[…]
Questa è la signora Belladonna. Una donna con una voce isterica e iperapprensiva la quale propaga nel mondo come fosse la sua essenza velenosa.
Un paio di giorni fa ho udito una sua conversazione telefonica. La signora Belladonna parla spesso al telefono, e spesso pubblicamente, come godesse a farsi ascoltare dal resto del mondo, convinta così di manifestare quanto lei sia sempre impegnata e cool. Invero la signora Belladonna era andata in vacanza una quindicina di giorni prima ed era da tempo che non avevo più potuto gustarmi il suono odioso della sua voce da vipera isterica. Ma ultimamente era tornata e avevo notato una curiosa variazione sul tema della sua sclerata esistenzialità. L’avevo udita, sì, ma non ero certa fosse lei, perché non si era mai prodigata prima di allora in una tale malsana abitudine: litigare con qualcuno che non le rispondeva per dire con passione e impazienza cose del tipo:
«Hai finito?! Che vuoi fare?! Hai finito?! Sbrigati! Sbrigatiiii!»
Allora avevo pensato si rivolgesse al povero buonissimo cane della loro famiglia che per un qualche motivo, per una volta, toccava a lei di portar fuori, forse perché tutte le sue belle e magre e piacenti figlie occhiazzurrate bionde erano andate in vacanza anche loro. E allora avevo pensato ancora una volta che pessima donna, madre, essere umano fosse. Una donna incapace pure di portar fuori il cane, una donna che con tutta probabilità pretendeva che il povero cane facesse tutti i suoi bisogni in pochi secondi sotto le sue minacce isteriche e insensate… E allora avevo compatito la povera bestiola augurandole di viver presto tempi migliori.
Questo era quello che avevo pensato all’inizio. Ma poi ho udito quella chiamata in cui lei diceva, a tratti urlando, volendosi far sentire, evidentemente, anche se una parte di lei normalmente si sarebbe vergognata di far sapere quella cosa al mondo – dunque doveva essere qualcosa che lei riteneva ormai fosse meglio tutti sapessero piuttosto invece solo che sussurrassero alle sue spalle senza che lei avesse potuto difendersi –, qualcosa del tipo:
«È pieno di sangue! Si è chiusa dentro, non vuole uscire! Mi ha graffiato! È intrattabile! Non so come farla uscire! Mi dice che sono aggressiva, ma allora lei cos’è? Mi ha aggredito! E ha lasciato un lago di sangue! No, a me solo un graffio! Il suo sangue! Ho chiamato l’ambulanza per farla portar via ma non vengono! Ho provato a farle un trattamento sanitario obbligatorio, ma niente! Certo che ho parlato con lo psichiatra, ma tanto lei non le prende le medicine…»
Al che ho capito tutto. Per prima cosa non era col cane che si accaniva in quell’occasione. No, ce la doveva avere con una delle sue belle figlie, la penultima in fatto di età. Solo lei poteva essere poiché quelle più grandi non le vedevo quasi mai e avevano sicuramente una vita ben avviata con un lavoro e uno che se le ingroppava giornalmente e forse vivevano ormai anche sotto un altro tetto. La ragazzina più giovane, invece, seppure fosse da sempre il primo obiettivo delle sue idiosincratiche ossessive attenzioni, era troppo piccola per ribellarsi a lei in quella maniera così manifesta e violenta – semmai me la vedevo esaurita, ridotta alle lacrime restringersi in posizione fetale, nel letto. Dunque doveva trattarsi di quell’altra figlia. Cioè di quella bella ragazza che invero sembrava più grande della sua età, quella che portava sempre a spasso il cane, quella con gli occhi così chiari che sembrava dentro ci fosse il mare; quella che pareva tanto sicura di sé, invece nel suo intimo era sempre molto incerta. Quella che non parlava quasi mai, ma quando lo faceva rivelava a tutti la sua natura estremamente fragile da ragazzina. Aveva una vocetta infantile e faceva discorsi puerili infarciti d’indecisione e apprensione che mai mi sarei immaginata avessero potuto provenire da lei se non li avessi ascoltati con le mie orecchie. Quella ragazza che dapprima si era manifestata molto interessata a me, ma poi aveva presto preso a odiarmi con la medesima costanza dell’età adulta. Lo potevo vedere dal suo sguardo d’odio purissimo quando mi incrociava…
Dunque alla fine lei, la figlia in realtà più fragile della signora Belladonna, era caduta, aveva ceduto psicologicamente, aveva dato di matto. E avevo anche scoperto frequentasse, chissà da quanto, poverina, uno psichiatra, il quale le prescriveva con scarso successo delle medicine da prendere…
Quando scoprii tutto ciò, io stavo male come lei, ero molto nervosa. Allora mi venne spontaneo pensare di andare da lei e salvarla. Lei era matta, e qualche volta io mi avvicinavo molto a esserlo. Solo io potevo salvarla, io attratta dalla sua malattia prima ancora che da lei, perché una ragazza folle in difficoltà è più attraente di una ragazza non folle sicura di sé e non in difficoltà. E poi eravamo due poveracce. Con chi avrei dovuto scopare, se non con lei?
E forse, sì, forse davvero sarei riuscita a salvarla. Avrei compiuto l’insensato miracolo, qualora fossi andata da lei. Perché non c’è miglior salvatore di chi conosce il male che affligge la persona bisognosa d’aiuto… Tuttavia non andai mai da lei. L’abbandonai al suo destino. Qualsiasi fosse.