Ero alla mia prima esperienza di lavoro. Ricordo il fastidio di avere quegli orari fissi, di recarmi quasi tutti i giorni in quel posto quasi fuori città, di dover prendere i mezzi pubblici in orari che non decidevo io.
Il primo tratto era con la metropolitana. Poi c’era da prendere quell’autobus extraurbano che passava al massimo ogni mezz’ora. Per fortuna avevo adocchiato una donna che incontravo quasi ogni volta che mi piaceva molto, che mi rendeva il viaggio meno tedioso e più intrigante.
Dopo alcuni mesi di frequentazione, sentivo di sapere tutto di lei. Era una delle prime a salire sull’autobus, delle volte anche prima di me. Delle volte la trovavo seduta al suo posto (sempre davanti, mentre io mi mettevo dietro o a metà), con l’aria sempre pensosa o anche un filino inalberata in chissà quali stressanti tematiche di lavoro.
La cosa che mi piaceva più di tutto di lei e che in principio mi aveva colpito era ovviamente il suo volto. Aveva una specie di capelli con un caschetto lungo (vorrei essere un parrucchiere per saperlo descrivere meglio, ma purtroppo non ho neppure i più semplici dettami in questa materia). Insomma era un taglio femminile ma elementare. I capelli venivano così semplicemente se li si faceva crescere e poi si tagliavano pari quando arrivavano alle spalle, in maniera che sembrassero sempre della solita lunghezza. Erano abbastanza lisci ma non liscissimi. E avevano un colore molto bello che credo fosse frutto di una tintura perché in genere è molto raro trovare della gente con quel colore di capelli. Era una specie di arancione innestato con il marrone (purtroppo non ho sotto gli occhi la tabella col nome dei colori altrimenti sarei più chiaro, forse).
La sua espressione era buffa e attraente, con mascella scolpita, zigomi forti, lievemente scimmiesca, e con labbra diritte ma non carnose. E poi c’erano i suoi deliziosi occhi scuri, leggermente convergenti verso l’interno, appena per renderli belli come quelli di una bambina piccola che fissi la matita che ha nella manina a pochi centimetri da lei. Nella sua espressione c’era un non so che di indignato, ma questo credo di averlo già detto.
Veniamo al corpo. Non era perfetta. Però di certo non avevo nulla da ridire. Rimaneva un po’ tozza, con la parte inferiore del corpo un po’ tendente al grassoccio, mentre quella superiore irrimediabilmente magra. E aveva le gambe un po’ storte verso l’interno. Spesso indossava pantaloni che le evidenziavano un po’ il grosso sedere. Avesse voluto farselo notare di meno, sono certo che avrebbe usato la gonna. Sennonché sono anche convinto che ricorresse saltuariamente alle gonne perché non voleva risultare troppo femminile nell’ambiente di lavoro, e forse temeva di non avere gambe così belle da esser mostrate.
Per mesi immaginai la sua voce nella mia mente, una voce in accordo con il corpo tornito il giusto e il suo visino accigliato. La voce che immaginai era tenera e armonica e dolcissima. Poi però un giorno potei udirla davvero, la sua voce… Quel giorno un signore se l’era presa con l’autista del mezzo perché a suo dire non rispettava gli orari: in realtà le sue critiche apparivano piuttosto pretestuose e sembrava che il tipo cercasse meramente una ragione per attaccar briga, dato che gli rodeva già abbastanza di suo. A ogni modo la mia bella prese le sue parti e disse: hanno sempre ragione loro!; volendo affermare che tanto non avrebbero mai ammesso, gli autisti, di avere qualche colpa se con il loro mezzo passavano alla fermata troppo presto o tardi rispetto all’orario dichiarato dalla tabella alla fermata.
La sua voce era molto diversa da come mi ero immaginato. Tanto che quasi rimasi male di non averla trovata come speravo. Per parecchio tempo la giudicai addirittura brutta! Insomma, mi ci volle un po’ per comprendere il dono divino che fosse. Proprio così. Perché tramite essa svelavo l’ultimo tassello che mi mancava per completare il quadro preciso della sua personalità. Tramite quella voce precisa e puntigliosa con venature isteriche comprendevo finalmente anche la natura di quel suo broncio severo e orgoglioso. Lei era una donna che non le mandava a dire, del tutto consapevole delle magagne del mondo, che la facevano assai infuriare. Era una donna con dei pensieri e dei sentimenti genuini, i quali scaturivano da lei come acqua di sorgente naturale che rompe gli argini sassosi da cui sarebbe cinta e deborda laddove la forza della corrente la porta, perché non ci si può opporre alla forza di un’acqua sorgiva che zampilla!
Già da parecchio avevo cercato di metter in tavola con lei una serie di giochi di sguardi, nonostante avessi sempre gli occhiali da sole indosso. A ogni modo sapevo che gli occhi, i miei occhi, si vedevano ugualmente da dietro quelle lenti affumicate, perché quel gioco in precedenza lo avevo già fatto con una moretta che addirittura si era alzata dal suo posto per venirmi a sedere vicino, una volta che si era accorta che la guardavo.
Ecco, io non volevo che la mia musa si rivelasse superficiale e spregiudicata come la moretta. Ed ero certo che non lo fosse perché non ci vuole molto per comprendere chi sia davvero una persona, e delle volte basta davvero solo osservarla per mesi e ascoltare ciò che dice e come lo dice.
A ogni modo, questo gioco di sguardi di cui sopra non è che mi avesse reso granché. Lei si era accorta che la guardavo con interesse ma mi aveva contraccambiato solamente con moderato garbo. Come a dimostrare che forse le potevo pure interessare, ma certo lei non era del tipo che usava quegli espediente visivi, né era una donna facile che si potesse rimorchiare così sull’autobus. Inoltre c’era il piccolo particolare che credo fosse sposata. Infatti mentre io avevo venticinque anni e mi trovavo alla mia prima esperienza lavorativa della vita, lei doveva avere qualche annetto più di me. Doveva avere sulla trentina, forse anche trentacinque, e si recava a lavoro da chissà quanti anni, e la sua vita si era irregimentata in una data maniera che non prevedeva né richiedeva scossoni.
Però volevo almeno conoscerla. E che potevo fare per conoscerla? L’unica cosa sarebbe stata andare lì e conversarci, attaccare bottone con un pretesto, magari parlando male del governo (sicuramente mi sarebbe venuta appresso!). Ma, inutile dire, non avevo le palle per farlo. Per carità! Mi nascondevo tra la gente. Ero troppo timido. Temevo troppo i rifiuti. E poi ero un sognatore perso. Uno di quelli che col tempo sarebbe capace di innamorarsi alla follia di una donna che si incontra tutti i giorni sull’autobus, e nutrire quella passione giorno dopo giorno, fino a farla diventare ossessione, fino a preferire quell’illusione a una qualsiasi sensata seppur più banale e realistica storia con una tipa concreta, con i suoi pro e i suoi contro. Quello ero io in quel periodo.
Per cui è chiaro che, visto lo stato delle cose, non facevo né potevo fare nulla. Assolutamente nulla!, se non sbirciarla da lontano (mentre lei si accorgeva di me sovente), sperando di non eccedere con gli sguardi che le buttavo e che non li cominciasse a ritenere oltremodo fuori luogo.
Poi però ebbi quel colpo di fortuna… Un giorno, una mattina che non mi ero recato nel solito posto e stavo andando in tutt’altro luogo, nei sotterranei della metropolitana, mi imbattei proprio in lei. Eh, sì: ormai la sapevo riconoscere anche a distanze chilometriche. Intuii le forme indimenticabili del suo corpo. Vidi che la sua altezza e i suoi abiti e la sia capigliatura mogano corrispondevano. Quelle spalle erano le sue. E anche la sua andatura, che pareva che avesse dei sassolini nelle scarpe, era la stessa. Così, quando si trattò di salire sul vagone, mi mossi contro la fiumana di folla per capitare nel suo scomparto.
A quell’ora la metropolitana che andava verso il centro era abbastanza affollata e sul vagone dovetti farmi largo a spallate pur di avvicinarla. Per un attimo l’avevo persa di vista ma mi era sembrato di vedere che avesse trovato posto e si fosse seduta. Era anche fortunata… Così mi portai verso il punto in cui l’avevo vista essere inghiottita dalla moltitudine dei passeggeri.
Alla fine era proprio lì. Feci in modo di mettermi esattamente davanti lei montandomi su una faccia del tipo: che bello rivederti qua! ti cercherei in capo al mondo pur di vederti!
Lei si accorse istantaneamente di me. Ma purtroppo la sua reazione non fu così felice come speravo. Una volta che gli fui sbucato davanti, lei mi guardò dal basso cercandomi subito la faccia con un’espressione molto scossa del tipo: ma questo qui mi pedina?! come mai l’ho incontrato anche oggi che sto andando in tutt’altra direzione di quando lo incontro sempre?! non vorrà mica tampinarmi, il bastardo?!
Così, presto, la mia aria felice si fece greve e intristita. Non solo non era stata felice della lieta coincidenza ma aveva subito equivocato che avessi potuto seguirla. Un disastro totale su tutta la linea! Che tra l’altro pregiudicava pesantemente anche i nostri possibili contatti futuri perché lei sarebbe rimasta sempre sulla difensiva quando mi avrebbe incontrato al pomeriggio al solito posto. Anche se a quello, come è comprensibile, non avevo ancora pensato perché ero troppo preso da quel momento, in cui mi vergognavo come un cane di essermi fatto vivo.
Mi vergognai così tanto che pensai che fosse opportuno cambiare dislocazione. Così, appena alla fermata dopo, finsi di dovermi spostare per dover scendere, quando invece mi toglievo dalla sua vista indignata solo perché aveva avuto quella reazione così scarsamente giuliva nei miei riguardi. Almeno riuscii a calmarla.
Il giorno dopo sapevo che l’avrei incontrata al solito posto al solito capolinea di autobus circolare e paventavo molto quell’incontro. Speravo che non l’avrei sorpresa con quell’aria accusatoria sul volto. Non lo avrei proprio sopportato.
Quando salì sull’autobus registrai appena la sua presenza e decisi di guardare fuori dal finestrino nella direzione opposta alla sua. Lei, vidi dal vetro del finestrino che mi faceva specchio, mi guardò un solo istante: poi fu soddisfatta che non la stessi fissando.
Così per un periodo davvero potei ammirarla solo saltuariamente e di sguincio, quando lei era di spalle, perché dovetti riconvincerla che non ero un poco di buono e che quell’incontro in metropolitana quella mattina era stato del tutto fortuito e non il frutto malvagio di un mio pedestre pedinamento.
Ma per fortuna il destino mi restituì quello che mi aveva tolto e un giorno accadde l’impensabile. La rincontrai ancora una volta, ma stavolta nelle strade vicino una fermata dell’autobus, dove cioè era normale che avesse potuto vedermi. Non so perché si era spinta da quelle parti in cui io mi muovevo sempre, so solo che era lei, bella, con la morigerata borsetta da donna perbene a un lato, che camminava muovendo quelle gambe tornite con il solito lieve impaccio. Camminava accorta per la strada carente di marciapiede stando bene attenta alle macchine e ai possibili incontri sulla strada. Io in quel momento stavo proprio camminando su quella strada ma nella direzione opposta, ed ero fortunatamente in compagnia di una bambina, che poi era la sorellina di un mio amico, di dodici anni, che per me stravedeva. Quando incrociai la mia bella abbassai lo sguardo per non darle modo di credere che la fissassi. E in quel momento la sorellina del mio amico disse qualcosa che le lasciò capire quanto mi amasse e mi stimasse. Tra l’altro le stavo anche tenendo la mano per via delle macchine che sfrecciavano. Così credo che per lei non fu difficile capire la mia vera natura e che, se quella bambina pendeva così tanto dalle mie labbra, doveva essere perché ero un bravo ragazzo. Un bravo ragazzo che si occupava dei bambini più piccoli per via del suo buon cuore.
Così credo che da allora non pensò più che potessi essere un maniaco sessuale o qualcosa di simile. E io potei riprendere a guardarla, anche se con meno sfacciataggine. E lei tornò a guardarmi, come a dirmi: buongiorno; come mi considerasse una specie di compagno d’avventura, visto che quasi tutti i giorni prendevamo l’autobus alla stessa ora assieme, e oramai eravamo per forza di cose almeno un po’ amici.
Una delle ultime volte che la vidi ricordo che mi riservò una sorpresa che me la fece sentire più vicina. Era il lunedì dopo che la mia squadra del cuore aveva vinto il campionato. Si presentò sul mezzo con legata alla borsetta un’impenitente sciarpetta della mia squadra. Vederla ammantata di quei colori per me estasianti me la rese ancora più preziosa e idilliaca. Inoltre ciò rivelava il suo spirito indomito che non temeva le prese in giro. Infatti la nostra squadra non era la più nutrita, in termini di seguaci, nella città; quindi gli sfottò erano sempre dietro l’angolo. Rivelava la sua anima giustamente ribelle che non si piegava di fronte i soprusi della maggioranza. Allora avrei tanto voluto andare da lei e rivolgerle per la prima volta la parola dicendole che anche io ero di quella squadra e che ero felice che lo fosse anche lei. Ma non ebbi mai il coraggio di farlo e lei non seppe mai che oltre a trovarla bellissima avevamo anche quella cosa in comune.
