesis?»

«Come dovrei fare?»

«Innanzitutto non ti devi chinare così assurdamente come fai tu. Ti giochi la schiena se continui così! Anzi, la schiena la devi muovere il meno possibile, come avessi un busto che la fasci, mi intendi? Poi la spalla non deve effettuare movimenti troppo forzati o innaturali (usa l’avambraccio semmai), sennò ti ritroverai ad avere certi dolori che tu nemmeno te l’immagini…»

«Come sai queste cose, Vlad?»

«Le so per esperienza, bello mio… Ecco, vedi come si fa? Ti sembra forse che la mia azione abbia meno efficacia di quella che facevi tu ingobbendoti sul pavimento?»

Nel suo modo buffo e sensazionale di fare, Vlad sembrava un incrocio tra una specie di ballerino sulle punte che si stesse sgranchendo per prepararsi a un salto mortale e uno spadaccino impedito ma padrone di un’immensa e sconosciuta arte orientale. Nemesis colse la verità nelle sue parole.

«Effettivamente hai ragione…»

«Certo che ho ragione, amico mio. Perché rovinarsi la salute per una cosa così da poco e insulsa, che può tra l’altro esser svolta con un quintuplo dell’energia e dello sforzo?»

Applicando quei suggerimenti Nemesis e Vlad erano capaci di terminare il loro compito anche un’ora prima del normale. Così i due potevano intrattenersi discutendo di questioni personali, o di filosofia, o di fatti divertenti, o di letteratura. Come quella volta in cui…

«Conosci Nietzsche, Nemesis?»

«Ne ho sentito parlare…»

«E cosa ne pensi?»

«Penso che sia un tipo interessante. Nel senso che sia molto utile per avere degli spunti circa alcune riflessioni indispensabili all’umanità. Ma credo che poi, i concetti che sostenga, siano troppo arditi per me…»

«Nel senso che tu sei troppo mollaccione per abbracciarli, oppure…»

«No. Nel senso che non li condivido e che li giudico esagerati ed esasperati.»

«Su questo non siamo d’accordo allora. Perché io lo ritengo il più grande pensatore di sempre. Dopo me, ovvio.»

«Ah, quindi saresti un suo adepto, o comunque lo considereresti un tuo maestro?»

«Nient’affatto! Semmai è lui che dovrebbe considerarmi suo maestro. O perlomeno come quel discepolo che ha proverbialmente superato il maestro…»

«Sempre eccessivo, eh Vlad?»

NiectzeNemesisVlad1 (2)

Mara

Un giorno notai quello strano negozietto a un sol passo dal centro. Mi colpirono subito i prezzi. Non sapevo come potessero tenerli così bassi. Era un esercizio prettamente per clientela femminile, però c’erano anche capi per maschi, anche se evidentemente quel target per loro rappresentava l’eccezione alla regola.

Le prime volte vi ero entrato dopo la segnalazione di un mio amico il quale per l’appunto mi aveva comunicato le caratteristiche alquanto economiche dell’esercizio accompagnandomici pure per darmi una dimostrazione che non dicesse il falso. Ma per lui quel negozietto non era troppo allettante, perché lui era uno di quelli che pensavano che se si compra qualcosa di economico allora vuol dire che si è dei poveracci. Io non la pensavo affatto così.

A ogni modo quella volta se ne uscì dal negozio giurando di non metterci più piede proprio per quel motivo. Io invece ero intenzionato a tornarci per acquistare qualcosa e rimpolpare il mio esiguissimo guardaroba, e non mi importava certo di spender poco, anzi miravo proprio a quello. Inoltre quella prima volta, uscendo dal negozio, ero sicuro che ci sarei tornato almeno un’altra volta, per un motivo ulteriore: la commessa.

Era una ragazza con i capelli tinti di rosso, che parlava bene la mia lingua ma si sentiva dall’inflessione che non fosse proprio del posto. Durante quella prima volta ci aveva accolto con freddezza, come non le interessassimo affatto, come fosse abituata a fare così, non dando confidenza ai clienti. Aveva un seno molto scarso su cui mi sarei soffermato tante altre volte per valutarne il giusto peso. Beh, era una prima misura e sarebbe sempre rimasta tale, su quello non c’era nulla da fare. Poi aveva dei bellissimi occhi verdi, e certo erano stati quelli a spingerla a tingersi di rosso i capelli. Il resto del corpo era gradevole, senza infamia e senza lode, comunque senza cose particolarmente brutte da annoverare.

La seconda volta mi ritrovai fuori il suo negozio da solo, durante l’ora di pranzo, con il cuore pulsante di eccitazione come mi sarebbe successo diverse volte in seguito. Entrai facendo suonare il campanellino annesso alla porta. Lei era alla cassa, con la sua solita aria stranita piena di noia. Feci un giretto per tutto il piccolo negozio. Poi andai da lei e le chiesi se effettivamente il reparto maschile era solo quello – glielo indicai. Lei disse di sì. Aggiungendo che altre cose nuove forse sarebbero arrivate presto. Decise di alzarsi in piedi per espormi la merce.

Io avevo già adocchiato un bel giubbotto jeans che sembrava fatto apposta per me confacendosi ai miei standard. Sapevo che mi sarebbe stato bene quel modello. C’era solo da provarlo. E dapprima mi feci porgere una taglia moderatamente piccola la quale però mi rimaneva un po’ stretta, seppure avrei potuta calzarla ugualmente. La taglia immediatamente successiva andò meglio. Mi guardai allo specchio e mi trovai bello. Anche lei osservò con stupore come con quel modesto giubbotto indosso sembrassi molto più affascinante.

Pagai cinque euro e feci uno degli acquisti migliori in assoluto della mia vita. Dico solo che dopo tanti anni, quel giubbotto è ancora con me ed è il mio preferito.

A casa esaminai con cura quel capo. Se gli volevo trovare un difetto, c’era il fatto che su un braccio avesse ricamato un certo stemma, mentre dietro, sulla schiena, un disegno che era solo l’imitazione del primo disegno, a testimonianza probabilmente che fosse stato realizzato grossolanamente e chissà in quale astrusa parte del mondo e da quali ragazzini sottopagati e sfruttati. Comunque mi confermai che il modello era perfetto.

Ma quell’acquisto mi aveva regalato anche un ulteriore vettore per convogliare la mia curiosità su quella ragazza. E precisamente lo scontrino. Nello scontrino c’era innanzitutto un numero di telefono a cui avrei potuto riferirmi in seguito –che bello! Già avevo il suo numero! Se pensavo a quanto era stato penoso in precedenza avere il numero di una ragazza che mi piaceva e le figure barbine che avevo fatto per ottenerlo…! –; ma poi c’era anche a chi apparteneva il negozio, e si trattava di una persona indubbiamente straniera, che pensai potesse esser lei. Fu quella la prima volta che pensai, e da lì in poi ne fui certo, che lei fosse straniera. Anche se poi capii che lei faceva solo la commessa e non era suo il negozio.

Cominciai a passeggiare costantemente, durante la pausa pranzo, nei pressi del suo atelier. Ogni volta mi fermavo fuori fingendo di valutare le merci esposte, che in vetrina tra l’altro erano sempre di solo stampo femminile, cercandola dentro per vedere se come al solito era seduta tutta sola davanti alla cassa, oppure non c’era e si era rifugiata momentaneamente all’interno. Solo alcune volte entravo e mi facevo un altro giro per farmi vedere. E lei mi riconosceva. Talvolta le facevo una domanda sempre sulla merce maschile, e su quando sarebbe arrivata. Ma altre volte fingevo di esser di fretta, guardavo l’orologio e, bloccato dalla tensione, me ne andavo senza spiccicare parola.

Di lì a poco mi sentii obbligato a effettuare un altro acquisto. Stavolta mi buttai sui pantaloni, dato che era l’unico altro ambito in cui effettivamente qualche nuovo capo mi sarebbe servito. Una volta acquistai un bel paio di calzoni jeans scampanati. E la volta dopo, soddisfattissimo dell’acquisto, pure l’altro solo modello che avevano, che era molto simile al primo ma solo aveva un paio di tasche quadrate davanti.

Spesso da allora tornai in quel negozio con gli stessi abiti acquistati lì, come a voler affermare che fossi un cliente fidato, sperando di essere trattato con particolare riguardo. Ma lei, che pure doveva aver notato che transitavo un po’ troppo frequente in quel negozio rispetto a una persona normale e dunque o dovevo essere un compulsivo dell’acquisto, oppure uno che sperava di sgraffignare qualcosa – a tal proposito cercavo sempre di mettermi in bella vista in modo che lei mi potesse vedere, così da scongiurare il giungere di quel sospetto che si sarebbe rivelato assai nefasto –, oppure certo uno che era anche lì per lei, sino allora era rimasta guardinga, o meglio un pochino si addolcì, ma non sembrava particolarmente interessata a me.

Sennonché presto esaurii le scuse per andare da lei. Fosse stato per me le avrei comprato tutto il negozio, ma era così scarso il settore maschile che, con tutte le buone intenzioni, più di tre acquisti proprio non potei farli. Un giorno, esasperato dalla situazione ormai in stallo, la chiamai al telefono e chiesi quando sarebbero arrivate cose nuove da uomo. Lei risposte in maniera interlocutoria. Così la telefonata fu breve e non mi portò alcuna gloria. Però credo che almeno lei comprese che ci fossi io dall’altro lato della cornetta, che almeno era qualcosa.

Venne natale. Questo rappresentò un’ottima scusa per recarmi ancora da lei e fare un altro acquisto. Infatti dovevo fare un regalo a mia madre (cosa accaduta solo in quell’anno tra l’altro, non sto a dirne il motivo). Felice di tornare da lei, stavolta diedi un occhio per bene anche alla parte femminile. Alla fine mi gettai su dei maglioncini colorati. Ne selezionai due.

La coinvolsi nella scelta chiedendole quale dei due secondo lei era più bello da regalare. Lei fece però la gnorri. Quello che mi rispose mi rimase impresso. Per la precisione disse che non sapeva quale dei due capi sarebbe andato meglio perché la madre era la mia. Alla fine decisi per il capo verde. Le dissi che scelsi quello perché mia madre aveva gli occhi verdi, proprio come i suoi, aggiunsi, volendo creare della complicità tra noi, e forse ci riuscii.

A casa mi interrogai ancora su quella sua affermazione. In principio ci ero rimasto un po’ male perché sembrava essere stata un po’ troppo fredda. Effettivamente poteva sembrare che avesse voluto tenere le distanze. Poi però valutai anche che lei era pur sempre una ragazza straniera e poteva aver scelto una frase non propriamente calzante per esprimere quel che avrebbe voluto. O forse semplicemente, adusa a quel tipo di problematiche ed essendo diventata molto pragmatica, sapeva bene che non conoscendo mia madre non avrebbe mai potuto valutare realmente quale capo sarebbe stato migliore per lei.

Ma dopo quell’acquisto avevo nuovamente esaurito le scuse per parlarle ed entrare nel suo negozio. Che fare allora? Mi stavo macerando cercando di trovare una soluzione ma la soluzione non c’era. Cioè, l’unica che mi veniva in mente era di andare lì a rimorchiarmela facendole capire espressamente che mi interessava. Ma non l’avevo mai fatto in vita mia. Non ne avevo mai avuto il coraggio e temevo parecchio la figura di merda che secondo me era proprio lì, dietro l’angolo.

Comunque continuai a gironzolare dalle sue parti. E un giorno fui molto fortunato. Mi ero piazzato vicino a un giornalaio a trangugiare il mio ricco panino al formaggio, quando a un tratto comparve lei. Non potevo crederci. Sembrava che i miei più segreti desideri fossero stati esauditi. Lei era passata dal giornalaio ad acquistare una rivista, poi mi vide, mi salutò, mi affiancò per un poco. Ricordo ancora l’imbarazzo, che se la batteva con l’eccitazione per primeggiare tra le mie emozioni. Riuscii a spiccicare qualche parola, e lei mi diede corda, come ormai mi avesse riconosciuto perlomeno un ruolo di persona… non dico importante ma con la quale le fosse interessato interagire. Le piacevo!

Peccato però che non fui in grado di tenermela là per altro tempo. Così poco dopo lei, vedendo che non le dicevo altro, se ne tornò al negozio, proprio lì di fronte. Ragionandoci sopra mi accorsi pure che probabilmente era uscita dal negozio proprio perché mi aveva visto o mi aspettava. Dunque lei era lì dentro che mi aspettava… Ma io non sapevo minimamente come fare per rimorchiarla, anzi avevo rischiato seriamente di bloccarmi quando ce l’avevo avuta così vicina e disponibile. Mi maledii per la mia incapacità di esprimere le mie emozioni, che in questo caso erano pure ricambiate dall’altro sesso. Ma non ci fu modo di smuovermi da lì. Non riuscii ad entrare nel suo negozio dove lei mi aspettava fiduciosa.

Giorni dopo ero ancora là a rodermi. Stavolta fuori la sua vetrina, in compagnia di quell’amico che mi aveva fatto conoscere il negozio, a cui avevo confidato che mi piaceva la commessa “rossa”. E lui mi aveva detto che anche lui l’aveva notata ma non ci aveva fatto nemmeno mezzo pensiero perché era straniera.

A un tratto si materializzò lei con una sua amica, fuori il negozio, stavano rientrando dopo essersi fatte un giro. Mi disse qualcosa che però non colsi. Allora non le risposi. Lei si arrabbiò. Si mise di tigna a ripetere “Ciao! Ciao! Ciao!” (che doveva essere la cosa che mi aveva sussurrato appena incontrato). Ma ormai quella scena era talmente compromessa che non potei replicare. Perché lei mostrava di essere arrabbiata e io non potevo concepire che ce l’avesse proprio con me. Per cui non feci nulla e me ne rimasi zitto, anche se evidentemente quei suoi ciao dovevo sentirli per forza.

Fu un errore fatale. Il giorno dopo, presago del momento funesto che viveva la nostra pseudo-proto-relazione, mi decisi a rientrare nel suo negozio dopo tanto tempo che non lo facevo. C’era lei, da sola. Appena mi vide le scappò un grido (sì, proprio un grido) di disapprovazione nei miei riguardi. Io, zitto, mi sentii come un elefante in un negozio di porcellane, e se mi fossi mossi non avrei fatto altro che combinare ulteriori danni.

Lei si diresse a razzo nel retrobottega, dove sentii che discuteva concitatamente con qualcuno in una lingua che non conoscevo. Pochi secondi dopo uscì da quel retrobottega una ragazza, che doveva essere la sua amica del giorno prima. Mi guardò estremamente interessata chiedendosi come avessi potuto ingenerare nella sua amica tutto quel risentimento, come fossi riuscito a illuderla, sedurla, per poi abbandonarla in così poco tempo senza averci fatto mai niente. Me lo chiesi anche io – e me lo chiedo ancor oggi.

Zampettai per il negozio cercando di dare l’impressione che non volevo rubare niente, nemmeno il cuore della commessa rossa. Poco dopo mi sentii davvero di troppo, e me ne uscii.

Da allora, per la vergogna di essere così odiato, non misi più piede in quel negozio.

In seguito cambiai anche posto di lavoro e non mi fu più agevole recarmi lì.

Ma diversi mesi dopo, essendo nuovamente in vena di acquisti, volli tornarci. Però lei non c’era più.

mara

Snowden (film)

Che bravi ragazzi sono quelli che lavorano per i governi!, da sempre abituati a mentire, depistare, assassinare, metter bombe, fregare il prossimo in ogni stramaledetto modo. E i più bravi di tutti, indovinate un po’, sono ovviamente gli statunitensi!

Così, tramite questo film di Oliver Stone (uno che da sempre si manifesta molto incazzato contro il Sistema e lo critica con ferocia, che, appena scoperti i libri tratti da queste brutte storie vere, ci si è fiondato a pesce), veniamo a conoscenza di software nascosti – naturalmente illegalissimi! – i quali, impiantati nei cellulari, spiano le persone. Senza contare tutto il resto.

Ormai esistono moltissimi libri che parlano degli abusi dei governi. Che poi si punti il dito sulla CIA, sulla NSA, o Gladio, o i Servizi Segreti deviati, o si chiamino in un altro modo, a qualsiasi latitudine del globo l’antifona non cambia: coloro che voi pensavate vi proteggessero sono invece i peggiori figli di puttana di tutti, peggio pure di quelli che loro chiamano “terroristi” – perché i veri terroristi, per l’appunto, sono loro.

Per quanto tempo ancora riuscirete a far finta di niente? Già adesso per i loro schifosi interessi stanno fottendo tutto l’ambiente. Fin dove li lascerete arrivare, alla distruzione dell’intero pianeta?

Un film girato con abilità, come fosse un thriller psicologico e spionistico. E invece è tutto vero.

show

Laila: Telecomando senza comando

Tutto intorno a me cade a pezzi. Come il telecomando. Si tratta del telecomando del difettato apparecchio per il digitale terrestre. Chissà perché, questi apparecchi, chi più chi meno, sono tutti molto più difettosi di un qualsiasi televisore normale. Sono talmente difettosi da esserlo anche a livello di telecomando! Cioè, anche a livello di tecnologie che ormai da tempo dovrebbero essere acquisite e digerite e date per scontate… E invece no! Nel 2015, ancora non sono in grado di fare un telecomando che duri qualche anno! Ridicolo! E qui torniamo al discorso della tecnologia “usa e getta”, che industrie mafiose producono e lo Stato avalla perché mafioso anch’esso…

Partiamo dai tastini colorati, quelli che dovrebbero aprire la strada a menù particolari: i famosi tasti rosso, verde, giallo e blu. Questi tasti – che a me risulta che per legge siano obbligatori –, non è che non ci sono; ci sono ma non servono a nulla! L’unico impiego lo hanno se per caso si usa il televideo, altrimenti sono praticamente pezzi di plastica morta senza alcuna utilità! E questa è la prima volta che mi capita una cosa del genere. Fino a qualche tempo fa nessuno era arrivato a tanto, a vendere dei tasti inutili colorati che non servono a un cazzo! In pratica, visto che per legge ci devono stare – ma per fare ben altre cose! – i furbi produttori ce li mettono, solo che non hanno mai quelle funzioni avveniristiche che sulla carta dovrebbero avere.

Per non parlare dell’usura. Un normale mese di usura per questo telecomando equivale circa a quindici anni di usura per un telecomando normale, se non di più, perché ormai i telecomandi dei (vecchi) televisori, se sono buoni, durano anche tutta una vita e ci si deve occupare solo di cambiargli le pile. Invece per questo telecomando del digitale terrestre non valgono le normali leggi della Fisica, come provenisse da una realtà alternativa o da una dimensione parallela in cui il tempo scorre più velocemente.

Il primo tasto che ha smesso di funzionare è stato quello del volume, o meglio per far calare il volume. Questo perché quel dissennato di sesso maschile con il quale vivevo aveva l’abitudine di sparare l’audio al massimo. E io lo rimettevo sempre al minimo. Avrebbe potuto rompersi prima il tasto che alzava il volume, però si è rotto il tasto che lo abbassava, disgrazia mia. Per fortuna però funzionano ancora i tasti del volume sul telecomando del televisore, sennò non mi sarebbe rimasto che diventare sorda…

Il secondo tasto a non funzionare più è stato poi quello di avanzamento dei canali. Adesso funziona solo il tasto che va indietro. Provo a tenermelo buono e molto da conto, cercando di non premerci troppo sopra, per troppe volte… sennò son dolori…

Il terzo tasto che è partito è stato quello di “exit”, un tasto molto utile se, una come me, spesso vuol curiosare tra le trame dei film… Dunque mi sono dovuta inventare un altro modo per chiudere il menù interattivo dopo che le ho lette. Per fortuna continuando a pigiare alla fine si chiude tutto. Anche il televideo funziona così: pigiando un’altra volta sul tasto del televideo si torna allo schermo normale.

Poi un giorno mi sono accorta che anche un tasto che a dire il vero non era così utilizzato, o meglio non ultimamente, non funzionava più. Si tratta del tasto “menù”. Un tasto importantissimo perché permette di risintonizzare il decoder! Quindi per ora questa cosa non posso più farla…

Ben presto mi ha lasciato anche un altro tasto molto utilizzato, anche se non moltissimo, il tasto di accensione e spegnimento del decoder! Per fortuna il decoder lo spengo sempre staccando la spina – perché quando ha la luce rossa lancia un segnale acustico sinistro che non promette bene e ho sempre pensato denotasse una prossima possibile esplosione; per questo ho preso questa abitudine di staccare la presa. Ciò implica dunque che per accendere nuovamente questo dannato decoder la debba reinserire. E quando la si riattacca, come saprete, tutti i decoder, curiosamente, si accendono da soli e rimangono in quello stato, come succede ogni volta che va via la corrente e poi torna…

L’ultimo tasto per ora a lasciarmi è stato il tasto numero sette. Perché proprio quello? Perché una volta al dì metto su quel canale. Solo per questo motivo!

Dunque cinque tasti su trentadue, se non erro, non funzionano più. Non conosco altri telecomandi che possano vantare una tale media di dissesto…

Tutto intorno a me decade, si logora, muore, si incrina per la mietitura finale. Tutto intorno a me suggerisce l’idea della morte, con la quale convivo ormai dalla mattina alla sera, ventiquattro ore su ventiquattro, per sempre, da qui alla mia fine, amen.

Tutto vorrebbe convincermi che presto toccherà a me. Che il mio destino è già segnato, è stato già stabilito da tempo. E forse sarebbe il caso mi arrendessi una volte per tutte. Ma io ancora non mi arrendo. Perché non mi arrendo? Perché voglio vivere se delle volte è così difficoltoso mantenersi in vita?

Perché io non lo merito, io non merito di morire, penso. Io quindi non la darò vinta così facilmente a chi mi vuole stroncare, poiché diversa, lesbica, rara, unica e giusta rispetto agli altri. Sopratutto giusta, in questo mare di merda in cui sto e in cui stanno tutti. Tutti loro composti di merda.

Lailatele