Uscendo ho subito colto qualcosa di insolito. Mi è giunta una voce: ti sposavi. Incredibile! Incredibile anche perché ti avevo incrociata non più di tre giorni prima, ti avevo aperto il portone e ti avevo salutato. E tu mi avevi guardato con un’aria incredibilmente depressa, come invero tante volte ti avevo vista fare, tanto depressa che mi ero quasi spronato a chiederti se stavi bene, se tutto andava bene. Ma poi non l’ho fatto. Per non risultare intrusivo, fastidioso, perché delle volte, la cosa peggiore che si può fare è proprio quella di far notare a chi si sente triste quanto lo sembri, triste. Così me ne sono andato per la mia strada facendo finta di niente, e tu mi hai superato e presumo che non ti sia voltata indietro.
Oggi invece ho saputo. E allora mi chiedo come mai eri così triste, come mai pareva che dovessi partire per il fronte, come mai ti ho vista ancora più magra, sempre di più, e ora davvero stai esagerando perché rischi di rovinarti la salute… Proprio tu che eri così rigogliosa, che da bambina sembravi destinata a esser una donna poco formosa e di media altezza, ma crescendo invece sei diventata alta quasi quanto me… E quanto lo avevi riempito quel seno che avevo sempre creduto che sarebbe rimasto piatto! Adesso eri una donna che scoppiava di benessere, alta un metro e ottanta, e piazzata, e avevi le curve giuste nei punti giusti e per di più ti eri fatta crescere i capelli così lunghi che sprigionavi anche un notevole fascino selvaggio, un fascino selvaggio che in precedenza non ti avevo mai ascritto, a te che sembravi sempre così educata e minuta…
Ho saputo che saresti scesa alle 11:30. Allora avrei fatto a tempo a tornare per vederti col vestito bianco. Sì, perché stavolta volevo proprio congratularmi con te e farti i miei auguri di cuore. Ti auguro di essere felice!, ti avrei detto sinceramente baciandoti, sottraendoti per un attimo alle persone che avevano più diritto di me di reclamarti… E tutti si sarebbero chiesti chi ero, ma a nessuno in definitiva sarebbe importato, perché sarei presto scomparso così come ero apparso.
Prendendo l’autobus già pensavo al ritorno. Se faccio in fretta arriverò senz’altro in tempo, pensavo. Ma anche se faccio un po’ tardi, se l’autobus non passa. Non tenevo conto però dell’eventualità se avessi fatto molto tardi. In quel caso avrei potuto mancare l’appuntamento…
Quando ho preso la strada del ritorno, ho visto l’ora. Sarei sicuramente giunto per tempo, pensavo. Ma poi ho visto passare un autobus. Così ho imprecato essendo convinto di averlo perso. E non avevo voglia di aspettarlo per una mezz’ora. Allora mi son detto: poco male, me la farò a piedi. La giornata infatti era fresca perché aveva piovuto e non erano attese alte temperature, e io mi sentivo in forma. Mi sono incamminato ma presto mi sono accorto del mio errore madornale. L’autobus non era passato, o meglio stava passando adesso e io non potevo più prenderlo. Dunque quello che avevo visto passare prima non era il mio.
Poi ho visto passare un altro autobus (giusto), ma in senso contrario, allora mi son detto che, dato che era presto, avrei fatto a tempo ad arrivare anche se lo prendevo da capolinea a capolinea. Ma non sapevo cosa stavo facendo e quello fu il mio secondo errore.
Il percorso del mezzo è molto bello. L’autista ci porta con passo turistico vicino al Colosseo, al Circo Massimo. Fossi un turista davvero, scenderei e mi metterei a visitare tutto per bene: vorrei perderci la giornata. Ho questa voglia di farlo… Da quant’è che non lo faccio più? Ah, ma devo arrivare prima che il matrimonio se la porti via… La voglio vedere un’ultima volta vestita da sposa e poi lasciarla andare come lei vuole…
Riaffiorano ricordi di lei, in ordine sparso… Chissà perché mi ricordo di quella volta che faceva la ruota durante l’ora di ginnastica. Il bello era che poi rimaneva ferma come fosse stata appesa a testa in giù e io mi ritrovavo vicino la faccia il suo sesso… e quell’idea mi faceva impazzire… Erano i primi ardori in assoluto, le prime pulsioni.
Ricordo che ridevamo e scherzavamo sempre. D’altronde quello era il solo modo che conoscevo per relazionarmi con le ragazze: non sapevo far altro che sfotterle, delle volte anche pesantemente, ma questo lo avrei capito giusto una manciata di anni dopo… La cosa positiva comunque era che lei in genere non sembrava offendesi e ribatteva colpo su colpo. Era il nostro modo di fare. Una volta ti prendo in giro io, una volta mi prendi in giro tu. Poi un giorno, a forza di scherzare, esagerai e le feci sbattere il seno (che anche se era piccolo c’era! c’era!) con quella cosa dura. E allora vidi che ti piegavi e rimanevi in silenzio. Che succede?!, mi chiesi non avendo minimamente capito cosa fosse accaduto. Poi venne una tua amica a riprendermi pubblicamente per la mia goffaggine. Mi spiegò del dolore acuto che ti avevo inflitto e allora feci una cosa che non avevo mai fatto fino allora. Venni a guardarti dritta negli occhi, cercai il tuo volto, e ti chiesi umilmente scusa. E tu, ancora dolorante, che stringevi i denti per non piangere, mi facesti una smorfia di accettazione. Cinque minuti dopo ci tenesti a mostrarmi che era tornato tutto okay. Ma da allora niente più giochi pesanti…
Ricordo quella volta che stavi sempre a scambiarti il diario con la tua amica. Ci scrivevi una cosa, glielo passavi e lei ci scriveva qualcosa anche lei e poi te lo ripassava. Ridevate così di gusto, e mi mi faceste capire che stavate scrivendo dei segreti, dei segreti che un maschio come me non avrebbe mai dovuto leggere! Segreti che mi venne voglia d’intercettare. Vi rubai il diario. Ci riuscii con irrisoria facilità, sicuramente perché tu volevi in fondo che lo leggessi. E quel che ci trovai scritto dentro ebbe il potere di shockarmi. In quelle pagine colorate da pennarelli fosforescenti tu e la tua amica parlavate di me, e tu le chiedevi come avrebbe suonato il tuo nome accostato al mio cognome. Anche un citrullo come me comprese che ti stavi chiedendo come sarebbe stato un giorno sposarmi.
Ti restituii il diario provando molta vergogna, quasi rattristato. Mi sentii anche molto piccolo. Mentre io al massimo potevo tirarti la gomma da cancellare sul collo, scarabocchiarti una mano con la penna, insultarti per creare un legame… tu invece eri avanti, già ti stavi proiettando nel futuro, come invero fa qualsiasi piccola donna, anche da bambina…
Sull’autobus mi metto a fare qualche conto tenendo presente la velocità di marcia, che è davvero minima. Ummm… Se non parte subito dal capolinea potrei arrivare pelo pelo, forse neppure ce la farei. Poi finalmente arriva al capolinea sul serio. E lì ho una brutta sorpresa: è un luogo fuori dalla grazia di dio, sperduto, isolato, tendente al degrado. Ma non è quella la brutta sorpresa: l’autista infingardo neppure si ferma alla fermata, accosta poco più là. E questo vuol dire che… ha terminato il servizio: questo mezzo non ripartirà. Quindi ne dovrò aspettare un altro. E allora comincia la lunga attesa e capisco che non farò mai a tempo a tornare per vederti scendere da casa col vestito da sposa… Non potrò vedere quei tuoi occhi scuri e languidi. Non potrò vedere neppure il tuo sposo. Non potrò vedere che espressione avresti fatto qualora avessi incontrato per un attimo i miei occhi nella folla…
Riaffiorano altri ricordi… Di quella volta che nella gita stavamo seduti l’uno di fronte all’altra, e io ne ero molto contento. Però non eravamo soli e c’era quella tua amica molto più formosa di te che faceva girare la testa a tanti di noi, compreso me. Quella tua amica che in fondo era assolutamente banale e non aveva nulla di bello, se non quelle tette terza misura (che era tanto, visto la nostra età minima). Quella tua amica che avrei incontrato due anni dopo la fine della scuola per presto scoprire che non solo non avevo nulla da dirle ma che neppure mi dispiaceva di essermela lasciata alle spalle (e la cosa era reciproca), mentre a te continuavo a pensarti incessantemente e avrei continuato a farlo per anni; e la ragazza dopo che ci sarebbe stata in realtà la scelsi perché aveva qualcosa che ti ricordava… ma tu questo non l’hai mai saputo…
Durante quella gita, io, da vero stupido, davanti a te, mostrai in quell’occasione di preferire lei a te, in definitiva solo perché lei aveva quelle tette puntute portatrici di latte e antistress (nel senso che sarebbe stato bello strizzargliele con le mani)… Tu, anche quella volta, chinasti la testa da un’altra parte e stoicamente soffristi in silenzio, perché tu eri fatta così. Mai una volta che fosti cattiva con me per qualche motivo, motivo sensato o non sensato… In questo sei stata sempre unica: non mi hai mai fatto del male, per quanto mi ricordi, neppure quando avesti qualche motivo valido per farlo, quando avresti potuto essere incazzata. Non ti ho mai visto arrabbiata. Anzi una volta è successo… ma andiamo per ordine. Non era comunque per colpa mia…
Sempre in quella gita, mi ricordo che quando ci ritrovammo in albergo c’era una certa aria elettrizzata tra tutti noi maschietti: volevamo approcciare per la prima volta con l’altro sesso. Volevamo scopare! Non sapendo minimamente come funzionasse, ovviamente! I più di noi, compreso me, neppure avevano mai avuto una polluzione in vita loro! A ogni modo c’era uno di noi che non si faceva tanti problemi e che ci mostrò come toccarvi le tette (sì, sempre lì andavamo a infognarci, nelle tette!). Bastava bussare alla vostra porta e dire che si aveva qualcosa da comunicare, magari pure qualche ordine dell’insegnante da riferire. Poi, quando aveste aperto la porta, senza dire una parola o sforzarsi di infondere un senso a qualcosa che era solo quel che era, allungare la mano e tastare, come se i vostri seni fossero stati frutti da saggiarne la consistenza prima di comprarli. Davanti ai miei occhi quel tipo ve lo fece, lo fece a te a alla tua amica tettuta, lo fece a entrambe, con la tua amica puttanella che lanciò dei gridolini di piacere, e con te che avvampasti scandalizzata pur cercando di non farti prendere troppo dal panico. E allora io mi dissi: è così facile! Adesso lo faccio anche io. Così andai a bussare a quella stessa porta la quale qualche istante prima aveva accolto il lupo cattivo. Ed ero pronto a comportarmi anche io come lui… Però quella porta decideste saggiamente di non aprirla più fino a cena. E forse fu meglio così, dico io… Perché poi chissà che casino sarebbe successo, anche a me, che non sarei stato per niente capace di gestire le mie emozioni…
Sapevo che ti piacevo e tu dovevi averlo capito anche meglio di me che mi piacessi. Per questo poi cominciai a pensare, dopo la storia del diario, che forse era il caso di farmi sotto. Tuttavia forse esisteva (almeno) un impedimento tra noi: tu, a tuo dire, eri già fidanzata. Bella roba!, pensavo io: a tredici anni già fidanzata! Non ci credevo tanto. Credevo che ti stessi dando delle arie per non fare la figura di quella che sarebbe rimasta zitella. Inoltre il nome del tuo fidanzato era così comune che… sembrava inventato di sana pianta. Eppure quando me ne parlasti eri seria e sembravi molto convincente. E allora mi chiesi: ma ce l’avrà sul serio il ragazzo oppure no?
A un certo punto però neppure ci badai più. Perché compresi di essermi innamorato di te. E mi era presa proprio brutta: tanto che quell’estate ti avevo scritto una lettera d’amore annessa di disegno finale con un enorme cuore rosso con le nostre iniziali. Ricordo che un giorno l’amico con il quale giocavo sempre il pomeriggio, vedendomi “strano” e che non mi separavo mai da quel foglio si chiese che cosa fosse mai. E io, per la prima volta in vita mia, non osai rispondergli. E lui secondo me capì perfettamente cosa doveva essere: una dichiarazione. Tenni quella lettera con me per diversi giorni. Finché non capii che mi procurava troppo patimento. Non riuscivo a dartela e mi costava molto anche nasconderla in casa, con la paura costante che qualche impiccione (come mia madre) la trovasse e la leggesse. Così un giorno la strappai e la gettai nella spazzatura.
Ma non bastò compiere quel gesto per liberarmi di quell’inebriamento. Infatti, sempre nel periodo delle vacanze estive, un giorno mi convinsi a chiamarti a casa. Mi dissi: che ci vuole? devo dire solo due parole, due insulse paroline una di seguito all’altra. anche io che sono un pezzo di legno ce la posso fare. che ci vuole a dire “ti amo”? E poi sapevo che avrei dovuto attendere la sua risposta. Che forse mi avresti detto: mi dispiace, ma ti ho già detto che sto con un altro. A dire il vero era molto probabile che mi avresti respinto, ma io ormai ero troppo cotto per sottrarmi a quella umiliazione che mi avrebbe bruciato chissà per quanti anni…
Un giorno mi misi d’impegno per fare quella dannata chiamata che procrastinavo sempre. Attesi febbrilmente che in casa non ci fosse nessuno. Poi capitò il momento giusto e la feci. La prima volta non riuscii a completare il numero. La seconda volta feci fare due squilli e poi misi giù. La terza volta mi ficcai le unghie nella carne pur di riuscirci. Mi rispose tua madre e io chiesi di te. Eri in vacanza. Hai qualche messaggio per lei?, chiese. Nessun messaggio, risposi, non fa niente, signora… E non ti chiamai più. Da allora non mi sfiorò più l’idea di farlo.
Ma per qualche ragione, anche se pensavo sempre a te, anche se ti sapevo così vicina eppure irraggiungibile e ogni tanto ti incontravo vicino casa anche quando le nostre strade di studio ci fecero dividere, continuai a pensare ossessivamente a te. Speravo di incontrarti casualmente ma non ero in grado di mettere in atto alcuna strategia per arrivare a te… Così, mentre alla fine mi sarei invaghito di una che aveva il solo pregio di somigliarti (da lontano), lasciai che tu mi scivolasti tra le mani, lentamente ma inesorabilmente, sempre più lontano…
E poi un giorno assistetti a quell’unica volta in cui ti vidi arrabbiata. Eri uscita da casa tutta azzimata perché un tipo era venuto a portarti, immagino, a una festa. Doveva essere quello il tuo famoso ragazzo di cui mi ero sempre chiesto se esistesse sul serio. Ma poco dopo, neppure un’ora dopo, ti vidi ritornare stravolta. Eri furibonda e ti dirigevi dritta dritta a casa, con quello che ti veniva dietro, ma più per cortesia che perché ti volesse trattenere. Ti fece una domanda secca cercando di essere gentile. Sorrideva pure per cercare di indorarti la pillola, ma tu non eri propensa a concedergli nulla. Gli rispondesi rabbiosamente perdendo il controllo di te. Prima dicendo sì e poi no. La domanda comunque non era importante, lo capii. Era importante che lui doveva averti lasciato: forse ti aveva detto che non ti amava più e tu ci eri rimasta così male che non lo volevi più vedere e correvi per andare a piangere in camera tua. Da allora effettivamente ti cominciai a vedere sempre progressivamente più triste, che faticavi a sorridere. Quella tua mestizia fu inesorabile e crebbe come una malattia…
Mi guardo in giro nella piazza del capolinea. Pochi altri passeggeri derelitti come me condividono il mio stesso destino di attesa. C’è uno con i capelli lunghi e una valigetta che cammina avanti e indietro nel parcheggio attiguo. C’è una signora che si nasconde appena la noto. C’è una ragazza che mi guarda fisso. Ci sono tipi che parlano blandamente con altri autisti perdigiorno. Mi metto seduto su una staccionata di ferro mezzo arrugginita e guardo l’orizzonte, nell’unica direzione dalla quale dovrà venire l’autobus. È già tardi. Sono già in ritardo per vederti…
Un altro ricordo… molti anni dopo. Non eravamo più bambinetti ma ragazzi diciottenni. Una cenetta tra vecchi amici, per rinverdire qualche fasto del passato, una cena che non avrebbe avuto motivo di esistere, ma io ancora non lo sapevo che sarebbe stato meglio non rivedere più quelle persone che un tempo avevano condiviso con me qualcosa per scoprirle, tutte o quasi, delle estranee. Tutte tranne te. Peccato che quella volta mi comportai molto male e ti aggredii verbalmente senza motivo, perché in quel periodo le ragazze le cominciavo a trattare male, perché credevo che si facesse così. In compenso ne ricavavo solo odio (beh, a dire il vero, delle volte ho dovuto constatare con dispiacere che a trattarle male si ottiene di più, ma non voglio abbandonarmi al rancore)… Troppo tardi capii che con la mia cafonaggine avevo superato il limite. E io non sapevo chieder scusa. Tu, ferita quando non te l’aspettavi, accusassi il colpo e non mi parlasti più chiudendoti in un nobile silenzio…
Ecco finalmente l’autobus. Mi ci fiondo contento. Da quant’è che lo attendevo? Boh. Forse quaranta minuti, forse di più. Ma ormai è tardi. È tardi…
Rieseguo al contrario il percorso che mi ha portato lì. Rivedo i bei panorami di Roma. Di nuovo vorrei fermarmi a passeggiare con qualcuno, ma con chi? Con chi? Che poi non lo farei neppure perché fa un po’ troppo caldo adesso, anche se oggi la giornata è coperta…
L’autobus mi culla nel rione in cui abito da decenni. Ho l’impressione di avere la febbre. Forse un giramento momentaneo. Non è niente, non è niente… Arrivo al tuo palazzo. Non è più imbandito per la discesa della sposa. Dunque la sposa è già andata. Partita come un treno. Un treno che a un certo punto avevo deciso che non avrei mai preso, e spero che un giorno non mi biasimerai per questo e, comprendendomi, apprezzerai quanto ti ho voluto bene non facendoti soffrire, cioè risparmiandoti un sacco di cose che potevano essere molto brutte.
Da oggi non ti vedrò più. Non vedrò più i tuoi occhi tristissimi sempre con meno luce. Magari da oggi i tuoi occhi torneranno a risplendere come era quando eri bambina…
Non sei più bambina. Non sei più ragazza. Sei una donna. E da oggi pure una signora. Signora…