Cammino o saltello. Davanti o lateralmente. Lento o veloce. Ho molteplici occhi che mi infondono una visione stramba del mondo. Però, essendoci abituato, lo comprendo bene, il mondo.
Mi cerco un posto che sia tranquillo (ma non troppo). Al riparo dalle folate impetuose del vento (ma non troppo, qualche brezza aiuta). E poi comincio a lavorare. Tesso. Tesso dall’addome mio una tela, che poi tela vera non è. Perché la tela, quella vera, si origina da innumerevoli incroci di trama e di ordito. Mentre la mia, molto più modestamente, e un filo lanuginoso, appiccicoso, biancastro che incollo uno sull’altro.
Però, a esser sinceri (e anche un po’ modesti), è proprio lì che do il meglio di me. Perché gli intrecci che creo originano per l’appunto quella tipica forma che da me nacque e prende il nome: la ragnatela.
Dunque, una volta realizzato il mio magnifico arazzo, aspetto. Non devo far altro. Mi basta mettermi a un estremo della mia tela. Quando qualcosa ci finirà dentro, mi muoverò per vedere che regalo mi ha portato la provvidenza. Può essere un moschino. Può essere un altro insetto. Ma in genere è una succosa mosca cioè, tra tutti gli insetti, quello più stupido, fastidioso, luciferino, e inutile direi.
Quando la preda è intrappola allora io di solito non la divoro subito. No. La metto da parte. La insacco come un (vostro) salame e l’appendo da qualche parte. Potrò sempre mangiarla dopo (non è che mi serva tanto per permanere in vita. Mi accontento di poco io. Che volete… Sono solo un umile ragno).
Per cui, uomini cattivi, non mi scacciate dai vostri balconi, o dagli angoli delle vostre stanze, che io sono uno spazzino dabbene e ripulisco dalle immondità degli insetti in soprannumero. Dunque siate clementi con me quando mi incontrate. Non mi uccidete (oppure una maledizione ricadrà su di voi). Non mi calpestate. Non mi schiacciate e non mi scacciate. Al limite potete, se proprio non mi sopportate, spingermi gentilmente ad accomodarmi sul vaso che tenete fuori sul davanzale.