Sapevo che Cinthya era ferma alla frontiera, precisamente in un paesino molto vicino al confine, lo sapevo perché me lo aveva detto lei. Lei, che per una volta aveva messo da parte il suo orgoglio, mi aveva chiamato per dirmi se le potevo “prestare” i soldi per il viaggio, perché lei non ne aveva più e doveva tornare in Russia al più presto. Provò a dirmi che era per via della sua mamma malata, ma quella panzana era così malmessa che neppure lei riuscì a infonderle un senso di verità. No, la verità era che voleva rimpatriare perché si era stufata di fare la fame all’estero, e se doveva fare la fame, le sembrava che da ultimo fosse molto più conveniente farla nel suo paese, dove avrebbe potuto contare su un vasto numero di parenti che l’avrebbero aiutata, piuttosto che per l’appunto ritrovarsi profuga da qualche parte del mondo rasentando sempre la povertà, facendo con i parenti la figura di quella che ce l’aveva fatta, ma in realtà pensando un giorno sì e uno no a come sbarcare il lunario perché non aveva più un soldo, e non ce l’aveva mai avuto. Senza contare la cocente sensazione di sentirsi sempre sola al mondo, con tutte quelle persone che frequentava interessate solo a portarsela a letto, quando lei ormai era allettata semmai a farsi offrire una cena (sennò non si scopava, nemmeno c’era da dirlo).
La sua situazione economica era arrivata a esser così sconsolante che alla fine, a forza di rimandare il viaggio per penuria di denaro, si era detta di partire ugualmente, che poi i soldi per il biglietto li avrebbe rimediati. Ma si era illusa, ed erano ormai giorni che stanziava in quell’alberghetto di provincia non essendo abilitata né a pagare il conto dell’albergo, che pure non era affatto pretenzioso, né a mettere un poco di soldi da parte per il viaggio. Così non le era restato che chiedere aiuto a tutti i suoi amici, tra cui me, i quali, guarda caso, avendo pagato già lo scotto di avere avuto a che fare con lei e non essendone rimasti affatto contenti, fino a quel momento nessuno le aveva sganciato niente. Per questo lei, disperata, si era rivolta anche a me, a cui non parlava da anni; a me, che ero stato bellamente lasciato, o meglio aveva fatto in modo di farsi lasciare nel momento in cui avevo scoperto che aveva una tresca di cui non aveva detto niente, per non tradirsi, neppure alla sua più cara amica, la quale, anch’essa vittima delle sue balle, invece mi aveva sempre spinto tra le sue braccia convinta che la povera Cinthya fosse tutta sola e abbandonata e si sentisse molto triste da quando era stata mollata in precedenza… Ma anche qui era il contrario, ed era lei che aveva mollato il suo ex, salvo poi rimpiangerlo amaramente, perché lei faceva sempre così!
Dopo la sua chiamata, adesso passavano le ore e io pensavo a lei. Ero costretto. Mi immaginavo la sua faccia depressa. Immaginavo quella povera donna, certo molto stronza, che con me si era comportata molto male e scorrettamente, che era pur sempre una donna che soffriva. C’era la vita che la batteva per i suoi peccati. Sembrava che il destino le facesse pagare tutti i suoi reati di presunzione in maniera che ogni volta che lei si credeva più furba o prossima a incamerare chissà quale grossa fortuna, sia dal lato economico che sentimentale, ogni volta le rimetteva la testa sotto l’acqua facendola bere e ricordandole che lei, sì, lei, non ce l’avrebbe mai fatta a sfangarla definitamente, e avrebbe sempre dovuto lottare, per tutta la vita, per rimanere a galla, perché lei non aveva santi in paradiso, e i pochi protettori sui quali avesse potuto contare in vita sua, aveva sempre commesso il gravissimo errore di allontanarseli in malo modo, pugnalandoli nelle maniere più vili e colpevoli che si potessero, proprio come era toccato a me…
Tutti i miei conoscenti sapevano di quella questione, come pure sapevano del rapporto zoppicante che avevamo intrecciato anni fa: sapevano che non era mai stata cosa che sarebbe potuta andare in porto, che lei era una zoccola di prim’ordine che sapeva farti gli occhi dolci alla bisogna ma poi ti ingannava alla prima occasione. Per questo ognuno metteva bocca su quella faccenda e pontificava che non dovevo pensarla più, che se la doveva sbrigare lei, che se non mi avesse trattato così male forse avrei potuto intervenire, ma visto che era stata anche così ipocrita e cattiva da trascinare per mere questioni utilitaristiche la nostra storia per mesi pur sapendo che per lei era già finita da un pezzo, perché pensava che così ci avrebbe guadagnato di più, dovevo lasciarla al suo destino e nulla più. Non mi avesse trattato in quella maniera scorretta, avrei potuto comprensibilmente concederle quel prestito; ma visto lo stato delle cose, tutti dicevano che se lo meritava adesso di essere ridotta in bolletta non potendo fare niente. E qualcuno mi diceva pure di non prendermela troppo a male, che io avevo un cuore troppo premuroso, che tanto prima o poi le sarebbe capitato, in quell’alberghetto di periferia, di avere un qualche uomo più o meno facoltoso tra le mani e allora sarebbe riuscita ad avere da lui il denaro che le serviva; sennò poteva sempre imbattersi in qualche camionista che le avrebbe concesso un passaggio per una destinazione non troppo distante da quel paesino dove doveva recarsi.
Dunque non mi dovevo dolere. Ma io mi dolevo ugualmente anche se lei non faceva più parte dei fatti miei. Così, quel giorno, mi trovavo a passare lì vicino col treno insieme a tanti altri parenti e si parlava come al solito di quella faccenda di Cinthya che era diventata la barzelletta pubblica di tutti. Eravamo in attesa che il treno ripartisse. Loro confabulavano divertiti come al solito e io, senza dire niente, me ne uscii dalla carrozza, cambiai treno per dirigermi da lei.
Sul momento non si accorsero di quel che era successo, tanto erano presi a parlare di lei fittamente come comari di seconda categoria; ma presto dovettero capire che se me ne ero andato dovevo necessariamente averlo fatto per recarmi da lei.
Così arrivai presso quel paesino dove era bloccata. Quando scesi alla stazione la trovai subito là, con la faccia dolente esattamente come me l’ero attesa. Tuttavia lei sapeva che in quel periodo avrei dovuto passare da quelle parti, così non diede per scontato che fossi venuto per sganciarle i soldi. E difatti io, anche se l’avevo raggiunta, non ero ancora convinto di doverle fare quel prestito: in realtà ero venuto solo per constatare come se la passava. E lei se la passava esattamente come mi ero creduto. In qualche modo, guadagnava una miseria con dei piccoli lavoretti di merceria e anche come cameriera all’alberghetto nel quale alloggiava. Ma quel poco non le era bastato per metter da parte i soldi necessari per pagarsi il biglietto del treno che l’avrebbe portata dall’altra parte del confine nella sua patria Russia. Mi raccontò che riusciva a metter da parte ogni giorno qualcosa come una manciata di euro e che se avesse continuato con quel passo in un paio di settimane avrebbe potuto farcela a racimolare i soldi del biglietto e arrivare anche a partire con un minimo di denaro extra. Ciononostante le era sempre capitato qualche imprevisto. Le si erano rotte le scarpe e per forza di cose aveva dovuto comprarne di nuove. Oppure qualche volta fracassava qualche oggetto dell’albergo e glielo facevano ripagare. Una volta addirittura un fulmine le era piovuto quasi addosso e aveva distrutto il suo bagaglio, proprio mentre si preparava a prendere il treno! Quell’ultima cosa pareva proprio una panzana eppure sembrava che fosse vera perché me lo confermò anche un’altra ragazza che faceva la cameriera come lei nell’alberghetto.
Cinthya mi raccontò tutte queste cose sperando di smuovermi il cuore, ma io resistevo duro, anche se una parte di me mi diceva: e dalle questi benedetti soldi!; non li rivedrai più, ma se sarai fortunato te la sarai tolta dalla palle per il resto della vita! Sennonché non era certo neppure quello, che lei un giorno non fosse tornata nel mio paese a rompermi le palle in qualche altra maniera, perché lei era una persona completamente inaffidabile e delle volte era capace di fare delle cose apposta per procurarti fastidio, e già tante volte glielo avevo visto fare; dunque non si potevano nutrire cospicue speranze che avendole dato dei soldi non mi sarebbe più ricomparsa davanti. Neppure qualora glielo avessi fatto giurare. Anzi, se lo avessi fatto, se glielo avessi fatto giurare, ero certo che lei per ripicca non avrebbe mai mantenuto la sua parola.
Quando non doveva lavorare, passava tutto il tempo libero alla stazione, non so bene per quale motivo, con la nuova valigia con le cose da portarsi dietro al fianco, sempre pronta, come fosse già attrezzata per partire all’istante. Non so, forse voleva trovare il coraggio di prendere il treno anche senza biglietto. Tuttavia aveva sentito delle brutte storie su delle persone che erano state pescate dai controllori cattivi senza biglietto le quali erano finite in galera e in un caso una era pure morta dopo essere stata violentata orribilmente sia nell’orifizio davanti che in quello posteriore.
Per questo lei era sempre lì, che smaniava per partire, ma non riusciva a farlo ed era come se avesse avuto le catene. Su quella stessa banchina, scoprii presto che c’era anche un’altra persona che similmente a lei, anche se dal lato opposto, passava un mucchio di tempo vedendo passare i treni. Si trattava di un uomo alto, più o meno della mia età, con mustacchi folti e il cranio pelato coperto da un colbacco quando tirava molto vento. Lei lo aveva conosciuto e delle volte si salutavano formalmente. Immaginai che avessero potuto avere una qualche storia, immaginai anche che lei non diceva a nessuno che fosse il suo nuovo fidanzato perché quella notizia avrebbe potuto allontanare possibili avventori generosi; forse lei non diceva niente di lui perché suo compito era quello di procurarsi i soldi anche del biglietto dell’uomo e non solo del proprio. Ma vagliai questa ipotesi solo perché sapevo di che pasta era, e se davvero tra quei due c’era o c’era stato qualcosa davvero erano degli ottimi attori, perché sembrava che nessuno dei due, forse perché entrambi squattrinati, nutrisse sentimenti di alcun tipo verso l’altro.
Oramai erano passati giorni e anche io mi ero fermato là e sembravo non intenzionato a ripartire mai. Anche io avevo preso l’abitudine di stanziare per ore alla stazione, anche se io avrei potuto andarmene quando volevo. Così eravamo tre oramai a trascorrere ore intere in quella stazione cadente e scalcinata, con lei che veniva dopo aver fatto i lavori all’albergo e camminava per tutta la banchina con le sue scarpe col tacco, dandomi sempre un occhio per intuire se per caso mi fossi deciso a sganciarle quel prestito, ma sapendo che difficilmente sarebbe accaduto. Eppure c’era sempre una possibilità che succedesse. E lei mi guardava interrogativa chiedendosi lei per prima: ma che cacchio ci fa ancora qui?, perché non se ne riparte?, anche lui ha finito i soldi?, oppure è qui per assistere sadicamente al mio patimento giornaliero e vedere come butto via il mio tempo, come mi faccio ogni giorno più vecchia e stanca e brutta mentre la vita mi passa accanto come fosse un treno?
In realtà il primo che compariva in quella stazione e si fermava lì ogni mattina più degli altri era il russo coi mustacchi e il colbacco, sempre silenziosissimo, il quale pareva più in attesa di un qualche strano e misterioso arrivo che del coraggio per prendere un treno che l’avesse portato altrove, in un qualsiasi posto in cui il tempo scorresse in maniera normale e non fosse soggetto a quell’immutabile volgere che sembrava dimostrasse l’esistenza di un luogo ascoso del mondo in cui nulla mai cambiava né potesse farlo.
Dunque lui era il primo; poi venivo io, e poi veniva Cinthya, che con la sua falcata da donna, su quelle scarpe nere con il tacco alto si annunciava con il suo zoccolio. Prima sentivo quello scalpiccio e poi la vedevamo sfilarci davanti con la sua aria febbricitante. La vedevamo andarsi a mettere quasi all’inizio della banchina. Il russo era dall’altro lato, mentre io ero al centro. Non voleva starci troppo vicino perché voleva restarsene da sola con le sue paturnie e i suoi dubbi esistenziali.
Passarono i giorni in quello stato immutabile e anche io non sapevo che mi era preso e perché non me ne fossi ancora andato. Ogni mattina mi svegliavo e mi dicevo: vedrai che Cinthya se ne sarà andata e non la troverai più. Ma ciò non accadeva mai e allora mi veniva da chiederle quando la incontravo: ma ancora non hai messo da parte la cifra pattuita?, ancora sei qua?; stavolta che è successo che non ti permette di andartene? Ma non glielo chiedevo mai e se avevo quel dubbio che mi rodeva dovevo trattenermi per non darle l’idea che mi fossi impietosito per darle quel che le mancava, o peggio che la stessi sfottendo. Tuttavia lei, come presaga del mio pensiero segreto, delle volte veniva da me e mi illuminava di sua iniziativa, come non potesse tenersi quella questione per sé, o come dovesse rendermene conto perché ero pur sempre una persona molto eminente della sua vita e mi meritavo, dato che mi ero scelto quel ruolo di testimone della sua vita, di essere aggiornato. Così se ne usciva sempre con altre questioni: una volta il biglietto era invero aumento del venti per cento; una volta il fratello aveva avuto delle spese ed era toccato a lei spedirgli del denaro per non farlo carcerare o mettere in manicomio; altre volte aveva deciso di farsi una gran mangiata al ristorante dell’albergo il qualche era rifornito anche di pietanze di lusso le quali lei si era detta che almeno una volta nella vita doveva assaggiare, così si era riempita la pancia di sciccherie ma si era completamente svuotata il portafoglio. E io, quando mi raccontava queste cose, non sapevo se ridere o piangere per lei e le facevo una faccia fatalista del tipo: che ci vuoi fare, la vita è dura e dobbiamo soffrire, sarà per la prossima settimana, o forse il prossimo mese; e lei mi contraccambiava l’espressione. A ogni modo, vedermi ogni mattina lì con lei, o meglio sapermi lì che attendevo che la sua situazione si sbloccasse, se da un lato delle volte la faceva vergognare di lei perché lei era molto orgogliosa e non voleva farmi vedere come fosse ridotta male, dall’altro la confortava non poco, perché sapeva che, fosse accaduto qualcosa, per esempio si fosse sentita male, io sarei intervenuto per salvarle la vita. In realtà anche se ci odiavamo ci volevamo anche abbastanza bene affinché io mi palesassi come un suo scontroso angelo custode che però non faceva nulla di concreto per aiutarla fattivamente. Talvolta la nostra passata vicinanza mi faceva sognare di fare l’amore con lei, come era stato in passato, perché quando stai con una persona, anche se la odi, deve passare davvero molto tempo prima che tu non possa più pensare a lei in quella certa maniera, per questo c’è sempre il rischio di ricaderci, se quella persona non si toglie subito di torno. E una cosa del genere sono sicuro che pensasse anche lei, che, anche se non lo avrebbe mai ammesso né a me né ad altri, delle volte sorprendevo a guardarmi con occhi di brace, e se in essi poteva esser vero che c’era ancora dell’odio, delle volte fui certo che ci fosse anche passione e attrazione nei miei riguardi. A ogni modo non ci sfiorammo mai, né passammo mai una notte assieme, per non rischiare di ricadere in quel vizio che già sapevamo che non avrebbe fatto per noi…
Un giorno, dopo che erano passati chissà quanti mesi che ero fermo ancora là con Cinthya e con quello col colbacco, si presentarono dei miei amici a visitarmi. Passammo del tempo scanzonato, un’intera mattina, e loro fecero molte battute su Cinthya e qualcuna anche su di me, ma io spiegai loro che non era avvenuto il benché minimo riavvicinamento, che eravamo gli stessi che si odiavano e avrebbero preferito non vedersi mai più. Tuttavia quando mi chiesero perché allora rimanevo incollato là, non glielo seppi spiegare soddisfacemente, e non perché non ne fossi in grado o non ce lo avessi ben presente in quel mentre, ma solo perché sarebbe stato troppo complicato e dispendioso provare a farlo e la loro attenzione non sarebbe mai stata così desta per tutto quel tempo da permettermi di farglielo davvero capire. Dunque rinunciai e loro dovettero pensare che sotto sotto mi fosse tornata una brutta malattia d’amore, anche se non lo volevo ammettere…
Proprio quel giorno nell’albergo arrivarono anche molte persone russe che stavano sempre a parlare ed erano molto rumorose. Pensai che fossero i parenti di Cinthya che infine, dato che lei non riusciva ad andare da loro, erano andati da lei, forse per concederle quei benedetti denari che le avrebbero permesso di tornare con loro al paese di origine e rimanere sempre lì con loro, in quel loro caldo e invadente affetto alcolico. Difatti dai loro toni si poteva facilmente evincere quanto fossero dediti ad essere alticci….
Mi prese una strana paura. D’un tratto fui certo che lei avesse parlato loro di me, e che loro fossero venuti per convincermi a sposarla. In tal caso sarebbe stata assai dura divincolarmi dal loro abbraccio tentacolare e scapparmene a casa mia. Mi avrebbero detto: se non la ami allora perché sei rimasto tutto questo tempo qui con lei a vegliarla? E non avrebbero mai accettato di comprendere la verità, e non c’era dubbio che me l’avrebbero fatta sposare con la forza, anche qualora lei non avesse voluto, come era probabile che fosse. D’altronde poteva anche essere che lei avesse parlato di me di proposito in quella maniera ambigua così da suscitare in loro quella reazione stizzosa e irruente, per farli irrompere nella mia e nella sua vita in maniera da obbligarmi a impalmarla, così perlomeno si sarebbe sistemata e non avrebbe più patito la fame. Poi certo avrebbe continuato a fare quel che voleva e vedersi con chi voleva, e io sarei presto diventato il babbeo cornuto marito di Cinthya, innumerevoli volte cornificato, che però non poteva lasciarla altrimenti i suoi parenti violenti gli avrebbero spezzato tutte le ossa per vendetta.
Li sentivo sbraitare ad alta voce, nella sala d’aspetto, mentre io ero al corridoio dopo. Mi venne voglia di scappare. Ecco, adesso volevo lasciare quel posto davvero e non mi interessava più sapere come sarebbe finita l’infinita vicenda di Cinthya e del suo viaggio che non riusciva a completare. Sgattaiolai all’indietro in cerca di un’altra uscita. Non dovevo farmi vedere da loro altrimenti mi avrebbero subito catturato e messo le mani addosso… Quando quasi ero fuori, incontrai uno di loro non troppo alticcio che parlava con un altro. Nemmeno mi guardarono. Comunque dissero qualcosa che mi fece capire che su di loro mi ero completamente sbagliato: dissero che sarebbero partiti l’indomani in direzione della festa della birra in Germania e che non vedevano l’ora di sbronzarsi per bene. Non erano i parenti di Cinthya, e non mi avrebbero dunque mai obbligato a sposarla. A ogni modo apprendere quella cosa mi fece molto riflettere e mi lasciò un senso di svuotamento a cui non saprei fornire un nome.
Una settimana dopo ero sempre a metà banchina, col russo col colbacco sul lato opposto. Incontrai Cinthya che come sempre si dirigeva all’inizio della banchina. Aveva la faccia triste e malinconica di sempre. Mi disse buongiorno e poi si andò a collocare al solito posto. Niente lasciava intendere quel che sarebbe accaduto il pomeriggio. Una cosa che finora non ho ancora detto è che delle volte anche i pomeriggi uno di noi tre afecionados della stazione poteva ritrovarsi sulla banchina, anche se esisteva una specie di regola non scritta che il pomeriggio fosse libero e quindi lo passavamo come ci pareva. Io in genere stavo in albergo nella mia stanza a guardare la televisione, sennò delle volte mi facevo lunghe passeggiate per quei sentieri collinari così gradevoli, perché si poteva camminare per chilometri senza incontrare anima viva se si prendevano le strade meno battute. Quel pomeriggio tornavo proprio da una scarpinata quando mi venne voglia di prendermi un caffè alla stazione. Incontrai Cinthya che con la sua valigia finalmente era salita su un treno. Era affacciata al finestrino, con un volto contento ed emozionato. Appena mi vide fu lei ad attirare la mia attenzione, con un gesto del braccio che era un saluto di addio ma anche un invoglio ad avvicinarmi. E io mi recai con ancora il caffè caldo in mano davanti al suo finestrino.
In conclusione oggi parto, ho messo assieme tutti i soldi… fino a ieri non lo sapevo… Ho provato a cercarti per salutarti ma tu non c’eri, mi disse un poco imbarazzata.
Ero fuori a camminare, le dissi sbalordito.
Poi subentrò un momento di impacciato silenzio tra noi. Dopo tutto quello che avevamo condiviso, dopo che ci eravamo quasi rassegnati a incontrarci tutte le mattine in quella maniera strana, quel giorno veniva posto fine al nostro rito fisso. E sembrava che entrambi accusassimo ora un qualche affanno al cuore per la prossima perdita perché ci eravamo ormai abituati l’uno all’altra.
Volevo salutarti, ci tenevo, dopo che per tutto questo tempo sei stato qui, a controllarmi…, mi disse quasi tra le lacrime, mentre il tempo all’improvviso non solo riprese a scorrere ma lo fece anche alla velocità della luce, e anche io mi resi conto che non mi sarebbe bastato, qualsiasi cosa avessi voluto dire o fare. Così quel che successe si affastellò tutto insieme e non mi diede tempo di registrarlo a dovere (e forse riparlandone oggi mi rendo conto che ho colmato i vuoti con la mia fantasia). Così oggi di quegli istanti frementi ricordo solo attimi fugaci trasfigurati dai ricordi… Le parole che non venivano, non riuscivo a pronunciare; ma poi mi vennero di getto come un rubinetto otturato che si spurga (e fu un vero sollievo potergliele dire). Buona fortuna, Cinthya, stammi bene, le dissi… Il fischio del treno che annunciava che partiva… Il suo sguardo interrogativo che per un attimo si chiese se ero stato io infine a metterle sotto la porta della stanza che occupava la busta con il denaro necessario a partire… Il treno che cominciò a muoversi mentre me la portava via… Quel suo sguardo che non riuscì a risolvere quel dubbio che si sarebbe portata nella tomba, ma che infine mi si aprì in una maniera che stava a significare che anche se non ero stato io, mi voleva comunque bene, anche se ormai era troppo tardi per ricucire il nostro rapporto ormai troppo sbrindellato… Il treno che le faceva scomparire la faccia mentre scompariva anch’esso verso valle… E un attimo prima lei c’era, e l’attimo dopo non c’era più.
Rimasi basito con ancora il caffè in mano. Nel silenzio. All’altro lato della banchina c’era sempre il russo col colbacco. Lui davvero era immobile, non si era mosso, e sarebbe rimasto per sempre lì fino alla fine dei suoi giorni.
Trascorsero minuti di cui non ho memoria. So solo che quando mi “risvegliai” il caffè nel bicchiere si era freddato. Lo assaggiai. Decisi di non berlo. Me ne feci fare un altro. E dopo mi recai subito allo sportello dove si facevano i biglietti. Ora potevo andarmene anche io sapendo che Cinthya era indirizzata verso casa.