Piccole tragedie del convivente

Qui sudo poco ed è meno agevole lavarsi perché è sempre molto complicato trovare il giusto mix tra acqua calda e fredda. Così, complice il freddo, mi faccio la doccia circa una volta a settimana, e a dir la verità mi basta e avanza…

Una di queste volte ero lì che tentavo di insaponarmi i capelli giostrandomi tra l’acqua bollente e quella gelata. Sfregavo, sfregavo ma la schiuma non veniva.

Cazzo!, ho pensato a un tratto: non riesco a lavarli! Ma quanto mai saranno sporchi?! Oddio, a che livello di abbruttimento sono mai giunto, così senza neppure accorgermene?!

Era la quinta volta che ci provavo… ma niente. Non fa schiuma!, non fa schiuma!, mi dicevo terrorizzato che mi fosse irrimediabilmente cambiata la cute e che d’ora in poi avessi dovuto convivere con chissà quali malattie e iatture, come minimo la caduta prematura dei capelli, oppure una serie di croste sulla testa che col tempo mi avrebbero sfigurato la faccia…

A un certo punto, tra il continuo stare accucciato e il rialzarsi, anche le gambe mi stavano cedendo. Non ce la facevo più! Allora ho tentato la carta alternativa. C’era un altro shampoo proprio lì, accanto a quello che stavo usando, bello che disponibile. Mi son detto: perché non provare? Magari con questo andrà meglio.

Ed effettivamente poi va molto meglio; d’altronde è uno di quegli shampi che fanno subito molto schiuma, con i quali mi sono trovato sempre molto bene – anche se, nota a margine, non bisogna dimenticare che in genere questi prodotti così schiumogeni contengono sostanze particolarmente pericolose per la salute…

Faccio una passata col nuovo shampoo, e poi per sicurezza ne faccio un’altra. Va tutto estremamente liscio. Dunque, stremato, con le gambe che non mi reggono più, mi sciacquo per bene e finalmente esco dalla vasca. Alla fine ce l’ho fatta! Ho superato anche questa prova della convivenza!

Mentre mi asciugo i capelli penso che devo proprio parlare di questa disavventura al mio amore: le devo riportare che quello shampoo probabilmente ha qualcosa che non va: che non lo usasse quindi! Deve essere troppo denso. Chissà da quanto ce l’aveva lì, lei che ha sempre le scorte di tutto. Le si deve esser concentrato troppo. Anche se non ho mai visto uno shampoo ridotto così se non quella volta in cui…

Acc.!, proprio quando sto per prendere la porta del bagno per farle questo discorsetto assennato, mi sovviene un dubbio… Vuoi vedere…!, mi dico. Controllo bene lo shampoo incriminato che non faceva schiuma e… mi accorgo che era come sospettavo: non si tratta di uno shampoo bensì di un balsamo! Ecco perché adesso ho i capelli così soffici e non ho faticato a pettinarli!

Esco dal bagno con la coda tra le gambe. Ho evitato una mia ennesima figura di merda capace di farle venire il dubbio che non sia l’uomo adatto a lei. Ora devo inventarmi una scusa per giustificare la mia prolungata presenza in bagno e tutta quell’acqua che ho fatto scorrere. E devo fare molto in fretta…

Amooooreee, certo che hai fatto una doccia molto lunga, eh?, mi dice…

Casa pelosa (fumetto)

D’accordo. Si tratta di un’opera sicuramente destinata a un pubblico infante. Questo è indubbio. Ma non capisco come una storia strampalata come questa possa esser stata avallata – difatti la parte narrativa rasenta l’inutile idiozia. Che ci voleva a fare una storia con un minimo di senso, magari molto semplificata con una seppur minima logica elementare che la guidasse?

Bah. A ogni modo questa avventura grafica mi ha fatto venir voglia di provare a realizzare anche io un racconto illustrato per bambini. Vedremo. 🙂

La commessa: Mora-bionda 2

Quest’oggi l’Infida Mora era di nuovo al bancone del pane, col Norcino che le alitava sopra e cercava di essere comprensivo, ma come può esserlo lui: mostrandole tutta la sua virilità di uomo pratico e di mondo. La cosiddetta mora bionda gli stava dicendo che non ce la faceva proprio più. Il discorso era interessante e mi sarebbe piaciuto approfondirlo. Così mi sono appostato lì vicino, nel reparto frutta, in solerte ascolto, sperando in qualche leccornia uditiva.

Ma lei, appena ho attraversato il suo campo visivo, si è come bloccata. Ha troncato di netto quella frase che stava dicendo dopo che il Norcino, offrendole accentuatamente il suo aiuto, l’aveva invitata a esprimersi più chiaramente. Le ha reiterato la sua richiesta ad aprirsi più volte, anche lui divorato dalla curiosità, lui ben peggio di me. Ma la mora bionda non ha più voluto proseguire. Gli ha fatto un cenno che stava a significare che non voleva lamentarsi davanti ai clienti, cioè me.

Di due cose sono abbastanza certo, e mi fanno piacere entrambe. La prima: il Norcino scostumato non c’entra affatto nelle sue lamentazioni. No perché poteva pure essere che fosse stufa delle sue palpazioni sotto banco. Invece no. Nondimeno non è da escludere che la mora bionda abbia voluto accentuare il suo atteggiamento proprio di fronte a lui, per fargli pena, in modo da essere lasciata più libera del solito.

La seconda: qualora il cliente fosse stato un altro, magari la mora bionda si sarebbe confessata senza badare ad altre presenze. Insomma: per lei è importante dare una certa immagine di sé, con me, perché in qualche modo le interesso. 🙂

Paul Auster: Il libro delle illusioni

Eh, sì. Purtroppo Paul Auster non è questo mostro sacro che credevo, in grado di non sbagliare neppure un libro. In questo caso non si può dire che il libro sia propriamente sbagliato, però mi ha annoiato. È una una macrostoria con dentro una serie di storie brevi che sembrano un po’ tirate via, o appunti per delle storie che l’autore non aveva voglia di esplodere (=dettagliare maggiormente). Troppo poco per affezionarsi ai personaggi o creare un prodotto al fulmicotone, come in altri casi.

Un uomo sull’orlo del baratro, vedovo di moglie e figli, nel periodo più delicato della sua vita si affeziona alle opere di un divo (secondario) del cinema muto, di cui presto diventa un vorace fruitore di film, guadagnandosi anche il titolo di “autorità” della sua vita. Finché un giorno viene contattato da una misteriosa donna che si qualifica come moglie dell’attore – che, contrariamente a quanto immaginava, non era già morto, però sembra se la passi decisamente male essendo lì lì per tirare le cuoia, ormai vecchio e malato – il quale lo vuole assolutamente vedere prima di morire. Sarà un modo per ripercorrere tutta l’avventurosa vita dell’artista, nella quale si può dire non mancò niente, tra fughe, amori e omicidi…

Gente pulita

Domenica 21 febbraio qui a Roma c’è una raccolta speciale dei rifiuti ingombranti, elettrici, eccetera, insomma roba che non si smaltisce facilmente. Roba che solitamente uno deve andare nei pochi centri abilitati a portagliela e sperare che non si inventino una scusa per non prenderla lo stesso. Per cui l’occasione era davvero ghiotta. Allora ci siamo andati, io e la mia ragazza. Abbiamo riempito due zainetti e una busta e nonostante fosse una bella domenica di sole ci siamo messi alla fermata ad aspettare pazientemente che passasse l’autobus – tutto questo perché hanno tolto il punto in cui mesi prima facevano queste raccolte in zona, ma pazienza.

La fermata però non è ottimale. Innanzitutto c’è un grosso albero quasi sulla strada che impedisce la visuale. Secondariamente, e questo è anche peggio, la strada in cui siamo è molto trafficata nonostante sia domenica, per cui ci arriva un sacco di smog. Allora tempo dieci minuti stabiliamo di andare ad aspettare l’autobus qualche fermata dopo.

Così l’autobus ci fa attendere in totale solo una quarantina di minuti – e mi aspettavo pure peggio.

Una volta a destinazione – il punto di raccolta lo hanno collocato direttamente nei pressi della sede del municipio, nel parcheggio – entriamo senza problemi. Vediamo un sacco di macchine in fila. La coda arriva fin alla strada. Mi chiedo ingenuamente per un attimo come mai ci sia. Ma è palese che il motivo possa essere solo quello: gente venuta in macchina a portare i loro rifiuti ingombranti.

Faccio un paio di battute alla mia ragazza: spero non ci retrocedano dopo quelli venuti in macchina, sennò staremo qui chissà quante ore; spero non ci obblighino a prendere il numeretto. Ma in realtà chi viene a piedi fa molto in fretta a sbarazzarsi dei suoi rifiuti dandoli a quelli dell’AMA – che qui a Roma si occupa dei rifiuti.

Dunque in pochi secondi siamo lì a parlare con un bravo lavoratore illustrandogli cosa gli abbiamo portato. Lui con un sorriso ci fa: okay, lasciate tutto qui che ci penso io. Deve essere anche contento perché è poca roba e neppure pesante.

Ce ne stiamo per andare quando un altro operatore pelato di AMA ci ferma con fare perentorio. Ci dice: no!, la roba elettrica portatela lì in fondo! Noi eseguiamo. Avrebbe dovuto farlo lui, ma facciamo finta di non saperlo. Dunque portiamo la roba più giù, dove incontriamo altri operatori attorno ad altri grossi camion. In particolare parliamo a uno a cui consegniamo le cose senza che esso pronunci una sola sillaba. Non dice nemmeno buongiorno – la mia fidanzata mi ha fatto giustamente notare come in realtà qui a Roma la gente, in particolare i lavoratori, o presunti tali, siamo molto più sgarbati che dalle sue parti, al nord. Qui sussiste un egocentrismo elevato all’ennesima potenza.

Ce ne torniamo verso l’uscita arcifelici di aver compiuto il nostro dovere civico. Nel frattempo fuori la coda delle automobili che attendono per entrare si è ulteriormente allungata. Osservo le facce scorate della gente alla guida e giuro che ho pena per loro. Tra l’altro mi sembra tanto che quelli dell’AMA li facciano passare col contagocce, per scoraggiarli, sperando che quelli se ne vadano, così loro lavoreranno meno.

Bene. Abbiamo qui parlato di gente pulita.

Che poi saremmo io e la mia fidanzata.

Come pure la gente disposta a farsi chissà quante ore in macchina pur di fare il loro dovere civico – gente che di sicuro non è fascista, perché a un fascista non importa nulla dell’ambiente e del decoro.

Come pure, pulito, era quell’operatore dell’AMA felice che noi stessimo facendo il nostro dovere civico.

Mentre non erano tanto puliti quegli altri operatori che volevano lavorare il meno possibile; e quelli che scoraggiavano la gente in macchina facendoli attendere delle ore solo per poter depositare qualche vecchio mobile di cui si volevano liberare.

Per dire che la gente pulita tutto sommato esiste.

Mentre quella sporca avvelena di continuo la vita della gente pulita. Rema contro. Manda a schifio tutto.

La gente pulita si adopera per far andare le cose meglio.

Quella sporca manda tutto in vacca.

Il vero problema è la gente sporca.

Il mare in inverno

Sulla Roma-Lido per andare al mare a un certo punto sento puzza di bruciato, più o meno all’altezza di Ostia. Poco dopo, dal treno, vedo ampie zone in cui stanno facendo roghi. Anche al ritorno sentirò la stessa puzza – è presumibile che questi fenomeni non siano affatto sporadici.

E pure una volta scesi alla nostra stazione, Stella Polare, si percepiva chiaramente che nell’aria c’era qualcosa che non andava.

Siamo dovuti arrivare fino a riva per poter respirare bene.

E vaffanculo a tutti i soggetti preposti che permettono che queste illegalità diffuse restino impunite.

Pecore e lupi elettrici

Ormai era divenuto quasi impossibile distinguere a occhio nudo gli umani dagli androidi, non fosse stato che questi ultimi nella maggior parte dei casi si comportavano in maniera imbalsamata e sopratutto avevano la stessa faccia riciclata, vista più volte – vestendo tra l’altro quasi sempre nello stesso modo.

Appartenevano a tale categoria le amazzoni androidi, che altro non erano che il gruppo più consistente di automi presente sulla faccia della terra. Andavano vestite di rosso ed erano di “sesso” femminile. Erano more. Truccate come negli anni Sessanta. Il loro scopo era quello di uccidere ogni umano presente sul pianeta – nessuno sapeva esattamente perché. Il mio invece era quello di sterminarle.

In genere se ne stavano rintanate nei loro quartier generali. Quel giorno mi ero introdotto in uno di essi. Così, nascosto nei cunicoli del pavimento, ne vedevo passare a frotte, tutte nelle loro scarpe di vernice nera, le calze bianche col vestito lungo rosso e il rossetto dello stesso colore, armate di fucili a pompa a lungo raggio. Ogni tanto mi tiravo su e ne impallinavo una.

Tuttavia a un certo punto si erano accorte di me, per cui dovetti cominciare a sparare a raffica finché non le ebbi giustiziate tutte. Alla fine ne avevo fatte fuori una quarantina. Niente male, eh, per un solo agente della V.H.G.T.?

Soddisfatto di me, già pronto per un viaggio di completo relax, mi premiai mangiandomi una barretta energetica al gusto banana-kiwi e mi imbarcai sull’astro-treno che mi avrebbe ricondotto a casa.

Ma ricordate quando vi avevo detto che le donne amazzoni erano solo la tipologia di androidi più comune e anche riconoscibile? Appunto, state a sentire…

Poco dopo che mi ero seduto, mi accorsi che alcune di esse, non più di sei o sette, erano presenti sull’astro-treno. Stavolta, per non farsi riconoscere, avevano addirittura cambiato look – il che rappresentava per loro un notevole salto di qualità. Qualcuna indossava un cappellino col velo che nascondeva il volto in maniera che non si capisse che erano sorelle. In più si erano sparpagliate in posti diversi della vettura. Chissà dove si stavano recando. Forse un nuovo luogo da colonizzare.

Beh, non mi rimaneva che intervenire neutralizzando anche queste. Così, dopo essermi girato l’immenso scompartimento e aver individuato la posizione di tutte, sfoderai l’arma, misi in bella vista il distintivo in maniera che la gente non mi ritenesse un terrorista e cominciai a darmi da fare facendo attenzione che nessuna mi scivolasse non vista alle spalle.

Le prime due le freddai alla schiena senza che se ne accorgessero. I colpi che sparavo erano chirurgici e silenziati, così in principio i passeggeri che erano intorno non compresero che era a causa mia se quelle donne cadevano improvvisamente come svenute.

Ciononostante presto furono gli stessi passeggeri a cominciare ad urlare allertando le amazzoni androidi. Allora esse, impugnando le armi, uscirono allo scoperto con un atteggiamento belligerante. Fortunatamente non erano connesse tra loro. Se lo fossero state, le informazioni ricavate le une dalle altre avrebbero fornito loro la mia posizione all’istante. Ma c’è anche da dire che se si connettevano sarebbero state scoperte ancor prima di metter piede sulle vetture perché il treno era dotato d’un potente software di sicurezza in grado di imprigionarle.

Mi nascosi a terra, come avevo fatto nel loro QG. Era, quella, una tecnica piuttosto efficace e consolidata che raccomandavano sempre al corso per killer di androidi. Nascondersi e sparare, per spiazzarle. Con quella strategia ne feci fuori altre tre.

Ma ce ne erano altre che, dandomi la caccia tra gli interstizi dei posti a sedere, riuscirono effettivamente a scovarmi proprio mentre ero scoperto e stavo ricaricando l’arma. Così sarei sicuramente perito se non avessi fatto quella manovra… Agguantai la speciale manopola inserita nel mio abito e la girai. Si trattava in realtà di un dispositivo a corto raggio in grado di far esplodere una mini bomba presente nel corpo delle androidi. Così mi bastò girare quella fenomenale rotellina e quelle amazzoni, che fino un secondo prima mi si stagliavano sopra minacciose, esplosero da dentro spezzandosi in due o tre parti.

Tuttavia quell’operazione non bastò a disattivare un’amazzone superstite di cui prima non mi ero accorto. Essa era troppo lontana da me per entrare nel raggio d’azione della rotellina della morte.

Quando mi rialzai in piedi, gli altri esseri umani mi guardarono con grande ammirazione. L’ultima amazzone stava creando un gran casino tra strepiti, spostamenti rapidi tra sedili e altro. Un signore vestito tutto di nero che sembrava molto forte e sicuro di sé, all’apparenza un brizzolato sui cinquanta che se li portava bene, media altezza, occhi neri glaciali e un perenne sorrisetto sulle labbra, coraggiosamente assestò all’ultima delle amazzoni una tal botta che la mandò a sbattere sul muro dello scompartimento, disorientandola non poco, quasi le fece sfondare il finestrino che pure era assai rinforzato e certificato come infrangibile. Poi estrasse dal soprabito lungo un cannone nero lucente che nelle sue mani sembrava essere assai leggero, ma non doveva poi esserlo molto, e le scaricò addosso tre colpi che la frantumarono annientandola.

A quel punto le amazzoni androidi erano tutte cessate, non potevano più essercene altre. Ciononostante non ci fu neppure il momento di esultarne che mi fu chiaro che un ben peggiore pericolo adesso mi sarebbe piovuto addosso a tutta velocità. Infatti quando l’uomo brizzolato sterminatore si voltò verso me compresi subito che anche lui era un androide, ma di quelli molto più potenti, evoluti e autocoscienti. Per fortuna erano una rarità. Nessuno sapeva bene cosa pensassero. Erano molto forti e intelligenti, insomma proprio di una categoria superiore. Nati per errore nel momento in cui gli scienziati ingegneri avevano cercato di renderli più umani. Ci erano per certi versi riusciti. Solo che questo tipo di nuovi androidi, che noi etichettavamo come F.O.O.L., fin dai primordi si erano dimostrati ingestibili. E rapidamente si erano sparpagliati nel mondo. Nella maggior parte dei casi si limitavano a confondersi con la popolazione approfittando del fatto che fossero meno riconoscibili degli androidi della generazione precedente. Ma uno come me aveva comunque imparato a identificarli. Mi bastava poco per mettermi sul chi vive. Quel sorrisetto fermo, per esempio, particolarmente diabolico e sardonico, era uno dei loro marchi di fabbrica…

L’androide brizzolato cominciò a mitragliare ferocemente col suo cannone. Mi gettai ancora sul pavimento. Tentati di battermela nella speranza che non capisse dove fossi. Ma la sua arma era davvero un portento e bastava un colpo per far saltare per aria una poltrona. E il tipo sembrava non lesinare affatto sui missili avendone a disposizione innumerevoli.

Quando mi fu vicino perché come un segugio mi stanò dal mio nascondiglio, per riflesso ruotai la rotellina inserita nella mia giacca. Sperai in quel modo di fargli saltare le cervella. Ma lui sorrise ancor di più, mi puntò la sua grossa arma in faccia e mi piantò un colpo in mezzo agli occhi.

Già, la rotellina prodigiosa non funzionava con i nuovi modelli, e io lo sapevo pure. Ma, cosa volete: quando uno si trova in certe situazioni si aggrappa a tutto…

Da allora la vita che conduco è molto più… statica. Sono stato “salvato”, dicono loro. E pre-pensionato, ovviamente. Faccio il cameriere lobotomizzato presso il bar maggiore della megalopoli Starface. Non ho più emozioni. So parlare ancora, ma solo perché hanno totalmente ricostruito la mia faccia. Sono coartato a fare tutto il giorno le stesse cose, eseguire gli ordini di quelli che sono interamente umani. Chiaramente non ho perso i ricordi del tempo passato.

Delle volte mi chiedo: ma è vita questa? Come possono avermi umiliato in questo modo, proprio io che ero il killer di androidi più fenomenale sulla faccia del pianeta?

Poi talvolta infine confesso di chiedermi una cosa a cui non avevo mai seriamente pensato finché ero ancora umano: ma non è che gli androidi facciano bene a desiderare di vedere gli esseri umani… estinti?

Ammetto che certe volte sono più dalla loro parte che dalla mia…

Già, la “mia”. Non dovrei usare questo termine, dato che ora io non ho proprio nessuna parte. Né di qua, né di là.

Adesso mi spengo fino a domani. Ho finito di sparecchiare.

CFHHT-TUUMHHHHHHH!

L’altra metà della storia (film)

Avevo letto il libro di Barnes che ha fornito l’ispirazione a questo film, il quale ora ho potuto vedere.

Posso dire con serenità che sia abbastanza fedele alla storia originale, anche se qui il finale non è per niente perentorio come nel libro (e la trama appare semplificata).

Posso dire che il film mi è piaciuto ed è disponibile su RaiPlay.

In questa versione si pone l’accento su particolari che nel libro non avevo colto (almeno nell’importanza che qui gli si attribuisce). Il che mi ha fatto molto riflettere.

Anche qui il fruitore dell’opera probabilmente avrebbe desiderato avere maggiori spiegazioni circa la questione/colpo di scena su cui ruota l’intera vicenda.

Un uomo ormai anziano riceve una strana eredità da parte della madre… di una sua ex. Ma la cosa ancor più strana è che appunto quella sua ex non vuole dargli una parte di essa. Come mai? E di cosa si tratta? E perché la madre gli ha voluto fare quel lascito, proprio a lui, se neppure erano tanto intimi?

L’anziano avrà modo di riconsiderare la propria esistenza, non limitandosi più a millantarla od ometterla.

Viaggio (in pandemia) #4

(FRECCIA ARGENTO)

Nella stessa stazione di Verona in cui siamo giunti, tra mezz’ora parte il Freccia Argento che dobbiamo prendere, che ci porterà a Roma, la nostra destinazione finale.

Troviamo il binario facendo uno strano slalom tra salite e discese di scale. Porcocazzo, non ci sono ascensori. E se uno non ce la fa o è disabile come cacchio fa? Mah, voglio sperare che qualche ascensore ci sia ma sono io che non l’ho visto.

Sulla banchina arriva una brutta puzza, come di plastica bruciata. Ahiahiahi, penso. Ecco che il mio sistema cardiovascolare, che è stato semplicemente eroico fin qui, dovrà soggiacere a questo…, pavento. Rinnovo mentalmente i trucchi che mi sono portato dietro qualora mi sentissi male. Liquirizia, per alzare la pressione. Acqua minerale se la situazione è molto più grave e mi dovessi trovare tipo senza forze…

Cammino nervosamente sulla banchina cercando l’origine della puzza. La trovo facilmente. Una locomotiva giace come abbandonata nel binario di fronte a noi: non ha alcuna carrozza da trascinare. Deve aver subito un guasto. Però che cazzo!, toglietela da lì, che puzza, porcocazzo!

Ogni tanto udiamo i messaggi vocali rilasciati dall’altoparlante in cui si informa che alcuni treni vengono cancellati. A un certo punto strippiamo alla grande perché viene citato proprio il nostro treno… Ma per fortuna capiamo che stanno solo dicendo il binario su cui si materializzerà. Fiuuu, siamo salvi. Il treno sta per giungere in stazione.

Infatti tempo cinque minuti arriva e possiamo salire. Altra bella gioia: è quasi vuoto! Mi verrebbe da urlare dalla contentezza ma poi mi accorgo che tra le poche persone già presenti ce ne sono alcune che dormono proprio. Allora mi sto zitto.

Il treno parte e io sono felice: l’aria è scaldata, ma meno che sul pullman e sul regionale; stiamo comodi – abbiamo preso i posti vicini, chiaramente.

Passa una steward che ci elargisce un dono della compagnia. Nelle due buste in carta che ci vengono consegnate troviamo: acqua da bere, gel per pulirsi le mani, volantini informativi sulle regole da seguire e una mascherina nuova di zecca fiammante ancora nella plastica.

L’unica cosa che mi contraria circa questa prima parte del viaggio è che mi rendo conto che il wifi ha qualcosa che non va, è quasi inutilizzabile; ma pazienza. Son ben altri i problemi del mondo.

Dietro di noi c’è una ragazza svociata che esegue lunghe conversazioni telefoniche piuttosto accorate. Più volte è sul punto di piangere. Chissà che problemi ha, mi chiedo. Mi sento fortunato perché io il mio amore ce l’ho qui davanti, e non credo che lei mi metterà mai nella situazione disastrata in cui si trova adesso la ragazza, che non deve essere affatto felice.

Sono così rilassato che riesco perfino a leggere per un’ora ininterrotta dal lettore elettronico della mia fidanzata.

Passa il controllore, mostriamo il biglietto tramite lo smartphone e siamo in regola. Che figata la tecnologia davvero amica dell’uomo.

A Bologna salgono altre persone ma il treno ancora si può dire che sia semivuoto.

Ne approfitto per mangiare qualcosa. Tuttavia non voglio espormi ai germi presenti in bagno, a cui dovrei accedere per lavarmi le mani. La mia fidanzata mi spreme un po’ di amuchina sulle mani. Così adesso posso mangiare con le mani. Apro due pacchetti di Fonzies in successione. Cerco di ingollarle direttamente dalla busta senza toccarle, come fossi un tacchino coartato con un tubo in gola, ma i piccoli riccioli di mais si incastrano l’un l’altro rendendo questa operazione spesso impossibile. Così alla fine lo faccio: mangio con le mani pregando che quella poca patina di amuchina sia in grado di proteggermi dal virus del covid. Tra due settimane scoprirò se ha funzionato, penso tra me e me – per la cronaca: non mi sono ammalato.

A seguire bevo perfino un succo di frutta molto acquoso all’arancia – sempre per quel discorso che ho poca acqua nel sangue. Non me la sento di eccedere col cibo o nel bere, perché vorrei proprio evitare di andare in bagno. Sicuramente, una volta arrivato a casa, mangerò qualcos’altro e orinerò.

A Firenze salgono altre persone, e qui sì che ci ritroviamo davvero belli pieni.

L’aria comincia a mancare, si fa più satura di anidride carbonica. E il rumore delle persone intorno non mi aiuta a mantenermi quieto.

L’ultima parte del viaggio è la più pesante in assoluto. Il tempo non passa mai. Mancherebbe adesso solo un’ora e mezza – che rispetto al tempo già trascorso sarebbe ben poca cosa – ma ogni volta che guardo l’orologio mi rendo conto che sono passati solo pochi minuti dall’ultima volta che ho controllato.

Per ingannare il tempo provo a dormicchiare, ma serve a poco.

Continui messaggi dagli altoparlanti ricordano di non abbassare la mascherina. Io invece ce l’ho al naso, per respirare un po’ meglio. Proprio durante uno di essi, incrocio lo sguardo accusatorio di un signore anziano salito nel gruppo rumoroso di Firenze. Io un po’ reggo poi mi sento in dovere di ritirarmela su, anche se sarei tanto tentato di sbottare dicendogli: caro signore, lei che ne sa di me? Perché mi accusa? Sa che io sono un soggetto asmatico? Sa che se mi viene l’asma potrei anche morire? Sa che i soggetti asmatici possono anche non tenerla la mascherina? Allora perché rompe il cazzo guardandomi a quel modo? Sa che io ho più diritto di vivere di qualsiasi anziano supponente idiota sulla faccia del pianeta? Allora perché non la smette di rompere il cazzo e si volta dall’altra parte invece di guardare sempre nella mia direzione? Vuol denunciarmi al personale di bordo? Faccia pure, tanto io non ho nulla da nascondere! Non posso mica morire solo perché qualcuno è ottuso!

In una maniera o nell’altra, facendo finta di dormire, mi faccio calare la mascherina sotto il naso, come prima…

Poi il tempo passa fino a ritrovarci a Tiburtina, che è già Roma, è la fermata immediatamente prima della nostra (cioè Termini).

Sarei tentato di scendere ora, dico alla mia amata: da qui si allunga solo di altre quattro fermate di metro. Tuttavia non me la sento di eseguire questa scelta mai sperimentata prima proprio adesso, che è già notte; semmai facciamo un’altra volta, stabiliamo.

Incredibilmente addirittura finisce che il treno ci porta a destinazione ben dieci minuti prima dell’orario di arrivo, e se fossimo scesi prima ci avremmo impiegato più tempo, credo…

Paul Auster: Follie di Brooklyn

Ecco, qui Auster non sembra tanto Auster bensì Philippe Roth. Perché io identifico Auster con delle storie imprevedibili in cui la tensione la fa da padrone, mentre in questo caso ci troviamo di fronte a una storia “familiare” con svariati personaggi che vivono le proprie esistenze più o meno ordinarie. Dunque di misteri ce ne saranno pochi. Non mancheranno momenti di noia, felicità e tristezza, però, perché sono queste le componenti usuali della vita…

Un uomo un po’ anzianotto che ha appena sconfitto il cancro decide di passare un po’ di tempo nei luoghi della sua infanzia. Rincontra così vecchi parenti di cui bene o male aveva perso le tracce. Anche loro hanno avuto i loro alti e bassi… In una maniera o nell’altra la sua presenza reinderizzerà la vita di chi gli è attorno sui giusti binari…