Mamma


Eravamo in vacanza in una località marina vicino Roma. Io, Alberto e Sara, Leandro, e anche Nunzio ed Elisa.

Insediati da poco nella casa presa in affitto, disfammo i bagagli e ci prodigammo per dare una ripulitura, come ci eravamo detto dovessimo fare per prima cosa, prima che la pigrizia ci lusingasse con le sue moine e ci facesse preferire la bella brezza marina a tutto il resto.

Circa un’ora dopo avevamo terminato. Ci godevamo una fresca aranciata amara sul balcone. Eravamo davvero a due passi dal mare, il quale vedevamo nitidamente: per raggiungerlo avremmo dovuto attraversare solamente una strada a due corsie, e una serie di negozi sulla stessa, dall’altro lato della carreggiata.

Fu allora che lo percepimmo per la prima volta, mentre Alberto e Sara come da loro solito battibeccavano (poiché Alberto era sempre nervoso in prossimità di viaggi da sostenere o appena sostenuti, e dunque si sfogava con la sua ragazza).

Udimmo una voce (infantile?) che chiamava «Mamma!». All’inizio non ci avevamo fatto caso ma Elisa ci fece notare che non era la prima volta che quella richiesta di attenzione prendeva piede. «È da svariati minuti che va avanti… Chissà perché la madre non gli risponde…», si cominciò a tormentare.

Da quel momento non potemmo che cogliere il reiterarsi di quel grido (di soccorso?) per innumerevoli volte. Il tono era sempre più o meno invariante. Sembrava che un bambino volesse richiamare l’attenzione della madre la quale però non gli rispondeva. Qualche volta cogliemmo nell’intonazione del bambino qualcosa di agitato o abbattuto. Ma era indiscutibile che quel bimbo continuasse a chiamare la mamma da oramai svariati minuti e non si fosse ancora messo a piangere.

Eppure non avrebbe avuto senso proseguire a chiamarla se lei non fosse stata in casa. Dunque ne deducemmo che lei c’era e che non voleva rispondergli. Ma perché non gli diceva niente? Perché neppure lo riprendeva dicendogli di non scocciarla più? La madre di quel bimbo evidentemente lo voleva ignorare. E a noi tutti, il suo, parve un gesto estremamente scortese e snaturato, di certo non da “brava madre”.

Era più di mezz’ora che eravamo sporti dal balcone cercando di capire l’origine di quell’appello che ci appariva essere realmente molto vicino a noi. Scorgevamo di sotto tra le persone che passavano, ma nessuno sembrava preoccuparsi della cosa. Anzi, erano curiosamente molto distaccati, posso dire con il senno di poi. Come se ci fossero abituati o non interessasse affatto loro della sorte del bimbo.

Ma questo non ci tranquillizzava affatto. Tentammo di escogitare delle spiegazioni plausibili per la situazione. E io offrii la mia. E dissi che, dato che secondo me quel «Mamma!» non era troppo spaventato e si ripeteva da molto tempo, mi dava tanto l’impressione di un bambino piccolo seduto sulla tazza del gabinetto per fare i bisogni, il quale voleva che la madre adesso giungesse a pulirgli il sederino per poi anche lavarglielo. Ma la madre, che doveva essere davvero molto cattiva o occupata, ormai annoiata da incombenze del genere, neppure si degnava di rispondergli – non volli dir loro che per me la madre poteva essere anche morta.

La mia ipotesi generò ilarità riguardo la prima parte di essa – ma vi assicuro che mi era già capitato una volta di assistere a una cosa simile con altri bambini, i quali, quando vogliono, sanno essere veramente sfibranti con la loro insensata caparbietà.

Le risate però lasciarono presto il passo al riflusso della preoccupazione. Elisa, che era quella più adombrata, invece aveva un’idea diversa.

«Secondo me il piccoletto deve essere come intrappolato da qualche parte. Sennò non avrebbe senso quel suo assiduo chiamare la mamma. E la mamma forse davvero non c’è. O forse è proprio lei che, per punirlo, lo ha confinato magari in un buio sgabuzzino… Povera creatura!», disse. Ed era già a un palmo dalle lacrime.

A quel punto tutti fremevamo per intervenire, per far tacere quel «Mamma! Mamma!» che ci faceva sentire come qualcuno che, essendo consapevole di una tragedia, non potesse tuttavia fare nulla per porvi rimedio. E dunque il nostro stato d’animo equivaleva a quello di un terribile supplizio che non sarebbe terminato finché quel bimbo non avesse smesso di lagnarsi.

Ognuno di noi reagiva al fatto come poteva. Leandro covava una mistura tra l’odio e l’abbattimento. Luisa si rincresceva. Nunzio rimaneva in silenzio e rimuginava. Alberto era arrabbiato per l’impotenza che ne ricava. Sara voleva scoprire il mistero. Mentre io bruciavo di vendetta per l’artefice di quella situazione assurda, cioè la madre del bimbo (il quale bambino però talvolta mi sembrava curiosamente una bambina).

Alberto e Sara si alzarono di impeto dalle sedie annunciando che sarebbero andati a fare un po’ di spesa. Essendoci portati appresso della roba da casa, non ci sarebbe stato bisogno di farla almeno fino al giorno seguente. Ciononostante accogliemmo tutti quella notizia con sollievo: perché era indubbio che essi, nel loro girovagare, avrebbero senz’altro eseguito quella ricerca che li avrebbe portati all’accertamento della verità. Non era possibile infatti che nessuno nella popolazione del posto fosse a conoscenza di qualcosa, del motivo di quell’angosciante accaduto.

Quando andarono, sapevamo che sarebbero tornati con notizie rilevanti sulla vicenda del bambino che continuava a chiamare mamma oramai da ore…

Nemmeno quaranta minuti dopo, Alberto e Sara si ripresentarono con svariate buste della spesa. Osservai il viso di Alberto e vidi che era molto rilassato rispetto a prima. E infatti fu proprio lui a voler parlare per primo per raccontarci l’incredibile verità.

«É un pappagallo che dice sempre mamma. Sta dal fruttivendolo qui sotto…»

«Ecco perché nessuno pareva dolersi…», disse Nunzio.

«Meno male. Mi era presa una pena…», affermò Elisa rincuorata.

Per quanto mi riguarda, salutai con una specie di nostalgia quell’immagine di infante seduto sulla tazza che chiedeva alla madre di andare a pulirgli il sederino.

A ogni modo tutti quanti finimmo per riflettere su concetti quali la verità, l’ignoranza e i sentimenti umani, che delle volte si propagano quando non vi sarebbe alcun motivo che lo facessero.

Comprendemmo che, comunque la si vedesse, ancora una volta l’ignoranza era il mostro peggiore che i nostri stupidi ed egocentrici cervelletti umani potessero partorire. La conoscenza è verità, potere e serenità. L’ignoranza è pressapochismo, falsità, dappocaggine, e inquietudine.

«Mamma!»

Il primo commento inerente Anarcolessia


Finalmente è giunto il primo commento al mio romanzo Anarcolessia!

Lisa (encomi a lei che è stata la prima!) mi ha detto che nel complesso le è piaciuto molto, il che mi ha dato molta soddisfazione.

Mi ha anche detto che avrebbe preferito che non avessi utilizzato tante parentesi (le quali, ne sono consapevole, spesso vengono percepite dal lettore in maniera più pesante magari a semplici virgole…).

Terrò conto delle sue critiche e già nelle prossime opere si noterà!

Spero di ricevere presto altri riscontri…

PS: quando scelsi il nome “Anarcolessia” mi accertai che tale parola non esistesse. Ovvero constatai che digitandola su Google non comparisse niente. Oggi invece vedo che “Anarcolessia”, forse anche per colpa mia, pare abbia figliato un po’ ovunque…

id: KmFXw7KnGa8

James Ivory: Camera con vista


 

Avevo provato svariate volte a visionare questo film, spronato dal fatto che fosse considerato quasi un gioiello. Ma non vi ero mai riuscito, annoiato dai numerosi dialoghi bigotti di cui è infarcita sopratutto la prima parte. Oppure, se ce l’avevo fatta, mi aveva assai deluso.

Così ho deciso di concedergli un’ultima inappellabile chance (d’altronde il regista ha tutta la mia stima). Però stavolta lo avrei visto in dvd, senza alcuna odiosa pubblicità che ne avrebbe sbiadito il valore.

…E il risultato finale è stato del tutto diverso dalle volte precedenti.

La prima parte mi è apparsa non tanto come una commedia romantica, quanto invece come una spietata critica satirica della società puritana di allora, intrisa di ipocrisia e falsità a più non posso. In questa ottica anche questa prima parte risulta essere consona e da non disprezzare.

Nella seconda parte poi prende piede il fulcro sentimentale, ma non senza che la protagonista si liberi a fatica, quasi come fosse una complessa gestazione, di tutte le insulse scempiaggini che le ottenebravano la mente costringendola a negare anche la sua essenza.

Oltretutto, di questo film mi resteranno impressi: il testone della protagonista, la sua acconciatura ridicola ma soprattutto le sue espressioni infantili perennemente imbronciate; un prete che, se si scava bene, si potrebbe forse definire dionisiaco (alla fin fine è colui il quale provoca, mette pulci nell’orecchio e si manifesta più libidosamente ambiguo di tutti gli altri, a mio modesto parere); una cugina zitella tanto preoccupata delle apparenze quanto invece non devota di concetti quali la sacralità della parola data e della sincerità; la mitica scena dei peni al vento, che procede per svariati secondi (il che mi fa pensare, a quando una scena simile ma con i peni eretti? Perché flosci si possono mostrare, e possono sembrare in qualche modo artistici, mentre ritti sarebbe peccato e il film verrebbe tacciato di pornografia?! Quando ci liberemo di questo bigottismo?! Un pene eretto, comunque lo si percepisca, è qualcosa di assai bello, genuino, una delle cose più naturali del mondo, come allattare un bimbo al seno… Per cui è sbagliato che venga avvertito come il comune senso del pudore lo vorrebbe far passare… Senza tutti questi assurdi tabù sessuali, non esisterebbero i maniaci sessuali!).

I film di James Ivory sono tutti da vedere. Non mi viene in mente un suo film che in fondo non mi sia piaciuto.