Comprare una batteria

 

 

Ho un pc da molti anni, e mi si è scaricata la batteria interna al litio. Mi reco a comprarne una nuova.

        Per primo, passo in un vecchio negozio della zona che si occupa di lampadine e simili. Mi sono sempre trovato bene lì. Inoltre preferirei dare i miei soldi a questi piccoli commercianti (che sopravvivono appena) piuttosto che a una potente catena di elettronica…

        Una donna (non troppo più vecchia di me) mi accoglie educatamente. Capisce subito che ha quel modello di batteria. Però ha solo la folle confezione da due (e dico “folle” perché a me risulta che quel tipo di batteria sia utilizzata solo per i computer, e quindi, dato che si scarica circa una volta ogni quattro anni, sarebbe poco sensato acquistarne due assieme, visto che tra quattro anni chissà che fine avrà fatto il pc…).

        Mi dice che non è disposta a vendermene solo una (perché sennò il tipo che verrà dopo di me, quando vedrà l’altra rimasta spaiata, storcerà la bocca e non la prenderà). Io faccio spallucce e le spiego la situazione. Ma lei mi dice che le dispiace che non può essermi utile (di fatto cacciandomi dal negozio). Dico buongiorno e me ne vado.

        La seconda tappa (che avrei voluto non fare) è in un grande negozio di elettronica poco distante. L’ultima volta mi hanno affibbiato dei decoder che si sono rotti in pochi mesi (e pretendevano, a sentir loro, che fossi io a portarli nel posto dove li riavrebbero riparati). Insomma, sono dei manigoldi patentati…

        Avanzo la mia richiesta al commesso (che almeno non avevo mai visto e, rispetto a quelli che conoscevo, mi dà l’impressione di essere un santo). Mi consegna la batteria, in versione singola, e ci salutiamo. Ma prima gli dico se gli posso lasciare la mia batteria esaurita. Lui mi dice di sì. E la butta subito in un cestino. Ma io mi chiedo: davvero la smaltirà correttamente? Tempo fa avevo avuto lo stesso problema con una cartuccia usata di stampante e (sempre in quel negozio) un tipo mi aveva detto che era meglio se me la smaltivo da solo, perché loro non sapevano dove buttarla e l’avrebbero messa nella mondezza normale…

        Esco dal negozio e mi chiedo come è ridotto male questo nostro illegale, scorretto, senza regole, ed egoistico paese, dove sono pochi che fanno le cose seriamente, e ancora più pochi che si occupano di far rispettare le leggi.

Il fascista scalciante

A giudicare da quello che è accaduto con Formigli si direbbe che Ignazio “cavallo pazzo” La Russa sia ammattito…
Per me non è una novità… Ma mi chiedo: che cosa sarebbe avvenuto se, a parti invertite, fosse stato il giornalista a scalciare così oscenamente verso l’ex missino?! Già me lo immagino: il giornalista sarebbe stato ammanettato, percosso, incaprettato, trattato come un terrorista, buttato in una cella a marcire e chissà cosa altro… E invece per La Russa non è accaduto niente! Certo! Lui è stato provocato! Ma allora che vuol dire?, che se si è provocati ci si può comportare a quel modo?! Anche Formigli lo avrebbe potuto fare?! E, seguendo questa logica, avrebbe potuto anche reagirgli?! Siamo sicuri?! Col @azzo che è così!

I fascisti non cambiano mai: si sentono autorizzati a perpetrare le loro violenze (di tutti i tipi) e non tollerano che si faccia loro notare che sono prepotenti e che infrangono la legge! Anche quando sono ministri! Anche quando, secondo qualcuno, si sarebbero ripuliti a sufficienza! Ma i fascisti sono sempre fascisti…

Digos perquisisce sede del PD

Giovedì 17 febbraio 2011 la Digos ha perquisito la sede del Partito Democratico a Roma.
«La sede del PD ha ricevuto la visita di due funzionari della Digos che hanno identificato l’amministratore del partito riguardo la realizzazione di un manifesto stampato che denunciava la responsabilità di Alemanno per lo scandalo di parentopoli. Lascia sgomenti che in un momento così delicato per la sicurezza nazionale […] si utilizzi il prezioso tempo dei funzionari dello stato per una logica di parte. In tanti anni di vita politica non era mai avvenuta una cosa simile e di tale gravità. Ovviamente non ci lasceremo intimidire e proseguiremo in modo ancora più rigoroso e puntuale la nostra azione di opposizione nella città […]»

Marco Miccoli e Eugenio Patanè

Fragile creatura

Appena salirono sull’autobus, quelle due tizie, mi diedero subito una grande sensazione di fastidio. All’inizio non capii perché. Solo dopo compresi… La piccola femmina era una bambina. Avrà avuto circa sedici anni, ma in alcuni momenti pareva molto più piccola (però aveva la lingua bella sciolta). Per questo ebbi problemi ad identificarla. Era vestita in modo semplice (direi anche scialbo), e proprio ai primordi avevo anche pensato che potesse trattarsi di un ragazzino, dato che non aveva nulla di femminile (sia nel vestiario che nell’acconciatura dei capelli, ed inoltre la sua voce era ancora quella via di mezzo che spesso gli adolescenti maschi condividono con le loro controparti dell’altro sesso).
L’altra donna invece era matura e corpulenta (anche lei non è che fosse molto ricercata nel vestire. Da ciò dedussi che dovessero essere parenti strette). Entrambe si scambiavano di continuo delle battute (con un tono esageratamente tranquillizzante): la piccola era però la star proferente del loro show, mentre l’altra era il suo unico pubblico adorante; e sembravano spassarsela un mondo. Ma mentre la donna matura per la maggior parte del tempo arrideva verso la ragazzina (e sembrava spesso interrogarsi su di lei, o esserne fiera), l’altra, quella piccola, non la finiva di parlare e sembrava sempre che avesse qualcosa da aggiungere (all’infinito)…
Così le ascoltai (mio malgrado) per qualche (lungo) minuto, dato che si sedettero proprio davanti a me. Ricordo che quel giorno pioveva e stava iniziando ad imbrunire. Nell’aria umida c’era qualcosa di molto triste e malinconico…
Presto capii che le due femmine dovevano essere madre e figlia, e con il trascorrere del tempo potei adocchiarle senza cagionar loro alcun imbarazzo o fastidio. E mentre la donna la giudicai assolutamente normale (forse tendente solo un po’ troppo ad armonizzare quello che dicesse la figlia e a starle eccessivamente appiccicata, come se avesse paura chissà di cosa), la bambina, invece, più la miravo e più mi risultava possedere qualcosa di insolito che non riuscivo a mettere a fuoco. Perché mi dava tanto sui nervi? Perché non smetteva di aprir bocca? Perché assentiva un mucchio di stupidaggini? Era davvero prossimo a crederla una persona insopportabile, una di quelle pesti che delle volte si ha la sventura di incontrare per la strada e che non si può far altro che subire fino a quando queste non si sono allontanate: una di quelle per le quali ci si domanda chi cazzo le abbia mai messe al mondo e poi educate…
Ma la madre ce l’avevo lì davanti e, pur avendo anch’essa qualcosa di anomalo, in realtà il suo atteggiamento capii presto che fosse tale proprio per via di lei, della figlia.
Allora mi soffermai su quella bambina. Aveva a ben vedere una testa più grande della media. E parlava, parlava, parlava come una radio perché… la spaventava il silenzio (e probabilmente anche le persone che aveva intorno). Infatti assistetti ad una scena chiarificatrice… Ad un tratto la ragazzina si trovò senza più nulla da dire. Dopo minuti di sproloqui vaneggianti ed inutili sembrava aver terminato l’esposizione di tutto il suo campionario di banalità e insulsaggini. Così la bambina si fermò a ravvisarsi intorno e (credo io) si sentì all’improvviso tutti gli occhi su di lei. Allora cercò rifugio nel finestrino, ma incrociò il mio sguardo e la vidi letteralmente tremare di paura (non per colpa mia). Si affrettò quindi a riempire di nuovo quel silenzio che le risultava insopportabile e disse una cosa che non ricordo più cosa fosse di preciso, ma che era talmente sconclusionata da farmi finalmente afferrare che quella bambina avesse una qualche forma di ritardo. Tanto che anche sua madre la riprese e le disse: «Ma che dici?!». E la bambina, con lo sguardo spaurito e perso, le chiese aiuto con gli occhi e la supplicò di sorvolare se aveva detto una grossa balordaggine…
E allora mi fu chiaro il modo impedito con il quale lei si muoveva (e difatti, quando poco dopo scesero alla loro fermata, oltre ad essere entrambe molto felici di non essere più rinchiuse in quella scatoletta mobile con tutte quelle altre persone estranee che le potessero turbare, vidi il modo in cui lei deambulava con difficoltà, non riuscendo a gestire bene sia un intralciante ombrello e sia le sue gambe, con le quali sovente sbatteva su tutto e tutti); come pure notai la sua posa con le braccia a perenne protezione del corpo…; per non citare i suoi discorsi totalmente confusi, poiché eseguiti da qualcuno che parlava semplicemente e poco più che per colmare quel grande vuoto spaventevole attorno a lei, e per non farle rinvangare le sue paure.
E allora non denigrai più quella bambina e la sua mamma asfissiante, e quella fragile creatura mi si rivelò pura come i miei occhi dapprincipio non avevano colto.

Colei che si diede alla macchia poiché troppo assillata dai suoi numerosi amanti

L’angoscia mi spinse a cercarla a casa sua. Non la vedevo da un mese e in quel periodo (contrariamente a quanto avessi auspicato) il suo ricordo non si era per nulla affievolito, ma anzi si era infiammato così tanto da costringermi per l’appunto a ricercarla; anche se lei mi odiava, anche se lei non voleva più vedermi, anche se stava già con un altro, anche se potevo sperare unicamente in quella passione che entrambi provavamo l’uno per l’altra (nonostante non lo volessimo ammettere) che avrebbe potuto riunirci…
Girai per la sua zona per una mezz’ora augurandomi di incontrarla casualmente. Ma le foglie secche dell’autunno inoltrato, le facce spente della gente e qualsiasi altra cosa, tutto mi diceva che non l’avrei vista. Ed infatti fu così. Mi decisi perciò ad andarla a cercare direttamente a casa sua. Avevo le chiavi. Me le aveva generosamente concesse lei nel breve periodo che avevamo condiviso (come era stato breve! Come era volato troppo in fretta! Si era trattato di circa dieci giorni stupendi che lei mi aveva concesso come un angelo avrebbe potuto fare ad un diavolo condannato all’inferno perenne… Ma poi avevamo ricominciato immancabilmente a litigare, e poi non avevamo avuto più la forza di riprenderci…).
E non mi chiesi che cosa le avrei detto quando l’avrei rivista per riportarla da me (forse che l’amavo?), poiché sapevo che la mia faccia avrebbe parlato per me molto meglio di quanto avrebbero potuto fare le mie parole. Il punto era che ci volevamo bene e che non potevamo rimanere separati (altrimenti entrambi ne avremmo sofferto, come infatti stava puntualmente avvenendo). Il che però non risolveva le nostre incompatibilità. Infatti… come farle capire che lei non aveva il diritto di scaricarmi quando gli venivo a noia (per poi ricercarmi quando sarei tornato ad essere il suo signore)? Senza contare che, quella legge che lei stessa aveva fondato, valeva solo per lei, e che ovviamente io non potevo fare lo stesso (forse le avevo detto troppe volte che lei era speciale, così che alla fine lei ci aveva creduto così intensamente da credersi al di sopra di ogni possibile rapporto civile tra esseri umani?).
Infilai la chiave nella serratura ed aprii. Non era chiusa a chiave. Forse l’avrei trovata in casa… Ma non fu lei che trovai, bensì V., il suo ultimo amante ufficiale (anche lui sofferente degli stessi medesimi patimenti che penavo io, più o meno per lo stesso motivo dei miei). La sua espressione preoccupata mi salutò. Ed io lo contraccambiai. Delle occhiaie penose e profonde si facevano largo da sotto i suoi occhiali (che avrebbero dovuto celargliele). Evidentemente era molto turbato anche lui… Forse, in qualche maniera, anche più di me.
«Speravo di trovarla qui…», gli dissi francamente senza mezze misure. E lui mi rispose parimente sinceramente.
«No. Non c’è. Anche io speravo che rincasasse prima o poi. Non la vedo da una settimana… Da quando abbiamo discusso. Stavolta di brutto…»
Pensai meschinamente che almeno lui se l’era goduta però molti più giorni di me e che era stato quindi fortunato (ammesso però che non avessero trascorso il tempo a bisticciare invece che ad amarsi).
V. era un suo fidanzato storico. Tuttavia non era mai stato realmente capace di lusingarla così tanto da farle credere che si potessero un giorno sposare. All’inizio ero stato molto geloso di lui, quando scoprii che lei tradiva il fidanzato con lui, e per di più ignorava me (poiché non le rimaneva altro tempo da dedicarmi)… Ma la legge della gelosia è assai divertente e tende ad essere biunivoca. E col tempo al povero V. gliela avevo fatta tornare indietro… E dopo che loro andarono in crisi (poiché era scontato che succedesse… Mi chiedo, può mai esistere a questo mondo un singolo essere umano di sesso maschile che potrebbe andare d’accordo con lei? Mi sono sempre risposto, innumerevoli volte che, no, è impossibile!…) toccò a lui essere geloso di me e rodersi l’anima a fuoco lento, ma anche vivace (seppure, in fondo, se è pur vero che io ghermii il cuore e l’anima di lei di certo più di lui, non mi presi però mai le stesse soddisfazioni fisiche che sicuramente riuscì ad afferrare lui… Ma questa è un’altra storia…).
Fattostà che oggi, entrambi gabbati e rifiutati, entrambi con l’anima arroventata e non sapendo dove sbattere la testa, non eravamo più gelosi l’uno dell’altro. E anzi tra di noi c’era una schietta amicizia (cementata dalle comuni sorti), e sono sicuro che per lui fosse esattamente come era per me: e cioè che entrambi pensassimo che se la nostra dea doveva proprio stare con qualcuno che non fosse stato sé stesso, sarebbe stato più contento se lei avesse scelto di rimanere con l’altro, dato che tutti e due ci stimavamo e sapevamo che l’avremmo amata (almeno) veracemente e cercando di farla stare meglio possibile, qualsiasi cosa sarebbe accaduta. E non saremmo mai arrivati al punto di picchiarla per i suoi numerosi tradimenti, seppur lei se lo sarebbe oltremodo meritato…
Il povero V. mi faceva pena ed in lui ravvedevo un riflesso di me. Ma il discernere il suo muso avvilito non aveva alcun potere concretamente confortante su di me (sebbene è sempre valido quel detto che recita che “mal comune, mezzo gaudio”). E la mia frenesia di vederla ancora mi avrebbe portato volentieri per le strade del mondo ad inseguire il mio istinto, sperando che il mio fiuto potesse rivelare il suo odore da etera pure nei meandri puzzolenti dei vicoli dove ne avrei trovati altri cento, mille, infiniti di odori simili al suo (perché lei era si speciale, ma non nel suo modo di essere alla pari delle altre prostitute, cortigiane, puttane, meretrici che ovunque assediavano il mondo con il loro carico di sensualità… E potevo essere folle per l’amore che provavo per lei, ma sarei stato un ingenuo, o un poeta, se me la fossi figurata davvero diversa da tutte le altre, non riuscendo ad individuare le molteplici similitudini che la univano con le sue consorelle…).
Ma non sarebbe servito a nulla sfinirmi in lunghe e sterili camminate. Ed effettivamente la cosa più assennata che potessi fare era proprio quella che stava facendo anche V. da un po’: attenderla lì, attendere il ritorno della figliola prodiga sperando di coglierla in un suo momento di debolezza, o magari dopo una sana bastonatura da parte di uno dei suoi altri amanti (in modo da poterle essere utile o consolatorio). Infatti per lei era la norma avere delle crisi con l’altro sesso, che erano improrogabili ed innegabili, ed avvenivano sempre (bastava attenderle) irrimediabilmente con colui che prima le aveva rubato il cuore, e che poi glielo aveva gettato alle ortiche… Cosicché poi lei dovesse cercarsene un altro per consolarsi e per dimostrarsi che l’amore era possibile e che lei era una persona stimabile… Ma poi sarebbe naufragato anche quello nuovo e lei avrebbe avuto bisogno di altro sangue, sempre altro sangue, altro sangue, altro sangue… Lei era una disperata nel mare sconfinato dell’amore apostata… Era una specie di vampira famelica e anoressica, drogata delle infatuazioni dell’amore e anche delle sue bugie (che per lei erano la stessa cosa).
Mi buttai su un divano e mi persi nel fumo dei miei pensieri. Ma non avrei dovuto attendere molto prima di essere distratto (seppur blandamente) da altre faccende. Infatti, meno di trenta minuti dopo, sentii una grande confusione di gente festante introdursi nella casa. Erano gli amici di R. (alcuni teoricamente anche amici miei e di V.), un cumulo di persone sempre allegre che sembravano davvero spassarsela alla grande (d’altronde, se se lo potevano permettere… beati loro!). Così vidi le loro facce tonde e distese capitarmi sotto gli occhi e ne provai quasi repulsa. Mi interrogai su come potesse essere possibile che nello stesso identico momento nel mondo esistessero persone come me e V., che soffrivano i castighi dell’inferno e che erano come delle anime in pena, e persone così sfacciatamente felici, che mostravano sempre il bianco dei loro denti lucidati come l’argenteria… Ma anche loro avevano diritto a vivere (solo che non era giusto che ce lo sbattessero in faccia!)…
Poi, in particolare non sopportavo quei due che si erano messi assieme nell’ultimo anno (che parevano non azzuffarsi mai ed andare sempre fastidiosamente d’amore e d’accordo). Lui era un tipo del tutto scialbo (anche se piuttosto belloccio), un tipo che non aveva nessuna qualità che gli spiccasse, un tipo insignificante, un tipo che ancora mi doveva rispondere a quell’email di lavoro (sulla quale il suo atteggiamento inappropriato era stato a dir poco sconcertante: semplicemente aveva glissato senza fornirmi una necessaria e basilare spiegazione!). Insomma lui era uno con la faccia come il culo… Ma non voglio essere troppo severo con lui, che in fondo era nettamente migliore di molti altri e che, tutto sommato, aveva come maggior difetto solo quello di far risplendere la propria idiozia.
Lei invece era tutt’altro. Lei era abbastanza bella (di corpo, mentre di faccia somigliava un po’ ad una scimmia). Era dotata di umorismo e le piaceva ridere, ma solo di cose che il suo puritanesimo bigotto le avrebbe concesso. Per esempio alle mie battute non rideva, e qualche volta mi aveva pure messo il muso (mentre altre volte ancora mi aveva dichiarato palesemente che fossi un “maleducato” e che era arrabbiata con me! Solo perché avevo scherzato con argomenti che urtassero troppo la sua permalosità…).
Lei aveva avuto una brutta storia alle spalle. Un giorno, non ricordo più per quale motivo, aveva rotto con il suo decennale ragazzo per una motivazione irrecuperabile ed imperdonabile (forse di corna), e allora l’avevo vista piangere lenta e composta, in silenzio, e allontanarsi da tutti e non voler essere consolata da nessuno… A dir la verità in quel periodo si era anche aperta una specie di caccia a chi la consolasse prima (e anche io ci avrei fatto un pensierino se però lei non mi avesse manifestato così apertamente che fossimo incompatibili caratterialmente)… Ricordo che in diversi cercarono di colmare quel vuoto che le si era aperto nel petto (non tutti con nobili intenti, ed alcuni cercarono nondimeno di approfittare della situazione). Ce ne fu uno in particolare, che era sempre molto arrapato, che già da tempo era entrato nell’ottica di doversela fare per forza. Io lo chiamavo “la lucertola” (per la somiglianza che aveva con codesto animale)… Ma la lucertola non riuscì nel suo piano di conquista e lei lo respinse riuscendo a presagire che quel tipo si sarebbe rivelato solo e anche più farabutto di quello che precedentemente le aveva spezzato il cuore…
E poi, dunque, lei aveva incontrato lo stronzo con il quale stava adesso, e lui le era apparso come una specie di principe azzurro (ho sempre detestato la maniera ottusa che hanno le ragazze di voler vedere solo quello che vogliono… Ma contenta lei…); mentre lui aveva saputo che lei era tornata libera da poco e che bisogna quindi affrettarsi a prendere l’occasione al volo… E in quattro e quattr’otto loro due divennero ai miei occhi i “due rincitrulliti”, perché rincitrullito era lui, e rincitrullita era lei, che stava con uno come lui…
A vedermi mogio mogio da una parte, tutto da solo, con il mio classico bicchiere in mano che centellinavo a piccolissimi sorsi per farmelo durare più a lungo, la rincitrullita mi si avvicinò (era sempre lei che mi parlava, poiché noi godevamo ancora dello status di conoscenti, mentre il suo fidanzato mi aveva sempre ignorato, non ritenendomi importante alla sua causa: le poche volte che mi aveva rivolto la parola lo aveva fatto solo per dirmi delle grandissime cazzate che avrebbe potuto anche risparmiarsi).
La rincitrullita mi disse (con la sua faccia da ebete felice) se volevo recarmi con loro ad una festa che ci sarebbe stata nel pomeriggio. Io me la squadrai per bene. E pensai che certo ci voleva molto coraggio (o bisognava essere molto idioti) a porre una domanda del genere ad uno che era ad un passo dal suicidio come me, e che aveva abbracciato la depressione come sua religione di vita (e di morte). La fissai per alcuni secondi per vedere se avesse ritirato la domanda, o magari si fosse anche scusata… Ma quando mai! Lei attendeva davvero una risposta, la sciocca! Così le dissi lentamente e scandendo le parole (sperando che così le entrassero nella zucca) che non ne avevo alcuna voglia e che ero lì solo per cercare di rintracciare R.
«Stai sempre a pensare a R.! Ti ammalerai se continui così!», mi disse pensando di essere spiritosa.
Non le replicai, ma poi si intromise V.
«Forse sarebbe meglio se ci andassimo, che dici? Forse ci farebbe bene staccare un attimo da questa situazione. E forse R. potrebbe materializzarsi anche lei alla festa, non credi?»
Diceva sul serio. E, detta da lui, quella cosa assumeva tutta un’altra valenza. E all’improvviso anche a me pareva che un po’ di aria fresca mi avrebbe fatto bene e che, se fossi stato fortunato, avrei anche rivisto le calde curve di R (le quali mi davano sempre quella forte ed immediata sensazione di irrefrenabile attrattiva).
Ma, ahimè, purtroppo la festicciola si rivelò essere quella magra schifezza che mi ero immaginato, e sia io che V. la trascorremmo enucleati da tutto e tutti, ognuno nel suo angolino scuro, dove potevamo mimetizzarci con l’arredo, e dove nessuno avrebbe potuto avere né pietà né acredine per il nostro ostinarsi a non volerci divertire. Lui fu così bravo ad obliarsi che lo persi anche di vista, mentre io divenni sempre più insofferente e presi a lottare con la musica, che trovavo troppo orrendamente brutta ed insopportabilmente invasiva per i miei timpani. Così mi alzai dalla mia postazione solitaria e mi diressi dapprima verso una finestra, quindi vidi che l’uscita era libera, e non resistetti alla tentazione di riprendermi il soprabito nella camera da letto ed andarmene come un ladro senza salutare nessuno. Ma non c’era problema, nessuno si sarebbe offeso. E non vi era dubbio che, quei pochi per i quale facesse differenza la mia presenza o meno, non avrebbero avuto difficoltà a comprendere me e la mia delicata situazione (anche loro, almeno una volta nella vita, avevano avuto un amore infelice che li aveva fatti soffrire, no?).
Mi ritrovai di nuovo in strada, non sapendo che fare e dove recarmi. Avrei spaccato il mondo, ma non potevo farlo, poiché mi mancava uno scopo e perché il mio spirito non era sereno. E allora mi chiesi ancora una volta che fine avesse fatto R. Era felice in quel momento? Stava facendo l’amore? Oppure stava consumando l’ennesimo dissapore con la sua ultima fiamma? Come poteva R. continuare a vivere a quel modo, con la gente che la inseguiva, con lei che scappava, con chi l’assediava e non si rassegnava ad averla perduta… ma soprattutto con tutta quella gente sulla coscienza alla quale doveva almeno un brandello di cuore, con tutti quanti che potevano giustamente lamentarsi con lei per il trattamento subito… e con lei che non sapeva a chi dare i resti e che si accontentava di vivere il momento, e così facendo, con il suo costante atteggiamento dispersivo, si condannava lei stessa con le proprie mani all’infelicità?…
Dove sei R., mi chiesi ancora una volta. Come puoi fregartene così ignominiosamente di me (ma anche degli altri… Ma soprattutto di me, dato che io so che, se c’è uno che tu abbia mai amato davvero in vita tua, quello sono stato io…)?
Ma ovviamente il vento non mi avrebbe risposto. Nessuno l’avrebbe fatto. Ed io la percepii lontanissima, dispersa, esiliata, emigrata da me, ed irrecuperabile. Non vi era alcuna traccia di lei. Stavolta era la fine. Ero certo che lei aveva preso volontariamente una strada senza uscita che non le avrebbe permesso di tornare indietro. Così, stavolta davvero non l’avrei più vista. E sarebbe stato tardi per tutto, e non avremmo più potuto fare la pace, perché ormai era tardi. Non l’avrei più vista. R. Non più. Senza nemmeno dirci addio.