Mi trovavo in un paese di provincia, purtroppo mentre era in vigore una specie di sagra, o comunque, con mia grande recriminazione, un qualche evento sociale che non faceva che veicolare in loco sempre più folla. Così era impossibile muoversi liberamente.
Decisi di mettermi seduto ai lati della via principale da cui affluiva tutta la fiumana, dove per l’accoglienza erano stati appositamente sistemati una serie interminabile di tavolinetti con seggiole annesse o anche panchette. Sino allora se ne potevano ancora trovare di libere, ma presto la gente, stanca di star in piedi, le avrebbe prese d’assalto, e molti sarebbero stati delusi di non potersi più sedere.
Me ne stetti lì buono buono a osservare quella specie di processione. La quale era impossibile affrontare nella direzione contraria perché sarebbe stato come tentare di risalire la corrente di un fiume impetuoso con una canoa. Dunque mi ero già rassegnato ad attendere. Non davo uggia a nessuno e nessuno fino a quel momento l’aveva data a me, anche perché la gente era interessata a procedere oltre, per raggiungere l’acme dell’evento. Tutti andavano verso il centro del paese, neppure mi guardavano.
Tuttavia, a questo andazzo, fecero eccezione due persone, un uomo sulla trentacinquina, ben piazzato, calvo, con la barba di tre giorni, avvolto da una camicia dozzinale aperta sul petto ignudo, con un perenne sorriso come di prepotente derisione sulla faccia, e la ragazza che l’accompagnava, molto più esile, alta circa quanto lui, cioè all’incirca un metro e settantotto, cianotica, forse anoressica, che indossava degli anfibi neri su delle gambe esposte all’aria, con sopra un abitino leggero compatto, nero, che le lasciava scoperte le braccia, esattamente come per le gambe, spettinata, con un’aria da schizzata che faceva proprio il paio con l’espressione dell’altro, il quale fui immediatamente certo dovesse essere il suo uomo.
Quel gorilla la teneva stretta per un braccio, coma a manifestare che essa fosse di sua esclusiva proprietà. Un po’ la spintonava imprimendole delle scosse, come fosse stata una bambola con cui lui amava giocare violentemente. Tuttavia ciò sembrava non le desse alcun fastidio: evidentemente la ragazza doveva esservi piuttosto abituata.
A un tratto i due bighelloni mi videro; ancora erano sulla strada. Lui mi fissò con maggiore intensità, come fossi stato esattamente quello che andava cercando. Lei all’inizio invece mi trapassò con lo sguardo non concedendomi alcun credito; ma quando il suo uomo le diede uno spintone manifestandole la volontà di sedersi proprio accanto a me, lei fu come rinvenisse dal suo stato confusionale per fissarsi su me. Allora mi guardò. Tuttavia il suo volto aveva un qualcosa di indefinito, perennemente dissociato dalla realtà che mi fece pensare potesse aver assunto droghe. Quei suoi occhi neri truccati, cerchiati di matita nera, sembravano esser stati fatti proprio affinché li si notasse e non li si potesse più lasciare una volta incrociati. Così lei adesso mi guardava allo stesso modo del suo protettore energumeno, eppure, ancora, c’era qualcosa di lei che non mi guardava, che non poteva o non voleva. Così forse fu proprio quell’insolentito sottrarsi che mi dette l’impulso a guardarla ancora non riuscendo a distogliere gli occhi da lei e dal suo tisico fisico da tossica in cerca di una dose disposta a tutto pur di ottenerla.
Si fermarono proprio innanzi a me con un fare già urtato. Fissavano ora all’unisono il mio zainetto, alla mia destra, al limitare della panchina. L’uomo ne accennò direttamente con la mano destra, mentre la sinistra teneva sempre imprigionata la sua donna da dietro e dunque non la vedevo, come se con quella mano lui le fosse entrato nella spina dorsale per manovrarla in quella maniera oscena.
Che cosa c’è che non va?, dissi già preoccupato sperando invano che se ne andassero presto ma già preventivando che ciò non sarebbe avvenuto.
Il tuo zaino, disse lui, ci impedisce di sederci.
Osservai il mio innocente zaino come lo avessi mirato per la prima volta. Se ne stava lì dove lo avevo posto, vicino il bracciolo finale della panchina, inerte. Qualora davvero avessero voluto sedersi, avrebbero potuto farlo sia a dei tavolinetti prima che dopo di me – ce n’era proprio uno assolutamente libero a meno di due metri – oppure, se proprio volevano costipare il mio angusto spazio, avrebbero potuto sedersi con lui tra me e lo zaino, e lei sopra lui. Compresi che la loro contrarietà fosse del tutto pretestuosa. Così li invitai blandamente a sedersi altrove. Indicai il tavolinetto libero. Pronunciai poche sillabe: lì… sareste più comodi.
Ma noi vogliamo stare qui!, parlò la ragazza, sulla stessa lunghezza d’onda del suo uomo-padrone il quale sorrideva beato di come ella seguisse le sue linee guida. Lei aveva una voce non sgradevole ma con qualcosa di stonato dentro.
A quel punto, essendo impossibilitato a lasciare quel paese maledetto, non mi restò che piegarmi a quella loro scriteriata richiesta. Così radunai lo zainetto al petto e feci loro posto affinché si sedessero accanto a me.
L’uomo si adagiò più esternamente, mentre la ragazza si mise in mezzo a noi accavallando con semplicità le sue bianche gambe glabre che subito rappresentarono per me un ennesimo motivo di forte attrattiva.
Ora, purtroppo, la panchina in cui sedevamo, oltre e non esser abbastanza grande – e ciò faceva in maniera che stessimo tutti e tre pigiati e che lei non facesse altro che sfregarsi su di me, perché ella sembrava incapace di stare completamente ferma e immota come non avesse potuto far altro che agitarsi – era anche piuttosto ricurva verso l’interno; così ebbi l’ulteriore incomodo di esser costretto a guardare le loro facce, in particolare quella della ragazza dissociata, ma anche quella dell’orco cattivo che l’accompagnava, o meglio che se la portava appresso coma una cagna feroce perfettamente addestrata ad attaccare ai suoi voleri.
Lui rise divertito del fastidio che mi davano. Lei non sembrava capace di ridere, ma solo di discutere polemicamente. Difatti attaccò subito briga, come fosse adusa a fare quello e solo quello, mentre il suo uomo, perfettamente in controllo della situazione, anche lui doveva essere aduso a quel che cercarono di fare, probabilmente perché si erano già messi d’accordo da tempo, e chissà quante altre volte avevano messo in scena quella recita prima di incontrar me.
«Che hai da guardare?! Non fai che fissarmi!», mi accusò lei in un momento in cui tra l’altro neppure la guardavo, seppure nascostamente mi sarebbe piaciuto farlo.
«Non ti sto guardando!», mi difesi. «Solo che mi stai appiccicata… Dove dovrei guardare?», dissi mitemente, alla maniera del debole vessato dal tiranno.
«Invece mi stai guardando! Mi stai guardando!», riprese lei con quella sua strana voce d’impostura. E anche lui le andò dietro.
«La guardi. Ti ho visto io. Perché la guardi?», disse lui con quella sua faccia divertita, null’affatto inviperito, almeno per il momento, perfettamente conscio che il loro stolto vociare non era che un pretesto per incominciare un litigio.
Sentivo le ossa della ragazza che toccavano le mie quando ella si agitava sulla panca, in particolare quelle dei fianchi, ma anche i suoi gomiti mi finivano frequente nelle costole con allarmante facilità. Quelle sue ossa mi davano come l’impressione che non fossero così dure e pesanti però, come fossero cave all’interno, come quelle di un uccello.
«Ti piaccio, non è vero?», cominciò a dire lei seguendo sempre quella strada di ostilità che ormai si era scelta, punzecchiandomi il busto con un dito accusatore dapprincipio, e poi con tutta la mano, e poi anche con l’altra, invadendomi tutto il corpo, come lo stesse saggiando, ispezionando, quasi volesse accertarsi quanto fossi grasso sotto la mia camicia già imperlata del sudore della giornata calda ma sopratutto dell’impasse che mi procuravano quei due, quella coppia diabolica che stava spingendosi sempre più oltre il lecito.
«Non è vero!», dissi per giustificarmi, e lanciai un’occhiata furtiva a lui per vedere come prendeva quell’insinuazione. Ma lui, al solito, se la godeva, si godeva lo spettacolo messo su dalla sua complice concubina di meretricio, non era per nulla geloso e sorrideva sempre più divertito delle mie reazioni blande e sopratutto inefficaci per star dietro a quel demone nero che era la sua ragazza fuori di testa.
«Non è vero! Ti piaccio! Ti piaccio! Ti piaccio! Lo so, porco! Tu sei un pervertito, vero? Tu sei un pervertito!», mi accusò sboccatamente e desiderai oltre ogni altra cosa al mondo di farla tacere, mentre le sue mani non facevano che toccarmi, pungolarmi, intromettersi nella mia camicia e me la stavano praticamente slacciando e togliendo sempre più senza che riuscissi a fermarla.
«Non è vero! Piantala! Piantala!», riuscii a dirle afflitto da quelle falsità.
«Invece è vero! Ti piace e sei un pervertito, vero?», rincarò la dose allora lui, sempre più allietato.
Poi la ragazza tacque ma solo per concentrarsi maggiormente in quella bislacca e ambigua lotta che stava intrattenendo con me. Così le mie mani vennero a contatto con le sue braccia e le sue mani.
Le sue membra non erano calde come le mie, come mi sarei aspettato, ma neppure fredde: erano stranamente tiepide. A un certo punto, quando ormai mi aveva tirato fuori la camicia dai pantaloni e sotto già mi si vedeva la t-shirt, le mie mani, per fermarla, si chiusero su quelle di lei andando a combaciare perfettamente alle sue. La tal cosa mi lasciò molta eccitazione addosso, mentre lei si manifestò algida, come invero era sempre stata fin da quando l’avevo conosciuta, contrariamente a tutto quello che facesse o avesse potuto affermare.
L’uomo orco parve però annusare voluttuosamente l’aria come avesse potuto percepire in essa un qualche sentore dei miei veri umori e questo lo accese oltremodo, dunque sorprendentemente con la mano destra, cioè con quella che potevo vedergli che non nascondeva dietro lei, eseguì una rapida azione che mi lasciò tanto spaesato quanto fatalmente infiammato. Prese la sottile stoffa del vestitino nero di lei e gliela sollevò per alcuni secondi facendomi vedere il pelo pubico della sua donna scellerata, la quale non batté minimamente ciglio a quell’azione, come non l’avesse riguardata. Ma per un attimo sia lui, che si divertì a gustarsi la mia reazione a bocca aperta, che io, che lei, fummo come incantati, impossibilitati a rompere quell’incantesimo malvagio, io con gli occhi sul ventre nudo e soffice di quella ragazza snaturata, lui che guardava me, lei pure mi guardava, ma con un’espressione impersonale e per niente curiosa.
Poi l’uomo le ritirò giù la gonna e mi apostrofò: «Pervertito!»; e anche lei riprese a dirmi la stessa identica parola. Successivamente lui si gettò in quello strano corpo a corpo a tre, che vedeva loro due uniti assieme come per farmi chissà cosa, che cercavano di penetrare nelle mie difese sempre più ballerine che minacciavano di cedere, perché adesso dovevo guardarmi da tre mani e non solo da due, e quella dell’uomo valeva da sola come le due mani della ragazza.
Così quello spazio minutissimo nella panchina fu come diventasse un microcosmo in cui poteva succedere di tutto: per certi versi fu come se si ampliasse a dismisura. E ora io potevo scantonare da loro fuggendo, perché c’era sufficiente spazio, ma loro ovviamente mi venivano dietro per cacciarmi. Allora avveniva quella cosa straordinaria… Il corpo della ragazza, nell’infruttuoso desiderio di venirmi appresso, si allungava sempre più, sempre più, divenendo più sottile e cilindrico mentre le sue membra venivano come riassorbite dal tronco, come se, il suo, fosse stato in realtà il corpo di un serpente. Si allungò fino a quando non raggiunse in spessore quello dell’altro braccio dell’uomo, mentre le sue fattezze si assottigliavano divenendo mostruosamente sformate e irriconoscibili, di certo non umane.
Fu allora che appresi che la ragazza in realtà non era tale. Non era una ragazza quella… Era sempre stata solamente l’altro braccio dell’uomo il quale era stato capace di acconciarselo in quella maniera solo per risultare attraente ai maschi, a cui dava la caccia. La donna in realtà quindi non esisteva davvero: era solo uno specchietto per le allodole. Una volta compresa quella essenziale verità, fu come potessi riguadagnare maggior prominenza verso il mio destino, quindi, non so bene come, in un lampo afferrai un coltello, che forse doveva trovarsi sul tavolino vicino a me, e lo usai per tagliare di netto il braccio feticcio di ragazza. Così l’uomo smise di esser concentrato unicamente nel tentativo di catturarmi e cominciò a dolersi per il braccio reciso che perdeva copiosamente sangue. Dunque potei, incolume, fuggire veloce lontano da quel posto. Il braccio inoperoso che una volta era stata la ragazza era ora diventato oltremodo brutto e fallico.
