Rimozioni #1

Ah, che bello fare una gita in calesse se si è turisti!…
Però non vedi la sofferenza della povera bestia resa schiava dal suo aguzzino, come fossi tu con i paraocchi che ottundono la vista e non la povera bestia: la povera bestia legata che non può scappare. E se non fa quel che dice il padrone e non tira per ore quel cazzo di carro sotto il sole cocente con sopra dei turisti beoti, c’è la frusta che l’attende…

Koimba

Quel giorno i vigili avevano quasi fermato la circolazione. C’era un gran casino. C’erano un mucchio di volanti e vigili in motocicletta. Mathieu, incerto se attraversare oppure no la grande strada a più corsie, si guardò attorno ma non ne ricavò una conclusione al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Però capì che solo le macchine erano state fermate: i pedoni sembrava potessero camminare normalmente. Allora si decise ad attraversare. Sennonché rischiò subito di finire sotto la moto di un vigile sbucata chissà da dove. Il vigile gli disse: attenzione! E sembrava davvero preoccupato per lui, quel vigile. Che brava persona, pensò Mathieu.
Si ritrovò bloccato a metà su una striscia di marciapiede che divideva le carreggiate. Altri avevano avuto i suoi stessi dubbi e infine, persuasi dal suo gesto, lo avevano seguito. Ma ora erano bloccati esattamente come lui. Tra di essi c’era una ragazza che poteva avere intorno ai trenta, forse anche meno. Mathieu la percepì subito alle proprie spalle perché gli si era avvicinata più di quanto ci si potesse aspettare. E dato che gli rodeva di non poter passare e soprattutto di non sapere cosa diavolo stesse accadendo, si girò istintivamente verso lei e le disse: ma si può passare?! E la ragazza lo guardò smarrita, attratta dal suo volto. Indugiò assai prima di rispondere che ovviamente non lo sapeva perché anche lei era nelle sue stesse condizioni e anzi stava seguendo lui sperando che lui sapesse quel che faceva.
Era una ragazza biondiccia, magra, abbastanza alta, ma non quanto lui. Indossava abiti dozzinali, con una magliettina troppo estiva per la stagione con su scritto “Koimba” e aveva uno zainetto al seguito, proprio come lui quel giorno. Non era truccata. Aveva capelli con molte doppie punte, radunati in una treccia che sommata al resto le regalavano un’aria disordinata.
Mathieu continuò a percepire la presenza di quella strana ragazza al suo fianco e avendo tempo per pensare rifletté sul suo sguardo perso e i suoi occhi erranti. Erano gli occhi smarriti di chi è al limite; di chi non sa dove sta andando; di chi sa solo che sta sperimentando un disagio e vorrebbe tanto non averlo; di chi finge di essere come gli altri, ma non lo è affatto. Perché gli altri stanno bene e si possono dedicare alle cazzate, mentre lei stava male. E quel male poteva essere parimenti fisico o mentale, non faceva differenza: ma era un male.
La ragazza, forse intuendo in qualche modo i pensieri di Mathieu, decise di discorsarsene un poco, non tanto perché voleva ripristinare le giuste distanze quanto invece perché non sopportava l’idea che lui potesse afferrare il suo profondo malessere. Si sporse esageratamente dal marciapiede. Sembrava voler passare per forza: come se, nel baseball, avesse voluto rubare una base. Sembrava prossima a lanciarsi in mezzo alla strada facendo lo slalom tra le macchine, il che sarebbe stato molto pericoloso. Mathieu notò però che non era quello il suo vero intento. Perché quando passò di lì un grosso pullman con anche molti turisti dentro, lei ondeggiò verso esso come attratta dal transito del mezzo, il quale le suonò rumorosamente col clacson per comunicarle che gli si era approssimata troppo. Solo allora l’insondabile e pensierosa ragazza fece un passettino indietro e se ne tornò ordinatamente sulla piazzola nella quale era intrappolata con Mathieu e gli altri.
Dopo che fu trascorso quasi un minuto, alla fine i vigili se ne andarono e tutto poté riprendere come al consueto. Allora Mathieu fu ancora il primo del suo gruppo a completare l’attraversamento della strada e la ragazza gli fu subito dietro. E poi proprio lo affiancò volendo tenere il suo stesso passo, volendo passeggiare fianco a fianco con lui come fossero quasi amici, se non ancora amanti. Mathieu però, che se ne stava sempre per conto suo, tentò di scivolarle leggermente dietro. Ma la ragazza a sua volta decelerò per non lasciarselo troppo addietro.
Quando furono nei pressi del marciapiede all’altro lato della strada, Mathieu decise di improvvisare una manovra diversiva. Allora accelerò superandola all’ultimo momento, mentre la ragazza fece lo stesso rischiando di toccarlo con i piedi, perché nel frattempo aveva pure virato a destra dove procedeva il marciapiede. Ma Mathieu abbandonò il marciapiede per andarsi a gettare in un fazzoletto di terra in cui c’era l’erba fresca. In quel modo sperò di essersela tolta di torno. Ma presto si rese conto che c’era qualcuno che lo seguiva anche lì. Ed era proprio quella giovane ragazza, che aveva cambiato strada appositamente per non separarsi da lui. Era come un cane randagio che non voleva abbandonare un uomo che gli avesse dato un pezzo di pane da mangiare.
Mathieu attenuò leggermente il passo per vedere se lei lo superava, ma come immaginava non successe. E quando sbucarono su una stradina sterrata che si dirigeva verso est, solo allora lei uscì dalle sua spalle. Ma non lo superò. Così come avvenuto in precedenza, lo affiancò. Allora Mathieu si immaginò come sarebbe andata: di lì a poco avrebbero cominciato a parlare; lei gli avrebbe lasciato intuire che aveva un disperato bisogno di compagnia; lui non avrebbe resistito al sordido richiamo della carne… Dunque Mathieu rallentò, tirò fuori dal giubbotto il cellulare fingendo di aver ricevuto una chiamata. Così poté fermarsi nella stradina lasciando sfrangiare la giovane ragazza in cerca tanto di conforto quanto di se stessa.

Kick ass 2 (film)

Godibile film intriso di violenza (non gratuita, ma necessaria direi) ma anche piuttosto sarcastico (che sembra delle volte si prenda in giro da solo), abbastanza fedele al fumetto originale, se non fosse che lì l’eroina bambina era molto più piccola e andava alle elementari (!).
La storia: in un mondo dove i supereroi stanno solo nei fumetti, un ragazzino costretto a vivere laddove la malavita la fa da padrone, ha l’idea di emulare quegli stessi eroi divenendo il primo vero supereroe sulla faccia del pianeta. Ne conseguiranno una serie di eventi che gli faranno incontrare insperati alleati che la pensano come lui, ma anche chi invece diverrà la sua nemesi supercriminale, fino allo scatenarsi di un escalation esponenzialmente di brutalità.
Spero di vedere il prequel, che finora mi è sempre sfuggito, il prima possibile.

DOT: Sempre meno fiori

Venerdì.
Il mondo è come un enorme prato fiorito. Solo che, col trascorrere delle stagioni, è sempre più arido. E i fiori, un tempo abbondanti, cominciano ora a scarseggiare. Ogni giorno tanti fiori vengono più o meno inconsapevolmente calpestati; oppure vengono strappati, per odio; o recisi, per sfregio; o lasciati morire, perché il deserto avanza sempre più, e li divora.
E ci sono sempre meno fiori al mondo e sempre meno possibilità che si possa vedere un bel prato fiorito tenuto come si deve. Non si accorge, la gente, di quello che sta facendo al mondo, che fa ai bei fiori innocenti, che fa a se stessa?

Suburra la sdraiata

Un giorno captai, nei pressi dei cespugli della stradina sterrata che percorrevo sempre, qualcosa di insolito. Presenze umane. Degli occhi scuri selvatici mi scrutavano avidamente. Degli occhi che non potevano fare a meno di guardarmi.
Erano quelli di un ragazzo e una ragazza, entrambi bronzei di pelle. Lei giaceva sdraiata. Lui le era accanto quasi come la possedesse, cioè lei fosse di sua proprietà. Cercai di non fissarli e procedetti come non li avessi visti. Tuttavia la loro presenza inquietante, in quel punto ascoso della strada, mi cagionò fastidio: mi aveva costretto a non rilassarmi, a rimanere all’erta; perché avrebbe potuto trattarsi di criminali appostati lì per un’imboscata.
Il giorno dopo passai per quella stradina un po’ prima del solito e lo scenario cambiò, o meglio ebbi notizia di cosa presumibilmente accadeva ogni giorno poco prima del mio solito passaggio. Un folto gruppo di ragazzacci mori (li chiamo ragazzacci perché avevano facce da galera, ridevano sguaiatamente con le loro bocche sdentate e squadravano con disprezzo tutti coloro che non appartenevano alla loro genia malata), che potevano essere sei o sette, stava consumando gli ultimi bocconi di quello che sembrava esser stato comunque un lauto pranzo compiuto assai voracemente. A terra comparivano molte bottiglie d’acqua e di vino esaurite. C’era anche lei, la sdraiata, in quel mentre seduta a terra, più desta e guardinga del solito, che si guardava attorno con un’aria di disagio. Lei non condivideva i loro motti screanzati e le loro risa violente. Lei se ne stava da una parte per conto suo, ma non li perdeva mai d’occhio.
Era strano vederla, unica donna, attorniata da tutti quei pessimi soggetti. Mi chiesi quale fosse la sua funzione lì e perché non se ne andasse, visto che sembrava così in incomodo.
Il terzo giorno, per evitare di incrociare tutti quegli avanzi di galera, passai per quella stradina non troppo presto, cioè al mio solito orario, e la sdraiata la incontrai da sola, sempre allungata nell’erba, che non dormiva. Si era adagiata poco più in là, su di un muretto. Infatti sembrava che là l’ombra potesse regalarle maggior ristoro. Quando le passai vicino, tremò.
La sdraiata non poteva fare a meno di fissarmi incuriosita. Si chiedeva perché passassi tutti i giorni per quella stradina dimessa; mentre io mi chiedevo più o meno lo stesso di lei, di lei in cui però percepivo delle insoddisfazioni profonde.
Col tempo compresi alcuni aspetti di quella vicenda. La sdraiata badava a tutti quei derelitti zingari che pulivano i vetri ai semafori nel circondario. Una volta la vidi portare personalmente dell’acqua a uno di loro dopo che questi le aveva rivolto un brusco cenno. Ed era sempre lei che confortava chi di loro si riposava tra un turno e l’altro e magari gli si andava a coricare a fianco.
Però c’era qualcosa che non tornava. Tutti quei maschi, e lei sola con loro, che sembrava una loro proprietà ed era trattata a ben vedere come un animale alla catena, non come una donna. Lei che era pure indubitabilmente incinta.
Solo molto dopo si seppe tutta la storia della sdraiata. Per prima cosa era stata rapita a un altro clan da quegli uomini scuri i quali la obbligavano a essere la loro schiava. Lei li doveva soddisfare: in tutti i modi. E se durante il giorno si occupava principalmente di cucinare, e idratarli, e lavare i loro panni, la notte non c’era neppure da dire che doveva sottostare ai loro desideri sessuali e soddisfarli tutti, anche se loro erano in otto e lei solo una.
La sdraiata non poteva fuggire, né chiedere aiuto. Pure fissare uno sconosciuto troppo a lungo le era proibito, altrimenti sarebbe stata picchiata a sangue; era già successo. Inoltre anche quando a me sembrava sola, in realtà c’era sempre qualcuno che la controllava più o meno da vicino. E lei aveva imparato a ricordarselo. Per questo, pensai allora, delle volte mi aveva fissato con quella intensità pur non facendomi parola. Forse aveva sperato che fossi io ad avvicinarmi a lei e non il contrario. Forse sperava che così avrei finito per salvarla…
Per quanto riguarda le persone che l’avevano schiavizzata, appartenevano in realtà alla bassa manovalanza di una mafia locale. La loro umile occupazione di lavavetri ai semafori non doveva ingannare. Per primo, era un modo della mafia per “far fare le ossa” a quei mascalzoni. E per far imparar loro a odiare la gente. In seguito, chi di loro se la fosse sentita, sarebbe passato a fare ben altro, come i furti nelle ville. Mentre quelli che non se la sentivano sarebbero rimasti lavavetri finché non scoppiavano.
La sdraiata non la vidi più dopo che fu liberata dalla polizia. Chissà che fine ha fatto, lei e il suo bambino, penso delle volte.
Il mondo è un posto molto peggiore di quanto uno immagini.
Se solo ci si soffermasse a osservarlo per quel che è davvero, la visione che ne ricaveremmo sarebbe in larga misura insostenibile.

Popcorn

Ci ritroviamo nello stesso gruppo di lavoro. Il capo ha deciso così. E all’inizio ne ero rimasto contrariato. Ma adesso no. Adesso non me ne frega niente. Così, se proprio le devo parlare, lo faccio con leggerezza, come non conservassi alcun rancore verso lei. In verità non so se sia davvero così. Probabilmente, l’essermi rassegnato a comprendere che tra noi non ci potrà mai essere nulla di importante, mi ha aiutato ad accettare la situazione.
Lei invece si ritrova molto peggio di me, poverina. Lei non ha gli strumenti sentimentali e culturali per trasformare quel che ha provato per qualcuno che odia (e che prima amava) in qualcosa di completamente diverso. Così, poverina, non fa che recitare per tutto il tempo, alternando silenzi ostinati in cui vuol far credere che non abbia assolutamente niente da dire, a frasette di circostanza per dare a bere invece esattamente il contrario: vedi che mi parla? allora non deve avercela più con me, no?… Ma ‘sti cazzi di quel che pensano gli altri! A me non interessa minimamente. Solo lei sta sempre lì a farsi questi problemi da bambina mal cresciuta per cui conta moltissimo l’apparenza…
Fattostà che il tempo passa e forse ci stiamo ricadendo. Sì, perché, a forza di stare a contatto, a forza di parlare, io mi manifesto ironico, sornione e affascinante, e lei, lentamente, molla la presa: ci ricasca esattamente come ci era cascata mesi prima. Con un ancestrale lavorio di uomo con charme, sgretolo la sua parete divisoria da me, ogni giorno, ogni ora. Fin quando un giorno non se n’è accorta (e non me ne sono accorto nemmeno io) e siamo ancora lì a parlare e a guardarci negli occhi come un tempo. Solo che adesso già sappiamo cosa non fare, come andrebbe se non avessimo già vissuto il passato. Quel giorno la prendo, la porto in una stanza e la bacio. E lei non vuole opporsi. Ribacio le sue labbra morbide, rinfresco quel suo tipico odore che non m’ha mai abbandonato, riaccarezzo la sua pelle così morbida senza mai alcun pelo (non ho mai capito se c’è nata così o fa in maniera di essere sempre così imberbe), quella sua tenerissima pelle da bambina piccola.
Usciti dalla stanza, assumiamo un’aria banale per non farci sgamare subito dagli altri. Poi la guardo e sbotto a ridere. Anche lei ride. Ci viene la ridarella. E ciò mi colpisce molto perché non mi succedeva da quando ero marmocchio: ero piccolo e mi sentivo molto felice, così contornato dai miei amici. Ridiamo per ore davanti ai colleghi. Ecco, adesso anche a lei non interessa più quel che pensano di noi. Io gliel’ho sempre detto: che ti frega?! Ma lei solo ora lo capisce…
Qualche sera dopo la tengo stretta stretta a me. Siamo passati alla fase che lei fa tutto quel che desidero. Me l’ha anche detto: faccio tutto quello che vuoi, ma non mi lasciare, ti supplico!
Bello. Sarei io quello che lascia, eh? Ma se è lei che lo fa sempre. Lo fece pure con me. Perché ha una paura folle di essere lasciata per prima.
Dovrebbe tornare a casa sua, da suo marito, ma mi dice che vuole rimanere. Io le dico: sai quel che fai?; non ne sono sicuro. Ma a lei sembra non interessi niente di niente. Perché dovrei tornare da lui, da lui con cui neppure dormo più assieme, con lui che stiamo in due stanze diverse, con due televisioni diversi a guardare programmi diametralmente opposti?! Io penso che anche con me guarderemmo programmi diametralmente opposti, solo che non ci viene proprio in mente di guardare la televisione quando siamo assieme. Una volta ci ha provato e le ho mangiato la mano.
La spoglio e trovo la sua patatina rasata. Sono le sorprese che mi fa. Delle volte me la fa trovare glabra, per sorprendermi, per farmi vedere che lei è una bambina, in fondo. Lo so, una bambina che spesso però è stata cattiva e viziata. Invece le sue ascelle sono sempre state assolutamente lisce, senza peli, come se non le fossero mai cresciuti lì i peli. Sono quelli i punti del suo corpo che prediligo, i punti che tiene segreti e nascosti. Mi getto su quei punti e non riemergo fin quando lei non è assolutamente appagata e sfinita.
La faccio sedere sulle mie ginocchia, mentre con un braccio la fascio. No, no, no, non la lascerò andare. Sai cosa implica che tu non torni da lui?, le dico. Sì, sono disposta a rinunciare a tutto e a ripartire da zero!, mi dice con convinzione estrema; lascio tutto per te!; perché mi interessa solo di te; tutto il resto è superfluo; posso sempre acquistare nuovi vestiti, ma a te non posso sostituirti…
Sì ma così lo indisporrai, le dico ragionando, perché almeno uno di noi due deve ragionare. Ma anche lui non mi ama più e in fondo lo sa perfettamente!, si ribella mentre le stropiccio un capezzolo.
Sì, però così non farai altro che stuzzicare il suo orgoglio; cioè, se lui da un giorno all’altro si ritrova con una moglie dispersa che non vuol più tornare a casa perché s’è fatta l’amante, penserà che ancora ti ama, o perlomeno ti rivorrà possedere, o meglio vorrà rovinarti anche quello, perché lui ancora non ha trovato nessuna per rimpiazzarti…
Ne sei sicuro? io non ne sarei troppo sicura, dice.
Beh, in ogni caso deve arrivarci da solo; devi tornare a casa per un altro po’; poi un giorno gli dirai una frase del tipo: ma noi due perché viviamo assieme se non proviamo più niente l’uno per l’altra?; e lui si sorprenderà per la tua grande maturità e ti dirà che hai ragione, e allora se ne va lui (che tanto ha già una che si scopa ogni tanto, e ce l’ha!, ne sono certo); e poi saremo liberi, sarai libera: sarai libera di fare quel che vuoi, senza render conto a nessuno o mentire, le dico.
Io non mento mai, mi dice con occhi falsamente innocenti.
See, tu sei la donna più falsa che conosco!, ribatto.
Adesso piange, piange davvero perché sa che in passato mi ha fatto di tutto e anche di più. Sa che non dovrei perdonarla. Che lei non mi perdonerebbe mai se fosse al mio posto. Difatti il vero problema, anzi diciamo ostacolo, tra noi non è tanto suo marito o la fine del rapporto con lui, che tanto è già finito. È il nostro futuro assieme. Il vero nodo è: sarò capace io di dimenticare quanto e come lei ha saputo essere stronza nei miei riguardi? Anche per lei è quello il motivo di maggior angoscia.
Mi guarda implorante e mi chiede perdono. Perdono! perdono! perdono!, mi dice stringendomi più che può. Ti prego, non mi lasciare! non mi lasciare! Sa che teoricamente sarei capace un giorno di lasciarla e romperglierlo per sempre quel suo bel cuoricino di zucchero e pasta frolla che fino a oggi non ha fatto che procurarle casini rendendola una delle persone più infelici del mondo. Sarò capace di crederle, dopo che lei ha insudiciato il nostro amore così tante volte, tanto che avevamo ormai smesso di amarci?, questo si chiede.
Ma io invece sto riflettendo su un’altra contingenza, e gliela dico. No, vedi, personalmente c’è un’altra cosa che mi angustia, che proprio fatico a dissipare; non so, forse è la stessa cosa che temi tu, ma vista da un’altra angolazione. E cosa sarebbe?, mi chiede lei. È che, vedi, io e te, se non fosse stato per questo stupido lavoro che abbiamo in comune, non ci saremmo più visti: avremmo tagliato i ponti per sempre; invece, dato che abbiamo avuto questa cosa in comune, abbiamo avuto un’altra chance, una chance che altrimenti non avremmo mai avuto, in altre condizioni, capisci?
E allora? non ne sei contento? io ringrazio dio di avermi fatto lavorare con te!, mi fa. Sì, anche io; ma non posso accettare che altrimenti tu mi avresti voltato le spalle per sempre e io non avrei mai avuto un’altra opportunità di riconquistarti!
Perdonami! perdonami!, si sente in colpa; ma forse non è così come dici, aggiunge; perché, secondo me, io un giorno ti avrei ricercato, il giorno che mi sarei resa conto di quanto ero stata stupida e folle con te.
Tu dici?, chiedo. Sicuramente!, risponde. Però probabilmente io quel giorno, quel giorno che tu mi avesti ricontattato, io quel giorno ti avrei messo giù il telefono e non ci sarebbe stato più nulla da fare per noi…
Il giorno dopo il capo volle farci una delle sue altezzose lezioncine sulla gestione delle risorse. Allora ci chiese per cosa avevamo speso i soldi concretamente per quel progetto. E quando accennammo alla voce “popcorn”, ne prese di avanzati, li gettò sul pavimento e ci disse adesso di raccoglierli. Così io e lei ci ritrovammo chinati a sovrapporre le nostre mani calde e ci baciammo sotto le scrivanie di nascosto dagli altri. Solo alla fine il capo ci disse che i popcorn si facevano a casa e non costavano quasi nulla. Quasi nulla.

Manhattan Nocturne (film)

Un giornalista conosce una conturbante bionda da poco divenuta vedova la quale gli propone di indagare tra gli archivi del marito regista morto nei quali si potrebbe nascondere qualcosa di scottante riguardante un ricco e anziano magnate. Il giornalista, anche allettato dalle profferte amorose della vedova, ha la cattiva idea di accettare. Così si ritrova a tradire l’amata moglie quasi contro la sua volontà, e con piazzati alle costole gli scagnozzi del magnate, che sa che lui potrebbe presto entrare in possesso di quel certo filmato che non vorrebbe mai fosse reso pubblico.
Il giornalista a questo punto vorrebbe tirarsi fuori dalla vicenda ma non può più farlo. Dunque non gli rimane che andare avanti poggiandosi solo sulle proprie forze e il proprio intuito non potendo contare neppure su quello che gli dice la bollente vedova, che scopre che gli ha mentito omettendogli informazioni fondamentali per acclarare tutta la vicenda.
Il film contiene tre storie misteriose da svelare. Una riguarda il filmato incriminato. Una come è avvenuta realmente la morte del regista. L’ultima un episodio del passato della vedova.
Questo film mi ha lasciato una forte sensazione di deja-vu, come fosse il rifacimento di un film che avevo visto molti anni prima, magari da bambino. Tuttavia non ho trovato notizie in merito che accreditassero tale tesi. Allora forse devo pensare che in passato devo solo aver visto un film molto simile. Eppure certe scene era come se le conoscessi già…
Avrei giurato che la trama fosse stata tratta da un libro ma sembra che non sia così.