Scendo le scale adagio. Di sotto ho sentito rumori. So che c’è qualcuno che sta aspettando l’ascensore. A un tratto, mentre mancano una manciata di gradini al piano, scorgo una bambina fare capolino sulla scalinata per guardarmi. Mi sorride e mi dice subito un bel ciao, con una voce assolutamente buona, aperta e bendisposta.
Chiaramente contraccambio, anche se non ho idea di chi sia, perché si deve sempre salutare chi ti saluta, in particolare se ha il cuore ancora così puro.
La bambina si risposta verso l’ascensore, che nel frattempo è arrivato proprio quando metto piede sul pianerottolo. Mi accorgo che c’è anche quella che deve essere la madre. La vedo solo di spalle. Lei non saluta, non ci tiene a conoscermi, e forse è anche imbarazzata di quella sua figlia troppo espansiva che saluta così affettuosamente gli sconosciuti, gente che forse avrà visto una mezza volta quando è uscita a portar fuori il cane, oppure gente che ha la sola qualità di indossare una camicia estiva azzurra che sta simpatica alla piccola.
È anche per bambine adorabili come questa se vivo la mia vita. Queste bambine che ancora si fidano della gente, vogliono avere tanti amici ed essere amate da tutti, e non conoscono il male del mondo. Queste bambine che mi danno tanta speranza e colmano la mia anima di gioia.
Mese: giugno 2018
Frammenti: Tensione
«Tra di noi c’è tensione…»
Uscire dal sistema del debito
Ma chi lo paga il debito? E chi ce l’ha? E a chi lo dovrebbe pagare? Ma è lecito che si paghi, quel debito inestinguibile? È lecito che esista il debito? Ma non è solo tutta una grande serie di cazzate per farci preoccupare, tenerci sempre più in pugno e costringerci a ristrettezze economiche? Ma non sono forse dei criminali coloro a cui dovremmo pagare quel debito del cazzo?
Delirius Dementhia: Sclerosi galoppante
Scambio di battute in corridoio.
«Ti ha richiamato X? Ieri ha chiamato X…», dice lei.
«Non mi ha chiamato», rispondo sperando di togliermela al più presto dalle balle.
«Non ti ho chiesto se ti ha chiamato. Ti ho solo detto che ha chiamato ieri…», comincia a sclerare.
«No! Me l’hai appena chiesto! Rintronata!», mi inalbero.
Ecco con chi ho a che fare ogni santo giorno. Una che, non solo non ricorda nemmeno quello che ha appena detto, ma poi attacca briga continuando a sostenere che abbia ragione lei e sei tu quello che sbaglia.
Sto seriamente pensando di cominciare a registrare tutte le nostre conversazioni. Solo così, mettendola di fronte a una realtà che neppure lei potrebbe negare, potrei indurla perlomeno a tacere.
Frammenti: Bocca
«Perché, che c’ha la mia bocca?»
De Niro: “Fuck Trump!” Yeah!
Una voce nel vento
Avevamo tutti tra i diciassette e i venti anni al massimo.
Venimmo condotti in una grande sala, tipo aula universitaria, che poteva accogliere centinaia di persone. Per quanti eravamo, anche lì si faticava a trovar posto. Dovevamo esser arruolati. E quello era il primo discorso militaresco che subivamo. Nessuno sapeva bene a cosa saremmo andati incontro, neppure io.
Eravamo vestiti in borghese, si capisce, con gli abiti dell’epoca che ci rendevano forse un po’ più grandi di quanto non fossimo.
Fu subito evidente chi fosse il capoccia. Si trattava di un tipo tozzo, vestito tutto di nero, in alta uniforme da SS. Sarebbe stato lui a farci il discorso demagogico formativo d’indottrinamento, anche se presto sarebbe emerso come fosse appena in grado di parlare la nostra lingua, e la capisse ancor meno.
Curiosamente, il tipo, somigliava a Mussolini. Anzi era spiccicato. Solo che lui era un nazista germanico, Mussolini un fascista italiano. Ah, ma mostrava esattamente lo stesso cipiglio autoritario: quelle false pose da gerarca che si sente di valere tanto, mentre noi altri dovevamo essere tutte delle merdine, secondo lui.
L’SS ci considerò severamente entrare nella grande sala tuttavia sembrava altresì assai fiero che presto saremmo diventati nuova carne da macello utile alla causa nazifascista. Per lui doveva essere un po’ come per un macellaio carnivoro assistere a un’adunanza di giovani vitelli.
Io, fino a quel momento, mi ero imboscato, cioè avevo fatto finta di essere uno come tanti, senza particolari inclinazioni politiche. Ma una volta trovatomi in quella sala compresi che ormai avevo le spalle al muro e non avrei più potuto continuare a far finta di nulla. Ero finito in una trappola senza uscita. Mi ero fatto separare dai partigiani miei compagni e ora non ci sarebbe più stata occasione di tornare libero a combattere il regime fascista da ribelle quale ero.
Cominciò quasi a mancarmi l’aria. Un senso di soffocamento mi abbrancò i polmoni, per quanto provavo ribrezzo all’idea d’esser arruolato. Mi sbottonai i primi bottoni della camicia. Ma fu solo un palliativo. Non avrei mai trovato pace lì dentro.
Il mio destino era già segnato. E anche se lo sapevo bene, non potevo sottrarmi a essere come ero, perché io ero così, amante della libertà, partigiano, antifascista e anarchico. Non mi faceva paura il mio destino ferale. In quel momento provai una sorta di sollievo misto a eccitazione, perché sarei andato dritto incontro al mio ineluttabile destino di ribelle.
Di lì a poco il gerarca nazista cominciò a parlare pomposamente. Faticava a snocciolare parole comprensibili ma i più, per viltà, facevano finta che andasse tutto bene, e che non commettesse gravi errori grammaticali a profusione. Seguiva fedelmente quello che qualcuno gli aveva scritto su un foglio che leggeva, un misto di tedesco e italiano al quale lui stesso doveva aver partecipato a realizzare. Comunque doveva aver letto così tante volte quel dattiloscritto senza capo né coda da averlo in larga parte memorizzato. Così, spesso, il foglio gli serviva solo per rintracciare il filo del discorso ma lui procedeva più o meno spedito, stuprando le parole, con quel suo ipocrita piglio mussoliniano.
Non lo sopportavo. Non sopportavo lui, la sua retorica, il governo che rappresentava, e neppure il silenzio con il quale gli altri gli avevano messo addosso degli occhi deferenti pieni di sottomissione. Così parlai. Obiettai osando interrompere il suo discorso sgangherato. Mi alzai in piedi e feci una battuta. Dissi qualcosa del tipo che se voleva parlare agli italiani perlomeno avrebbe dovuto imparare la lingua.
Qualcuno rise. Diciamo che, da quel momento, circa la metà dei ragazzi avrebbero sghignazzato, in alcuni casi manifestandomi palese fratellanza e condivisione – e quello mi diede molta energia nel proseguire su quella via insurrezionale –, mentre un’altra buona metà non si azzardò a comunicare neppure una minima dose di solidarietà o affinità, perché avevano troppa paura di patirne le conseguenze.
A ogni modo penso che nessuno si bevesse quelle fandonie nazifasciste. Tutti sapevano che erano solo dei violenti e dei prepotenti i quali stavano tentando di coscriverci a forza nel loro esercito del male.
Il coglione pelato capì che lo stavo sfidando. Non credo che riuscì a interpretare una sola parola di quelle che gli dissi. Però le risa e gli sghignazzi li capiva, e lo fecero infuriare, anche se era chiaro che cercava di trattenersi perché, qualora avesse manifestato tutta la sua rabbia, in qualche modo avrebbe finito per darmela vinta, sopratutto agli occhi di coloro che osservavano esterrefatti il nostro confronto.
In un italiano stentatissimo, mi disse di fare silenzio; quello aveva già imparato a dirlo bene. Poi chiese consiglio sottovoce a un tale con i baffi e gli occhiali che gli faceva da assistente-zerbino. Questi era italiano e mi fissava con uno sguardo torvo che era tutto un programma. Avrebbe voluto uccidermi all’istante. Fosse stato per lui, mi avrebbe giustiziato lì, tra la folla, anche se così avrebbe assassinato chissà quanti altri ragazzi.
Dopo il conciliabolo dei due, il pelatone tornò a rivolgermisi. Mi disse di andare vicino a lui a parlargli, così avrei anche potuto interloquire con tutta la sala, se me la sentivo. Ma col cazzo che ci andai. See. Adesso gli dovevo anche facilitare il compito di prendermi. Non mi mossi. Continuai a insultarlo ancora più pesantemente e con un italiano forbito che accentuò la differenza tra me e lui: che stava anche a testimoniare che io ero una persona acculturata e su me tutte quelle balle propagandistiche non avrebbero attecchito.
Alzai il tono della mia voce e, guardandomi intorno, riscontrai occhi lucidi. Irrefutabilmente le mie parole erano riuscite a toccare i cuori di alcuni astanti e a scaldarli.
Di lì a poco si scatenò una specie di acchiapparella e delle guardie – curiosamente in quel momento ce ne erano solo un paio – cercarono di acciuffarmi, ma senza fortuna, perché io ero troppo più veloce e agile di loro e più bravo a sgattaiolare in mezzo la gente, mentre esse in confronto a me apparivano goffe e appesantite. Era solo per via di quelle armi in pugno se si sentivano migliori di me.
Riuscii a tenerli in scacco per dei lunghissimi minuti, dopo i quali alzai il tiro decidendo di divulgare le mie idee con ancora maggior convinzione. Riuscii a ottenere che almeno un terzo dei ragazzi mi seguisse in quella che in breve si trasformò in una vera e propria sollevazione. E chissà come sarebbe andata se a un certo punto non fossero giunti i rinforzi nazifascisti allertati dal tipo viscido con gli occhiali che, alle prime avvisaglie di ammutinamento, li aveva fatti chiamare.
Di lì a un’ora tutti noi che ci eravamo rivoltati venimmo fucilati nella piazza antistante la sala, davanti agli altri ragazzi che avevano assistito a tutta l’evoluzione della vicenda senza parteciparvi. Nessuno di noi volle esser bendato.
Qualcuno penserà che il mio sacrificio fu inutile. Ma io non la penso così. Perché ci sono dei momenti nella vita di un uomo in cui bisogna scegliere da che parte stare, non si può rimanere nel mezzo, perché il mezzo non è neutrale, sta comunque dalla parte marcia e sbagliata. Per cui mi sentii obbligato a fare quel che feci e, anche sapendo che sarei stato giustiziato, lo avrei fatto lo stesso. Non ho rimpianti in merito.
Anzi, ne vado orgoglioso. Perché ho modo di ritenere che fui da esempio ad altri. E che non fu un caso se poi tra quei giovani ragazzi che assistettero alla sommossa ce ne furono un’altra ventina che si sollevarono combinandogli un bel casino: una notte fecero saltare in aria tutta la caserma ricolma di nazifascisti.
Così non vincemmo la guerra in quell’occasione, però fummo fieri di noi, dei nostri sacrifici, di aver dato il sangue per una causa giusta, irreprensibile e inalienabile. La libertà dai soprusi dei prepotenti.
“Il ministro della malavita”
Non è GRAVISSIMO che un ministro minacci un famoso scrittore che si batte contro la mafia di togliergli la scorta… perché gli sta antipatico e gli fa opposizione?!?
L’origine del male
Sentivo che incombeva un grave male intorno a me, qualcosa che avrebbe potuto schiacciarmi… Per questo, quella sera, disperato, la chiamai. Lei capì presto che il motivo della telefonata era qualcosa che fino allora avevo sempre tenuto ben lontano da noi – qualcosa che pure improntava la mia vita molto più di quanto lei e io stesso avessimo potuto pensare. Non fu necessario dirle molto: «Qui c’è un problema, stanno litigando…», riuscii solo a spiccicare. E i rumori e le urla di sottofondo testimoniavano che non esageravo e che in quel momento qualcosa si stava rompendo per sempre.
Sennonché lei non pareva molto propensa a concedermi troppe attenzioni, a coccolarmi, a starmi appresso come altre volte. E poi c’è da dire che invero non è che potesse farci molto. Forse avrebbe potuto propormi solamente una cosa: vederci, così da scappare insieme da qualche parte per qualche ora, fuggire assieme per farmi ritrovare la mia perduta serenità.
Ma si vede che per lei quella sera non prevedeva piani simili, o comunque lei non ne aveva proprio voglia. Così mi disse solamente di fregarmene. Mi rimase impresso quel suo consiglio. Fregarmene: perché lei faceva così quando pure a casa sua i suoi litigavano. Ma quello che stava avvenendo da me era qualcosa di diverso, peggiore. Altrimenti non l’avrei chiamata. Era qualcosa sicuramente destinato a rovinare le vite di qualcuno, forse di tutti noi che appartenevamo a quella cerchia malata, la quale col tempo non avrebbe potuto che disfarsi sempre più come un frutto coi vermi. Il suo destino, il destino della cerchia, infettata dal male, era già segnato.
Lei non capiva che io avevo chiamato lei, e non un altro, perché amavo lei, perché solo lei avrebbe potuto avere in teoria il potere di cavarmi fuori da quel tormento. Ma lei questo non lo sapeva, o lo disconosceva. Lei non voleva pasticci e pensava che quelli fossero solo problemi miei. Così in qualche modo mi voltò le spalle e cercò di chiudere la conversazione al più presto per non rimanerne invischiata. E, mentre io ero ammutolito, e lei continuava a ripetermi di fregarmene, e in sottofondo si sentivano urla insensate e disumane, lei mise giù. E di quella cosa non mi chiese più niente, nemmeno il giorno dopo.
Io avevo chiamato lei e non un altro, ma lei non aveva voluto quell’investitura. Per questo lei mi faceva stare così male.