Elizabeth: Si presenta


Ci furono un paio di momenti in cui si commosse, ma trattenne le lacrime perché voleva fare il bello e dannato…

«Vedi come voglio essere sincero con te, Elizabeth? Non ho paura del tuo giudizio. So che tu mi ami per quel che sono. Come del resto è per me nei tuoi confronti…»

Gli dispiacque solo che lei non rispondesse niente. Tuttavia non passò molto che gli parve di udire la sua bella voce di nera mulatta in calore raccontargli tutta la sua storia. E lui s’incantò ad ascoltarla…

«Sono nata in un quartiere povero della città. Un po’ come te, Bikal. Fin da piccola fui subito notata per la mia avvenenza, e devi sapere che la bellezza, se da un lato è un passepartout che ti apre molte porte che magari normalmente non avresti mai valicato, dall’altro è una specie di maledizione, perché attira sempre su di te le attenzioni di coloro che vogliono imbrigliarla, quella bellezza, possederla… Così, a otto anni già conoscevo a menadito la forma e come funzionasse il cazzo degli uomini. Mi capitò d’essere presa a quell’età per la prima volta, e di dover subire una violenza sessuale…»

«Mi dispiace, amore… Che stronzi…»

«Sì, però io li ho perdonati, sai?»

«Davvero? Come sei buona…»

«Sì. Sia perché li ho compresi… Tu capisci che di fronte al mio fascino si possa perdere la brocca, no?»

«Certo…»

«…Anche un sacco di femminucce hanno follemente perso la testa per me, se te lo devo dire…»

Glielo disse con fare vanitoso e Bikal se la immaginò comandare orge di ragazze che ubbidivano solo a lei…

«…E poi, dicevo, un altro motivo è che, andando avanti nella vita, poi mi sono ampiamente vendicata. Infatti, tutto quello che non ti uccide, ti fortifica, amore. Anche tu sei diventato così forte perché non hai ceduto alle avversità…», lo lusingò.

«Effettivamente…»

«In seguito, a dodici anni, iniziai a vendere qualche prestazione e qualche parte del mio corpo. Ma non pensar male di me. Solo cosette così, tra amici…»

«Ma certo…»

«…Pompe. Sopratutto pompe. Fino a screpolarmi le labbra. A quelli del quartiere. In quegli anni andai così in fissa per lo sperma che cercai in tutti i modi di realizzare quello che all’epoca era il mio sogno: farmi un bagno intero nello sperma. Mi illusi di riuscirci due o tre volte. Misi su un tale casino organizzativo che in mezza nazione arditi giovinastri tentarono invano di aiutarmi (anzi, strano che la voce non sia giunta fin qui pure a te). Però… che ci vuoi fare? Niente. Non ce la feci…»

 

Pubblici uffici


Chissà perché ogni volta che mi reco negli uffici statali mi convinco che ci siano un mucchio di cose scorrette che vengono compiute ogni giorno sotto gli occhi di tutti, ripetutamente; cose davvero schifose.

Vado lì e posso osservare le facce dei ladri che sanno d’essere ladri, che ci guardano dall’altro lato del vetro, noi anacronistici onesti; loro, incessantemente occupati a far finta d’essere come noi…

Non solo gente che salta la fila…

Le impiegate che rallentano il ritmo di lavoro volontariamente…

Le impiegate che gestiscono soldi, fanno traffici illeciti (e ci sono in ballo un mucchio di persone che sanno le quali, ovviamente, stanno zitte perché ci guadagnano anche loro, sopratutto loro)…

E poi vorrei sapere come sia possibile che la loro “superiora” si sia trovata in quel ruolo lì, lei che è straniera e neppure sa parlare correttamente la lingua: c’è solo un’ovvia spiegazione: raccomandazione illecita…

Andrea De Carlo: Pura vita


Un uomo separato e la figlia adolescente fanno un viaggio in Francia. Nel frattempo l’uomo sta rompendo definitivamente con la madre della ragazza, tra problemi di comunicazione, pigrizie mentali, desideri di cambiare l’altro/a e polimorfe recriminazioni…

È un romanzo che si interroga sui frequenti problemi di comunicazioni tra i due sessi (e gli egocentrismi degli esseri umani che tendono a nascondere i veri quesiti), ma anche sulle innumerevoli questioni che in verità possono esser considerate vere e proprie tematiche filosofiche. Così De Carlo, zitto zitto, a mio parere ha realizzato uno di quei romanzi duplici (che si scrivevano sopratutto una volta) in cui, oltre la storia, si affrontano elementi di pura norma di vita.

PS: a un certo punto il protagonista maschile del romanzo afferma che se ci fossero le donne al potere è certo che il mondo sarebbe un posto decisamente migliore, anzi che solo così il mondo potrebbe salvarsi dalla deriva autodistruttiva che ha preso. Su tale questione, se pure un tempo posso esser stato d’accordo, oggi devo dire che ho capito che non sia così, purtroppo. E non tanto per colpa delle donne, quando proprio per via del concetto insito di Potere, perché il Potere corrompe sempre. Il problema è il Potere, non gli uomini che lo esercitano. Finché si permetterà l’esercizio del Potere ci sarà sempre l’abuso. Vi faccio un esempio: vi è mai capitato di sottostare a un capo femmina? Vi è sembrato migliore di un capo maschio? Statisticamente parlando, un capo femmina si dimostra stronzo come un capo maschio (alcuni sostengono che sono anche più stronze, le femmine ;-)).

Cartelloni superabusivi


Quest’anno si sono inventati di piazzare una nuova serie di cartelloni, naturalmente superabusivi, anche in luoghi ancora più costipati e improbabili dei precedenti. E i primi a usufruirne sono stati ovviamente quelli del centrodestra, che certo sono da sempre i più sozzi di tutti (e loro stessi ci tengono a dimostrarlo ogni volta).

Nondimeno, appena sono scattati i termini di legge per fare campagna elettorale, questi cartelloni sono stati soppiantati da quelli del centrosinistra, che loro le leggi le rispettano, sembrano volerci dire (come no!), però certo i cartelloni abusivi non se li fanno mancare neppure loro.

Poi domenica mattina scorsa ho trovato una sorpresa. I vecchi cartelloni abusivi erano stati staccati (giacendo in malo modo per terra vicino i secchioni della mondezza) ma al loro posto adesso c’erano dei manifesti (sempre abusivi) messi lì direttamente dal Comune di Roma (a giudicare dal marchio apposto in alto sopra di essi): questi erano cartelloni informativi con tutte le liste che si presentavano candidate.

Ora, a dire il vero, qui a Roma esistono delle mafie che per denigrare qualcuno sono capaci anche di arrivare a stampare dei manifesti falsi, fingendo di essere quell’organizzazione che si vuol infangare. Però credo che in questo caso sia verosimile pensare che quei cartelloni siano stati apposti proprio dal Comune di Roma…

L’incontro


Camminavo guardandomi l’anima dai piedi per una vecchia e stretta via, sul ristretto marciapiede, attento a dove li mettevo perché numerosi erano gli avvallamenti presenti sull’asfalto. A un tratto sbucò dalla strada una motocicletta la quale tracimò sul marciapiede per presto apparirmi davanti. Per un attimo pensai mi volesse investire visto quanto era stata brusca e calcolata la sua manovra. Alla guida c’era una ragazza selvaggia che sembrava molto bella e giovane. Indossava un casco che pur coprendole gran parte della capigliatura le lasciava però libero il volto. Aveva labbra rosse e carnose, carne bianca e fresca sulle gote. Cercò i miei occhi, anche se io come detto li tenevo piuttosto chini. Non fu soddisfatta fin quando non dovetti alzarli, per forza di cose, per vedere cosa stava succedendo e che situazione mi si stesse prospettando all’orizzonte.

Una volta stabilito quel contatto visivo, mi disse amichevolmente: «Ciao». E io mi trovai in grande imbarazzo perché non avevo idea di chi fosse. Ma che dovevo fare? Decisi al volo di salutarla, anche se ignoravo nella maniera più assoluta la sua identità. A quel punto la ragazza, che per un attimo si era fermata attenta sul mio volto in attesa della mia risposta, che mi aveva dato tutta l’impressione che non se ne sarebbe andata finché non le avessi assegnato la giusta considerazione, fece una specie di smorfia che poteva essere interpretata che si accontentava di quel che le avevo biascicato e le dispiaceva ma adesso doveva proprio andare.

E infatti così fece, sfrecciando sulla sua lambretta nella strada interna di un edificio che si apriva proprio in quel punto. Feci a tempo però a notare seduto dietro di lei un silente ragazzo biondo, giovane, che doveva avere più o meno la sua età, sui venti anni.

Dunque mi allontanai come un ladro da quei paraggi il più velocemente possibile, timoroso che la ragazza potesse tornare indietro per parlarmi svelando che non l’avevo affatto riconosciuta.

Una volta svoltato l’angolo, avendo riacquistato un po’ di discernimento, mi spaccai il cervello cercando di immaginarmi il volto intero della ragazza poiché sentivo che a figurarmelo completo non avrei avuto più dubbi circa il fatto se l’avessi conosciuta davvero o meno. Ma non approdai a nulla, neppure un vago sospetto su chi fosse. Era come non l’avessi mai incrociata prima. Eppure lei era stata gentile con me, oltre che certissima di chi fossi, tanto che mi aveva quasi investito pur di dimostrarmelo.

Non conoscevo alcuna ragazza di quell’età che avesse qualcosa da spartire con me. Chi mai poteva essere quella ragazza sulla moto?

 

Il gran maestro Sufi Fuffi


Ispirato a una storia vera.

Un giorno fu organizzato un convegno con il grande maestro Sufi Fuffi. Quel giorno il teatro pieno aspettava il gran maestro Sufi Fuffi ma questi, dopo un’ora, non si faceva ancora vedere. Neppure gli organizzatori sapevano dove diavolo fosse finito il gran maestro Sufi Fuffi.

Dopo un’altra ora, quando metà del pubblico se n’era già andato, entrò nel teatro un vecchio barcollante, ubriaco, con un alito da fogna che disse di essere il gran maestro Sufi Fuffi. Al che, sdegnati, quasi tutti abbandonarono i loro posti piuttosto agguerriti e già pronti a farsi rimborsare il biglietto.

Rimasero tuttavia una ventina di persone le quali si dividevano in quelli che non avendo nulla da fare si aspettavano almeno di rimediare alla serata con la venuta del vecchio, e quelli ancora ardentemente speranzosi che il gran maestro Sufi Fuffi potesse rivelare loro il segreto della vita eterna o qualche rilevante illuminazione.

Ma il gran maestro Sufi Fuffi, prima di salire sul palco, si confrontò con gli spettatori insultandoli, dicendo parolacce, bestemmiando, sembrando totalmente fuori di testa e insidiando le donne, sostenendo che sotto sotto dovevano essere puttane e quella era l’unica lezione che voleva loro impartire.

Rimasero in teatro solo tre persone e due di esse ancora credevano che il gran maestro Sufi Fuffi avesse potuto rivelar loro qualcosa di importante, mentre la terza ero io, che ero finito là solamente per una serie incredibile di casualità e non me ne ero ancora andato solo perché in quel mentre soffrivo di un atroce crampo alla gamba che mi impediva di farlo.

Il gran maestro Sufi Fuffi salì finalmente sul palco. Si fece portare un caffè doppio e se lo bevve tutto. Si mise la testa sotto l’acqua gelata di un secchio per riuscire a rigovernarsi. Il gran maestro Sufi Fuffi disse agli spettatori sopravvissuti che in realtà aveva fatto tutta quella recita solo affinché rimanessero solamente coloro i quali erano davvero interessati ad addivenire alle sue preziose lezioni.

I due fedeli seguaci si sentirono molto intelligenti e vicini all’illuminazione e si inorgoglirono molto. Io invece imprecavo tra me e me pensando a quanto ero stato sfortunato quel giorno a finire lì.

Il gran maestro Sufi Fuffi disse la sua solfa piena zeppa di cazzate zen-sufi. Che tutti potevano cambiare, bastava volerlo. Che i colori non esistono, esistono solo gli occhi che li guardano. Che non conta come si dorme ma come ci si alza e si cammina. Che l’erba del vicino ha sempre il tosaerba bello. Che… Cazzate su cazzate. L’ultima fu che nessuno poteva picchiarlo se lui non lo voleva, cioè se lui desiderava davvero intensamente che ciò non avvenisse (per un principio innato di socialità tra gli esseri viventi). Il gran maestro Sufi Fuffi, volle dimostrare il suo precetto. Così invitò i due dementoni davanti a me a colpirlo. Il primo alzò la mano ma poi disse che non ce la faceva. Il secondo fece lo stesso ma con più veemenza. E lo stava quasi per colpire ma poi si gettò in terra tarantolato e supplice ai piedi del gran maestro Sufi Fuffi affermando che non ci riusciva, piangendo.

A quel punto tutti gli occhi si convogliarono su di me. Il gran maestro Sufi Fuffi mi disse di alzarmi e tentare di colpirlo anche io, anche io che fino allora me ne ero stato lì tutto per conto mio senza degnarli di considerazione, almeno apparentemente. Io gli dissi che avevo un crampo alla gamba sennò me ne sarei andato già da tempo.

I visi dei due dementoidi si interrogarono sulle mie reali motivazioni mentre il gran maestro Sufi Fuffi sorrise contento verso loro dicendo: ecco un semi-miscredente; sono quelli che danno le soddisfazioni migliori quando si convertono; non vi offendete, ma appena lo avrò portato completamente dalla mia parte, lui sarà più degno di voi, disse loro. E loro si manifestarono delusi. Erano lì che gli stavano leccando il culo da tempo e poi venivo io bello bello che li superavo subito senza nemmeno provare ad arruffianarmelo…

Il gran maestro Sufi Fuffi mi disse di provare ad alzarmi. Adesso ci sarei riuscito. E invero ci riuscii e ne fu molto contento. Me ne stavo per andare ma poi il gran maestro Sufi Fuffi mi intimò di salire anche io sul palco e provare a colpirlo. Io normalmente me ne sarei altamente sbattuto, ma quello stronzo era talmente pieno delle cazzate che proferiva che non resistetti dall’accontentarlo. In fondo era lui che lo voleva, no? Quando mi sarebbe ricapitata un’occasione così?

Mi ritrovai così sul palco di fronte a lui. Ai lati, i devoti beoti. Colpiscimi!, mi disse il gran maestro Sufi Fuffi con un largo sorriso. Io dissi: se davvero lo vuoi… E gli mollai un manrovescio che lo fece capitombolare a terra. Poi voltai loro le spalle e me ne andai.

Quel giorno il gran maestro Sufi Fuffi non si rialzò. Fu necessario ricoverarlo in ospedale per un paio di giorni. In seguito, circa quell’increscioso accaduto, il primo adepto avrebbe riferito: il gran maestro Sufi Fuffi ha vinto perché ha dimostrato che la non violenza è un concetto che se ne sbatte altamente della violenza.

Il secondo accolito avrebbe commentato: quel tipo che l’ha colpito era troppo miscredente e non poteva essere redento. E dentro di sé se ne era beato poiché sarebbe stato lui uno dei discepoli più fedeli del gran maestro Sufi Fuffi.

Il gran maestro Sufi Fuffi, dopo due giorni si riprese pienamente e interrogato su quel fatto disse enigmaticamente: la luce che brilla nel cuore non potrà mai essere più brillante della nova di una galassia…

Fanculo, gran stronzone Fuffi.

Oliver Sacks: Vedere voci – Un viaggio nel mondo dei sordi


Il titolo è molto esplicativo. Leggendo questo libro ho scoperto un mucchio di cose che non sapevo, che normalmente avrei erroneamente presunto di sapere, o anche non avrei ritenuto interessanti, che invece sono molto felice di aver scoperto.

A esempio, ho appreso che non esiste solo una lingua dei segni come una persona avulsa da tali tematiche forse sarebbe portata a pensare, ne esistono innumerevoli. E il motivo è che è spontaneo per i sordi creare dei linguaggi che permettano di rapportarsi tra loro, come pure con gli udenti (questa affermazione meriterebbe di essere approfondita, ma non ho lo spazio necessario per farlo e vi rimando direttamente alla lettura del libro).

Esistono lingue dei segni molto potenti in grado di spiegare ogni cosa esattamente come un comune “linguaggio sonoro”, come la ASL, che è una lingua dei segni americana. Esistono lingue dei segni molto simili tra loro, come pure altre che risultano praticamente incomprensibili a chi ne conosca solo una.

Esistono lingue dei segni che sono derivate da linguaggi comuni e queste lingue sono molto peggiori (perché risultano più forzose e macchinose) rispetto a lingue dei segni più naturali tipo la ASL (questo è il punto di vista dell’autore che ho deciso di condividere in pieno pur non avendo mai sperimentato sulla mia pelle queste problematiche).

Sacks fa giustamente notare come nascere sordi sia immensamente peggiore che nascere a esempio ciechi. Perché un sordo tende a essere tagliato fuori dal mondo e dagli altri esseri umani (e dalle informazioni che sono in grado di farlo crescere) se non può rapportarsi con loro con il linguaggio. Succede purtroppo molto spesso che un sordo sia considerato autistico o ritardato poiché non riconosciuto come sordo…

È un libro che chi è dentro la questione sordità deve assolutamente leggere. Però anche a chi non lo è non farebbe certo male leggerlo. Io sono felice di averlo letto.

Cuscinate


Alla sera entrammo in quella enorme camerata tutti incredibilmente con la stessa fisima. Il mio ghigno mi tagliava la testa a metà per quanto era evidente.

E dire che ero sempre uno dei più calmi! Beh, se anche io ero ridotto così, talmente invasato da non vedere l’ora di perdere ogni freno inibitorio, voleva dire che quella smania era come una malattia contagiosa alla quale era impossibile opporsi.

E gli adulti sembrava che avessero capito tutto. Forse avevano udito i nostri discorsi di nascosto (discorsi che tutti facevano contemporaneamente non sapendo che nel medesimo momento anche gli altri ne parlavano eccitati!), o forse semplicemente avevano molta esperienza di faccende simili, fattostà che, da bravi e assennati educatori, decisero che, visto che nonostante tutta l’autorità che avevano non avrebbero mai potuto opporsi a quel nostro desiderio, avrebbero potuto però almeno tentare di arginarlo e regolamentarlo. Così addirittura furono essi stessi che, annusando l’aria che si respirava la prima sera, quando era ora di andare a dormire, ci dissero che potevamo fare a cuscinate. Ma solo per un minuto: sessanta secondi di sfreno totale! Al termine dei quali, quando si sarebbe udito il suono del fischietto, le ostilità sarebbero dovute terminare immediatamente senza se e senza ma, pena il depennamento completo di eventi similari; e poi, si sarebbero spente le luci e saremmo dovuti andare tutti a letto, senza fiatare! E noi, senza pensarci su due volte, accettammo, già inebriati del prossimo sfogo a cui anelavamo smodatamente.

In realtà, fossi stato nei grandi, avrei aggiunto un’ulteriore altra postilla: e cioè quella di non accanirsi contro chi si trovasse particolarmente in difficoltà; o anche quella di non attaccare contemporaneamente una persona che già stava fronteggiando un combattimento. Comunque loro non ritennero che fosse necessario, forse perché pensavano che in un minuto non sarebbe stato ammazzato nessuno…

In pigiama, ci alzammo in piedi ognuno accanto al proprio letto, ognuno con il suo cuscino stretto a mo di arma d’offesa ma anche di sacrale egida difensiva. La maestra si mise il fischietto in bocca mentre l’intera camerata la guardava con gli occhi di fuori. E il fischiò di partenza fu emesso…

La camerata divenne una bolgia. Mi ritrovai subito nel centro di una baruffa. Mentre attaccavo quello che avevo davanti, mi giunse vigliaccamente una cuscinata alle spalle che mi fece vacillare. In breve mi trovai subito a fronteggiare un duplice attacco… Quello che avevo davanti si difendeva come un ossesso: sembrava non avesse fatto altro in vita sua che fare a cuscinate. Sarebbe stato un avversario ostico anche affrontandolo nell’uno contro uno… I suoi occhi erano accesi di furore e mi dicevano: non mi avrai, bastardo! sono più forte di te! ti demolirò! Tuttavia ero molto agile e schivavo sovente i suoi potenti colpi e, dopo che si era sbilanciato, lo colpivo punendolo per la sua arroganza. Insomma, normalmente avrei vinto io, non c’erano dubbi. Però c’era quello stronzo che mi martellava da dietro… Teoricamente sarebbe dovuto essere uno dei miei migliori amici e invece era uno dei peggiori vigliacchi traditori che avessi (e avrei) conosciuto in vita mia. Mi assestava dei colpi che mandavano a scatafascio le mie sofisticate tecniche di fioretto.

All’inizio mi opposi con rabbia sia all’uno che all’altro, ma presto dovetti cedere perché le cuscinate che incassavo erano troppe rispetto a quelle che davo. Mi ritrovai presto come un pugile suonato al tappeto, steso su un letto che neppure era mio, e quelli ancora lì a coalizzarsi per accopparmi… Ma per fortuna a un certo punto quello con gli occhi di brace, forse avendo pena di me, andò contro il mio finto amico e allora potei tornare a respirare e, un po’ rintronato, mi alzai nuovamente in piedi. Ero ancora vivo…

Ma non ebbi neppure un attimo di respiro perché mi fu subito innanzi un altro guascone. Il peperino aveva il letto decine di metri dopo il mio ma si stava facendo tutta la camerata al galoppo per gareggiare con più gente possibile. Non aveva affatto paura. No, lui voleva battezzare tutti… Anche lui aveva occhi di fuoco, ma oltre a un buon fisico e la potenza delle cuscinate sferrate, era molto più sveglio degli altri e si districava bene come me con le schivate e le finte. Ecco, lui era più forte di me, più bravo, me ne accorsi subito, purtroppo. Con lui ce le prendevo, non c’era nulla da fare perché era più potente, più agile e più furbo.

Mi ritrovai in difficoltà a dovermi solo difendere con un grandissimo fiatone che non mi permetteva di recuperare energie. Per sfuggirgli, mi mossi anche io, in avanti, per sorpassarlo. Lui un po’ mi inseguì all’indietro ma poi decise di continuare nel suo tour della cuscinata, lasciandomi alle spalle.

A pochi metri davanti il mio letto mi si dischiuse un nuovo mondo. Per un attimo ebbi il quadro d’assieme della camerata ormai in rivolta… C’era un altro mio amico che menava come un fabbro tutti quelli che passavano di lì. Me ne diede un paio anche a me prima che lo superassi. C’erano due, tre ragazzini che stavano dandosi battaglia come fossero Capitan Uncino e Peter Pan. Saltavano, urlavano, si inveivano contro. Era bello osservali superarsi di continuo. A un certo punto, uno dei tre scivolò a terra e un altro gli fu sopra spietatamente. Gli assestò tante di quelle cuscinate che, ci fossi stato io al suo posto, avrei perso i sensi, e, fossero stati su di un ring, l’arbitro avrebbe sospeso l’incontro per K.O. Tecnico. Poi intervenne un terzo ragazzino che rovesciò le sorti del match…

Più avanti mi imbattei in una “femmina”. Infatti c’erano delle femmine che non avendo trovato posto nella camerata femminile erano state imprudentemente aggregate in quella maschile (e per fortuna che non sarebbe accaduto nulla). Già, anche loro partecipavano alla tenzone come tutti i maschietti. D’altronde a quell’età non c’erano molte differenze sia di forza che di velocità tra di noi. Non resistetti all’idea di darle una bottarella: ma quella aveva la faccia arrabbiata di chi se n’era visti passare già molti altri con lo stesso intento. E si difendeva come se l’avessi voluta violentare. Mi scacciò come fossi stato un cane rognoso che tentava di rubare un boccone alla tavola dei padroni. La lasciai stare pensando per l’appunto alla grande quantità di maschietti che avevano e avrebbero provato a darle fastidio…

In breve mi accorsi che, se dove dormivo io avevo ingaggiato battaglie accanite ma pur sempre con qualche notevole possibilità di sfangarla, altrove sembrava imperare la dura legge della giungla più feroce. Gli altri sembravano bestie, babbuini sul piede di guerra, piuttosto che ragazzini normali come me.

Così, dato che quel che trovavo andando avanti mi faceva paura perché sembrava proprio un girone infernale, decisi di tornare indietro. Facendo il percorso al contrario affrontai altra gente mai vista, che incrociai solo in quell’occasione e non avrei mai più incrociato per tutto il resto del soggiorno.

Tornato al mio letto, mi accorsi che la battaglia infuriava ancora indomita come non mi fossi mai allontanato. Mi ritrovai ancora in un “due contro uno” in cui ero l’uno, con i polmoni che mi dicevano che non ce la facevano più e che mi dovevo fermare… Stavo quasi per crollare quando… arrivò infine il salvifico fischio della maestra, che sembrava avesse fischiato appositamente per trarre in salvo me, mentre invece alla grassona non importava niente della mia sorte poiché pensava che in una maniera o nell’altra me la sarei cavata, come tutti.

Salvo. E senza fiato. La gioia era stata tanta, ma anche il timore di non farcela, di crollare: una sensazione che non avevo mai sperimentato prima. Quella gioa fu resa un po’ più amara da quella constatazione: non tutti tenevano un’etica da gentiluomini nell’infuriare della lotta. Anzi, la maggior parte degli altri ragazzini erano delle iene assetate di sangue che non vedevano l’ora di darti una botta così forte da mandarti all’altro mondo (e in tal caso nessuno avrebbe potuto incolparli di nulla).

Quando venne dunque la seconda serata, ero un po’ meno euforico e molto più prudente. La maestra aveva nuovamente il fischietto in bocca ma prima ci disse che Malcom, che aveva un’aria abbattuta e stava al suo fianco, disarmato, senza cuscino, non avrebbe partecipato alla tenzone per via di un imprecisato mal di testa. Lo guardai con compassione. Dunque qualche vittima della prima tornata c’era stata. Malcom doveva averne prese così tante da sconsigliargli di tornare nell’arena. Mi dispiacque per lui ma pensai anche che io non ero un poveraccio come lui e che potevo ancora combattere: io ero forte, lui era debole.

Quella seconda sera andò in maniera molto diversa della prima, come pure di tutte le altre che seguirono. Stavolta fui molto, molto più accorto e non mi feci mai sorprendere alle spalle dai vigliacchi a cui piaceva attaccare in quella maniera. In pratica badai per prima cosa alla difesa, prima ancora che darle. Talvolta mi palesai così passivo che la gente preferì andarsi a scaricare altrove, dato che non mi prendeva e rischiava pure d’esser castigata appena il loro colpo fosse andato a vuoto. Così praticamente mi capitò delle volte di dover difendere con notevole facilità il mio territorio dai pochi che vi si avventuravano e poter osservare quasi in disparte le baraonde che avvenivano altrove, dove la gente continuava a darsele di santa ragione…

Nessuno mi toccò più. Non lo permisi. E l’appuntamento con le cuscinate alla sera, prima di andare a dormire, non mi fece più tanta paura. Sapevo che uno come me era perfettamente in grado di non farsi spaccare le ossa dagli altri. Solo qualora mi avessero voluto fare la festa avrebbero potuto farmi secco. Ma io non stavo antipatico a nessuno quindi non c’era motivo che mi facessero uno sgarbo del genere.

Dopo le cuscinate, gli insegnanti se ne andavano nelle loro stanze e a noi ragazzi ci lasciavano da soli. Allora cominciava tutta un’altra storia. La gente per la maggior parte si metteva sotto le coperte e cominciava a parlare con i vicini. Si tiravano fuori le torce e si proiettavano i fasci luminosi sul soffitto giocando a rincorrersi. Quelle torce che poi non utilizzammo mai in quella gita, neppure quando andammo alle grotte, se non per l’appunto in quel modo.

Io avevo con me dei preziosi biscotti farciti che mi ero portato come scorta (dei biscotti la cui marca ancora oggi esiste ed è molto apprezzata). Dato che da bambino ero un po’ schizzinoso e ai pasti mangiavo pochino, un po’ come pure gli altri miei coetanei, mi tenevo quei buonissimi biscotti come rifornimento d’emergenza. Così stabilimmo di mangiarne al più uno o due per notte, io e quel mio falso amico che era stato il primo ad attaccarmi alle spalle, sennò non avremmo avuto più niente da mangiare per i giorni successivi. In realtà poi ci dimenticammo di avere quella golosa provvigione di cibo e finii per tornare indietro con metà pacchetto intonso.

Di quella gita ricordo che una volta tornato non rammentavo quasi nulla dei posti visitati. Ero stato troppo occupato a vivere quell’esperienza intensamente, come poteva fare un bambino che non aveva mai viaggiato…

Coppie: Due anziani


Sono stati parecchio tempo a parlare in maniera anche molto concitata. Me ne sono accorto anche se erano piuttosto lontani. Lui aveva un non so che di zingaresco. Lei sembrava più ordinaria. Due vecchi.

A un certo punto hanno cominciato a muoversi verso l’uscita, ma lo hanno fatto molto lentamente. Ogni tanto, catturati da una nuova questione, si fermavano a parlare. Lei gli ripeteva ostinatamente certi concetti che evidentemente per lei erano fondamentali. Lui si difendeva. Sembrava che le ragioni di lei fossero più genuine…

Se ne vanno. Però dopo anche io sento il bisogno di andare. Così gli concedo un po’ di vantaggio e appena svoltano l’angolo anche io mi dirigo verso l’uscita. Prenderò la via che non hanno preso loro…

Li ho superati. Mi fermo proprio verso l’uscita dove non c’è nessuno in quel momento. Svariati minuti dopo sento discutere animatamente. Lei ha una voce squillante, giovanile. Lui da uomo di mondo, anche un po’ stanco. Sono ancora loro, i due vecchi. Da vicino li vedo meglio. Lui ora mi appare vestito giovanile con un giubbino rosso molto da pischelletto, nonostante la brizzolatura evidente di capigliatura e barba e l’andamento claudicante. Però anche lei non gli è da meno e anzi lo batte perché indossa dei pantacollant aderenti neri come fosse una ragazza venuta a correre. E infatti ha anche le scarpe da ginnastica.

Stesso copione. Però stavolta capisco tutto quello che prima non avevo capito. È una questione di gelosia…

«Tu però!… Tu, non lo dimenticherò mai, quella volta che sei stato al telefono con lei per due ore! Due ore! Ma non lo capivi che lei…», dice lei ferita con tono accusatorio.

Lui si ferma per l’ennesima volta compiendo gesti plateali.

«Ma te l’ho detto! La prima cosa che le ho detto è stato che non l’amavo più! Sono stato chiarissimo. Non si poteva fraintendere…»

«See, però sempre due ore sei stato con Dorotea!»

I loro corpi sono vecchi. Avranno settanta anni suonati, almeno. Ma si comportano come giovani bruciati da passioni cocenti.

Osservo con la coda dell’occhio lei. Capelli bianchi. Faccia da vecchia. Osservo le sue gambe, il sedere piatto, magro: quasi a chiedermi se davvero tutta quella passione possa essere sintomo di giovinezza corporale. Ma non è così. Lei si accorge che la guardo. È come se intuisse quel che mi chiedo, e ne deve essere ben fiera che un giovanotto come me possa almeno essere incuriosito da una come lei. Da lei e non tanto dai suoi dialoghi.

Non la guardo più. Lei se ne va gettandomi qualche altra occhiata, mentre riattacca da capo il discorso di Dorotea…